Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.18 (2020)
ISSN 2280-9481

Colpire il cuore dell’informazione. Critica e pratica artistica per un corretto uso militante del videotape

Andrea CaprioloUniversity of Udine (Italy)

Andrea Capriolo is a Ph.D student at the Università degli Studi of Udine with a research concerning the artistic and cultural activity in the social centers occupied in Milan between the seventies and the eighties. For some time he has focused his interests on the study of the “antagonistic” cultural practices of  the late twentieth century. In recent times, in particular, he has been devoting himself to the study of the exo-editorial magazines of the Italian extra-parliamentary left, intertwining the purely artistic elements with the political and social implications of that period.

Pubblicato: 2020-12-28

Striking the Heart of Information: Criticism and Artistic Practice for a Correct Militant Use of the Videotape.

Abstract

This article delves into the “militant” use of videotapes in the 1970s. Starting from the intuitions of Pio Baldelli, who promoted the use of this tool as an element capable of creating a “counter-information” communication practice, we analyze the intellectual position that Roberto Faenza had towards videotape. As Faenza claimed in his text Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, through videotapes it was possible to create not merely a practice of counter-information – as it was for Baldelli – but a more ferocious practice of informational antagonism, going beyond the duality of theory and practice  of the information world. These theses will then be applied, as a specific case study, to the artistic work of the Laboratorio di Comunicazione Militante, which used the videotape both to create an alternative sociality to institutional artistic practices – in this case, the exhibition Ambiente come sociale of the Venetian Biennale of 1976  is analyzed – and as an element to create confusion in the logic of everyday information.

Keyword: Laboratorio di Comunicazione Militante; Videotape; Videoteppismo; Controinformazione; Comunicazione.

Nessun oggetto prodotto dal sistema può “fare” la rivoluzione. Nessun “cinema verità”, che sia girato con una macchina da presa o con un videotape, sfugge al dominio dell’ ideologia capitalista. (Alberto Grifi)

1 Pio Baldelli, Luciano Giaccari e Roberto Faenza: tra videoteppismo e attivismo socioculturale

I padroni hanno bombe, fucili e ogni mezzo di distruzione, ma ci sono altre cose importanti che i padroni hanno, come la radio, la TV, la stampa e ogni altro mezzo per spargere menzogne sulle lotte proletarie e per tenerci divisi; anche di questo strumento dobbiamo cominciare a impratichirci e a impossessarci, perché ci servono e perché queste azioni danneggiano i padroni e li colpiscono nel cuore del loro potere e della loro sicurezza

Nel settembre 1970 il giornale “Lotta Continua” dava così inizio a una “campagna di studio” sui problemi riguardanti l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione da parte dell’apparato repressivo istituzionale. Quale quesito di fondo, si poneva l’indagine delle incertezze inerenti a come tali strumenti potessero eventualmente essere adoperati nel modo corretto per fare della proficua controinformazione1 dai militanti della sinistra rivoluzionaria. Trascorso il periodo idealista e utopico sessantottino, sfociato successivamente nelle lotte operaie e studentesche dell’autunno caldo, la repressione statale non tardò nel concepire l’idea di potere controllare e piegare alle volontà governative e giudiziarie i mezzi di informazione di massa quali radio, televisioni e giornali, al fine di scoraggiare nuove pratiche sovversive e rivoluzionarie.

Fu dai primi mesi del 1970 che all’interno dei periodici di movimento si pervenne a un ampio dibattito inerente tali aspetti. Attento a queste novità comunicative e relazionali, Pio Baldelli, direttore responsabile di “Lotta Continua” a partire da quell’anno, fu uno dei massimi teorici e studiosi del fenomeno della comunicazione di massa e degli aspetti della controinformazione massmediale. Nel novembre 1970 lo studioso pubblicò sulla rivista “Quaderni Piacentini” un primo breve quanto fondamentale testo dal titolo Alcuni esempi di informazione e controinformazione, tramite il quale diede inizio a un ampio e proficuo dibattito sul fenomeno dell’informazione nella nuova società venutasi a creare dal periodo “caldo” delle lotte operaie e studentesche. Fin dall’apertura dell’articolo, Baldelli definiva quali erano le storture e i dispositivi utilizzati dai mass media “istituzionalizzati” per contrastare l’esercizio controinformativo così come instaurato dei giovani contestatori. Per lo studioso, nel linguaggio radio-televisivo vi era innestato un espediente che dava l’impressione al pubblico di star assistendo o partecipando ad un evento reale, al quale, tuttavia, erano state tolte tutte le radici e i nessi logici che avrebbero consentito allo spettatore di poter partecipare effettivamente alla creazione del codice visivo e informativo (Baldelli 1970: 84). Veniva a crearsi, in questo contesto culturale, un pubblico passivo e prono nei confronti di una visione privata del mondo intellettuale. La televisione diveniva, pertanto, strumento abile a svolgere questa funzione; sottolineava Baldelli, a tal fine, che essa “ha promosso la questione dei rapporti con il potere”, diventando, di fatto, uno strumento di dominio istituzionale in qualsiasi parte del mondo dove essa fosse in funzione. (Baldelli 1970: 84). Non pare di scarso interesse, in questo contesto di anni e in tale circostanza di analisi, notare come i primi anni Settanta vedevano affiancarsi al monopolio nazionale della RAI un secondo ente, questa volta di natura giuridica privata, che faceva della comunicazione, se possibile, elemento ancor di più estraneo ad un suo possibile uso sociale: il caso di Telebiella di Giovanni Sacchi, primo esperimento di TV via cavo in Italia, fu sintomatico. Sacchi, infatti, seppur aveva creato la sua rete televisiva con l’intento di promuovere un’informazione quotidiana e democratica, sosteneva un tipo di comunicazione monodirezionale e, dunque, non partecipata, dove il ricevente si poneva in posizione passiva davanti all’evento narrato. Baldelli, tuttavia, riconosceva al movimento sociale la capacità di agire sulle sovrastrutture della comunicazione di massa; tale azione avrebbe portato alla riappropriazione del mezzo televisivo consentendo il capovolgimento dei rapporti di forza instaurati dalla televisione istituzionale. Il fine di tale operazione era di permettere ai contestatori di intervenire nella creazione dell’evento comunicativo e non di aver semplicemente l’impressione di poterlo costruire: solo nel seguente modo, per l’autore, si poteva pervenire alla corretta decodifica dei messaggi radiotelevisivi (Baldelli 1970: 84). Secondo Baldelli, per giungere a una corretta decifrazione del messaggio massmediale, occorreva procedere attraverso due passaggi programmati. Quale prima operazione si doveva pervenire a considerare la lotta contro il sistema radiotelevisivo quale momento di conflitto in una dinamica di antagonismo di classe sociale, che si ponesse in contrapposizione con il sistema repressivo statale. Uno scontro che si mostrava necessario e abile a creare riformati modi di produzione comunicativa, tali da permettere alle masse la partecipazione in prima persona all’organizzazione dei programmi (Baldelli 1970: 85). Come seconda operazione, dopo essere pervenuti alla creazione di fenomeni di partecipazione “militante”, si doveva giungere a istituire dispositivi e modi di controinformazione capaci di interventi tempestivi nel campo della comunicazione massmediale. L’obiettivo che Baldelli si poneva era di creare, dunque, una partecipazione di massa, che si sarebbe dovuta concretizzare tramite l’istituzione di “collettivi di lavoro capaci di realizzare un rapporto dialettico e una costante collaborazione tra gli ‘specialisti’ e le masse nel cuore del processo produttivo” (Baldelli 1970: 85).

Sull’impronta tracciata da questo sintetico quanto mirato intervento, nel 1972 Baldelli pubblicava per la casa editrice Mazzotta Informazione e contro informazione un corposo volume nel quale si ampliava e integrava quanto già in nuce era stato fatto osservare su “Quaderni Piacentini”. Tesi di fondo che l’autore esponeva nello studio, era di realizzare un’approfondita analisi sul termine controinformazione verificando come poteva operare un circuito controinformativo nei confronti delle masse sociali popolari e proletarie aiutando tempestivamente la causa rivoluzionaria. Per lo studioso la controinformazione non si manifestava né come linguaggio che prendeva in “contropiede” l’informazione, né si rivelava come una semplice azione di “guerriglia” mediante la quale centinaia di individui-addestratori potevano insegnare al popolo a leggere in maniera critica i messaggi che gli giungevano trasmessi dai mass media istituzionali. Secondo Baldelli andava tenuta concretamente distinta “l’informazione di massa dalla comunicazione di classe” (Baldelli 1978: 103). Il processo controinformativo, per l’autore, principiava le sue operazioni quando veniva a mancare ogni pur minima soglia di informazione, quando le notizie trasmesse dai media istituzionali risultavano alterate nei contenuti e manomesse nella tecnica espositiva: questo in quanto i circuiti di controinformazione si ponevano come integrati nello scontro di classe e apparivano caratterizzati da contenuti ideologici non meramente propagandistici. Da questo processo si innestava – di necessità – la volontà di far operare la controinformazione in maniera elastica, sia all’interno delle istituzioni che all’esterno di esse. Proseguiva Baldelli nel suo scritto: “la distingue inoltre una tecnica snodata, mobile, smontabile; decentrata o accentrata, a seconda delle circostanze e dell’urgenza […] si realizza alle spalle dell’informazione normale” (Baldelli 1972: 14).

Ma quale era lo strumento necessario alla controinformazione per raggiungere il suo scopo? Per Baldelli, dispositivo fondamentale per risolvere questo problema era il processo rivoluzionario, considerato come atto scatenante dello scontro di classe e dell’antagonismo sociale. Solo tramite di esso si poteva tentare di risolvere il problema cardine della cultura sociale di inizio anni Settanta: la “maturazione del pubblico” (Baldelli 1972: 400). Tale era, infatti, un processo/prassi che si manifestava grazie alle molteplici sfaccettature del mondo della cultura materiale: lo studioso, a tal proposito, elencava in una serie di strumenti – dalle canzoni suonate con delle semplici chitarre, ai manifesti a stampa, i bidoni a percussione, le assemblee popolari, i film, la fotografia e la fotocopiatrice – utili a fagocitare le masse e far apprendere loro, attraverso tale corso destabilizzante, un nuovo codice linguistico controinformativo. Nello specifico, Baldelli si soffermava sull’analisi del videotape, che veniva considerato apparecchio fondamentale per far maturare la coscienza di classe e far nascere il processo rivoluzionario: non pare da trascurare che nel volume, a tal fine, al videotape era dedicato un apposito paragrafo (Baldelli 1972: 400-5). Tale strumento, infatti, veniva definito come apparecchio “primario per lo sviluppo della dialettica interna all’organizzazione, per la controinformazione” (Baldelli 1972: 402). Seppur Baldelli riconosceva che, come ogni altro congegno tecnologico, anche il videotape nasceva per volontà della classe borghese che lo usava per accrescersi e rafforzarsi, innestando le sue capacità repressive con funzione di sorveglianza nei luoghi di lavoro e nelle scuole, ne individuava altresì una portata rivoluzionaria e controinformativa quando esso veniva impiegato dai “proletari”. Essi, infatti, avrebbero potuto utilizzarlo per “accelerare la comunicazione all’interno della classe” (Baldelli 1972: 403). Il videotape, nella sua ottica, non si manifestava quale semplice supplemento del lavoro politico – come poteva presentarsi il ciclostile – ma si manifestava come vero e proprio strumento di controinformazione e di analisi non mediata dalle strutture della società borghese: “Non proponiamo il videotape solo come strumento tecnico supplementare per il lavoro politico, un nuovo modello di ciclostile più efficiente e veloce, ma anche come nuovo strumento di analisi e controinformazione, di sintesi e di spettacolo, di dialettica e di comunicazione non mediata, capace di contribuire alla riunificazione del proletariato” (Baldelli 1972: 403). Per questo Baldelli auspicava che il videotape potesse raggiungere “sempre più quartieri, scuole, piazze, paesi e campagne”, diventando in tal modo uno strumento controllato dalle masse proletarie e diretto alle stesse.

Organizzando un corposo nucleo di “oggetti” atti a creare tale processo relazionale, dove il videotape emergeva con preponderanza, si deduceva che l’autore scardinava la concezione primaria di Marshall McLuhan esplicitata nella frase “The medium is the message”, che faceva dello strumento comunicativo elemento cardine nel trasportare il messaggio alle masse: nel testo di Baldelli, viceversa, notiamo come il messaggio si mostrava prevaricatore sul medium. Se differenti mezzi di comunicazione erano in grado di produrre il codice informativo (il messaggio), si poteva dedurre che il messaggio stesso era indipendente dallo strumento con il quale esso veniva trasmesso. Chiosava, a tal fine, lo studioso, recuperando un altro importante scritto da lui pubblicato sul numero 163 di “Aut-Aut”: “il ‘mezzo dipende da chi controlla’, non il ‘mezzo condiziona il messaggio’” (Baldelli 1978: 103).

Il medesimo dibattito, seguendo l’interesse portato verso il videotape da Baldelli, venne sottolineato negli stessi anni anche da Luciano Giaccari, che sulle pagine della rivista “Photo 13” intervenne a proposito dell’apparato controinformativo così come promosso dal videotape e dalla televisione a circuito chiuso. Giaccari, nel suo breve scritto, trascurando la funzione di “classe” di questi strumenti, ma recuperandone il valore di controinformazione, arrivava a sostenere che tali nuovi mezzi di comunicazione si proponevano alla massa sociale come dispositivi capaci di creare “situazioni nuove in cui l’informazione (che è unidirezionale) si trasformi, in situazioni alternative, in comunicazione (che è bidirezionale) e cioè in una situazione di dibattito” (Giaccari 1973: 13-4, Gallo 2018: 294). In questo modo si perveniva all’istituzione di contro-corsi scolastici, di televisione di quartiere o di paese, ma anche di nuclei mobili di operatori, che fossero in grado di raggiungere località decentrate dove poter svolgere un lavoro sociopolitico. Giaccari, in tal senso, constatava nella TV a circuito chiuso e nel videotape potenzialità di istantaneità e di semplicità di impiego, nonché la caratteristica “dell’immediatezza del linguaggio” utile a questo scopo (Giaccari 1973: 13-4, Gallo 2018: 294). Per tale motivo, riconoscendo la portata rivoluzionaria in senso controinformativo del videotape, auspicava che esso potesse essere utilizzato non solo con la finalità di produrre un’informazione non mediata, ma come vero e proprio “oggetto” dotato delle capacità di creare una concreta comunicazione che rendesse cosciente la popolazione dei fatti che potevano gravitargli attorno.

La necessità di portare la “voce” dello strumento nella case della cittadinanza, come visto, non era di certo un problema marginale nel dibattito critico, se alcuni tra i maggiori studiosi del tempo si impegnarono nella definizione di un codice d’utilizzo; ma come si potevano collegare tra di loro differenti apparecchi televisivi per consentire una trasmissione in simultanea? A dirimere i dubbi intorno a tale incognita empirica interveniva Roberto Faenza, che nel 1973 pubblicava per Feltrinelli un fondamentale testo intitolato Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione che già dal titolo – in pieno stile militante anni Settanta – denotava una volontà comunicativa di guerriglia, antagonista, non più passiva né mediata. Nel testo si definiva una pratica libertaria dell’utilizzo del mezzo di comunicazione, e si fornivano gli strumenti pratici necessari a chi si volesse impegnare nella pratica contro-comunicativa: infatti, per recuperare quanto diceva l’autore con spregiudicatezza “Senza chiedere permesso è innanzitutto un manuale per l’azione, che non va letto e contemplato, ma messo in saccoccia e usato” (Faenza 1973: 14). Il volume, che diventò di importanza capitale per chi in quegli anni voleva approcciarsi in senso antiautoritario e libertario alla pratica registica, ruotava attorno alla necessità, da parte di coloro che volevano cimentarsi con la nuova tecnica, di impadronirsi del mezzo di comunicazione, in particolare del videotape, per poterlo utilizzare quale apparecchio in grado di organizzare una pratica comunitaria ed esistenziale di controinformazione: “Il problema è, da una parte come neutralizzare chi controlla i mezzi di comunicazione per passivizzare e mortificare sempre di più la nostra vita sociale, dall’altra come utilizzare gli stessi mezzi di comunicazione per stimolare la nostra partecipazione e servire i nostri bisogni reali.” (Faenza 1973: 22). Per Faenza, il tempo dei concettualismi e dell’attendismo era giunto al termine: esso era stato scavalcato dall’età della ribellione, la quale si era mostrata in grado di creare un nuovo periodo storico che si era manifestato tramite la volontà di costruire tangibili possibilità di “antagonismo informazionale”. In tale modo si era riusciti a valicare la dualità tra teoria e prassi ed era nato il problema di analizzare cosa era informazione e cosa era, invece, controinformazione. Partendo dal riscontro che tutti i mezzi di comunicazione erano “castrati nella loro potenzialità” (Faenza 1973: 17) in quanto utilizzati dalla strutture della società borghese solo per informare e non per comunicare, ne derivava che, una volta capito il meccanismo di controllo esercitato dei media su queste sovrastrutture, i militanti che si sarebbero cimentati con queste nuove pratiche informative conquistavano “il vantaggio minimo di poter guardare con sospetto non alla radio, ai giornali e alla televisione, ma a chi ne possiede il controllo.” (Faenza 1973: 14). In questo senso scaturiva la necessità di oltrepassare la mera e semplice informazione, anche di classe, per arrivare a un proficuo e reale processo comunicazionale: uno sviluppo che, nell’ottica dell’autore, si poneva come parte integrante del processo rivoluzionario e che pertanto, proprio in quanto parte integrante del percorso atto a creare tale moto, poteva essere portato a termine dalle masse sociali e proletarie di per sé “rivoluzionarie” (Faenza 1973: 41). Per pervenire a questo nuovo uso dei mezzi di comunicazione era necessario che le masse salariate potessero impossessarsi di tali mezzi e imparassero a usarli per i loro interessi quotidiani. Una grande speranza, come si evince da quanto esposto, era affidata alle capacità comunicative e creative della massa proletaria: si passava da un’idea di raggruppamento anonimo, il quale doveva essere sostenuto per manifestare le sue necessità, a un modello di massa decodificato come entità capace di organizzarsi autonomamente. Si presentava, di conseguenza, una società comunicazionale duale, l’una verticale – il raggruppamento anonimo – dove i mezzi di comunicazione erano utilizzati solo per informare e non per comunicare, e l’altra orizzontale – la massa decodificata – che si manifestava come comunicazione che si muoveva “dalle messa alle masse” (Faenza 1973: 47). Emblema di questa comunicazione orizzontale era, per Faenza, come per Baldelli e Giaccari, il videotape. Perché proprio questo strumento, ci possiamo chiedere? La risposta a questo interrogativo ci perviene dallo stesso Faenza, che individuava nel videotape lo strumento che consentiva una “infiltrazione più immediata” degli apparecchi televisivi. (Faenza 1973: 48). In particolare erano due le intuizioni dall’autore riguardo le possibilità di radicazione territoriale di tale mezzo comunicativo: la prima riguardava la capillarità di diffusione degli apparecchi televisivi e degli spettatori sul suolo italiano “per cui la televisione è di fatto il solo mezzo di informazione ‘comune’ alla masse”, la seconda suggeriva che “per la prima volta un mezzo di comunicazione può passare dalle mani degli esperti e dei professionisti alle mani dei non esperti e dei non professionisti.” (Faenza 1973: 48). Da quanto esplicitato, dunque, si notava il fondamentale apporto dato dal videotape alla diffusione del messaggio controinformativo. A rimarcare quanto appena chiarito intervennero, in chiusura di Senza chiedere permesso, Baldelli e Goffredo Fofi che, tramite un breve scritto, esplicitarono maggiormente quanto asserito da Faenza. In esso, i due autori, rimarcando il concetto di “attivismo comunicativo”, suddividevano tale processo tra verticale e orizzontale. Partendo dal concetto che ormai, in una società a capitalismo avanzato, i mezzi di comunicazione svolgevano sempre di più una funzione di produzione di consenso e di manipolazione delle coscienze, rimarcavano come vi era un grosso limite da parte dei critici e degli studiosi dei mezzi di divulgazione, nell’affrontare la situazione legata al mondo dell’informazione partecipata. Tutto questo si manifestava in una rinuncia da parte degli intellettuali di mestiere, che li portava non ad affrontare la situazione, ma meramente li conduceva a riflettere e contemplare distaccati su quello che facevano gli organismi di potere (Faenza 1973: 219). Anche per Baldelli e Fofi si doveva pervenire a una socializzazione del mezzo di comunicazione, portando lo strumento “dalle masse alle masse”. L’obiettivo dichiarato dai due studiosi, ancora una volta si manifestava nella volontà di creare dei fenomeni di comunicazione “orizzontale” che potessero manifestarsi come processi controinformativi caratterizzati da “contenuti ideologici scavati, non ripetitori, non meramente propagandistici, ‘radicati’ nei luoghi di lavoro politico e non visitazioni apostoliche, dall’esterno, annuali o mensili.” (Faenza 1973: 221). Il testo di Faenza, forse per la prima volta, poneva concretamente le basi in Italia per la nascita di quel fenomeno che oggi definiamo videoattivismo; col videotape, non solo si operava collettivamente, ma si spostava l’attenzione dal prodotto (il video) al processo che lo generava, ossia al momento in cui si concretizzava la comunicazione orizzontale, il dialogo e la partecipazione attiva della massa sociale.

Del resto tali nozioni gravitanti attorno al concetto di processo comunicativo come esplicitato da Faenza, ed è un legame che merita interesse, erano già maturate in un contesto socio-culturale completamente differente da quello italiano. Questi ragionamenti provenivano dalla critica radicale newyorkese, all’interno della quale l’autore si era formato prima della pubblicazione di Senza chiedere permesso. Il concetto “città cablata” e di “riappropriazione del mezzo di comunicazione” emergevano dalle intuizioni del collettivo americano Guerrilla Television e in particolare nelle proposte di Paul Ryan, collaboratore del teorico dei media Marshall McLuhan, nonché autore del fondamentale articolo Cable Television: The Raw and the Overcooked pubblicato su “Radical Software” nel 1970, che fu considerato come la “bibbia libertaria” della comunicazione non mediata e che influenzò notevolmente anche le idee di Faenza. A tale proposito, merita attenzione soffermarsi su queste parole: “all non-private information will be available to anyone at anytime and place in any mode they want. Thought there is no way of saying for sure, it seems likely that cable will be a major conduit of this information from the data banks to the home communications centers. People will have freedom to the extent that they control the filtering process” (Ryan 1970: 12). Per i “guerriglieri” del collettivo statunitense sussistevano, da quanto si evince, possibilità di comunicazione non mediata, tramite le opportunità fornite dalla televisione via cavo. Per essi esisteva una profonda differenza tra process e product dell’esperienza artistica. L’informazione, infatti, era da loro intesa come processo e non come prodotto finale dell’atto comunicativo: l’utente doveva farne parte, entrarne in simbiosi, e contribuire alla creazione del processo relazionale per giungere, infine, al prodotto ultimo, latore dell’atto di controinformazione. La prova della relazione esistente tra process e product maturava, secondo i componenti del collettivo newyorkese, nella nozione di feedback: l’obiettivo delle operazioni di Guerrilla Television era che l’utente riconoscesse se stesso e prendesse atto delle proprie potenzialità quale protagonista di un processo in corso di attuazione.

Se la teoria del testo di Faenza ci consente di immergerci nella pratica “controinformativa” tipica degli anni Settanta, a livello pratico le intuizioni dell’autore non trovarono applicazione all’interno della militanza rivoluzionaria. Seppur il testo si poneva l’obiettivo di fornire al militante le “istruzioni d’uso” per formare un apparato di televisioni in contatto tra di loro, capaci di trasmettere allo stesso tempo le medesime informazioni, non si riuscì mai a sviluppare un vero e proficuo modello integrativo di differenti apparecchi televisivi. La “videomilitanza” non sfociò, salvo poche innovative esperienze apportate dal CCM (Collettivo Cinema Militante), dal collettivo Videobase e da Alberto Grifi, in una vera a propria pratica di videoattivismo (o di “videoteppismo”, secondo la dicitura di Faenza). Tali esperienze rimasero confinate alle poche occasioni di festa, durante le quali una collettività di soggetti veniva riunita davanti a un televisore, o alle sale cinematografiche, quando queste immagini venivano trasportate tramite vidigrafo su pellicola. Tale problema restava, tuttavia, un fattore risolvibile, in quanto Faenza – recuperando quanto già alcuni anni prima, nel 1970, aveva detto a tal proposito il teorico dei media tedesco Enzensberger (Enzensberger 1971: 74) – non considerava il videotape quale mezzo di mercificazione consumistica ma come strumento di organizzazione sociale: il videotape doveva essere letto come strumento di lotta e non di commercio. Da ciò derivava, tuttavia, che il prodotto/product rimaneva confinato all’interno dell’esperienza del processo/proces, non consentendo alle masse proletarie di fruire e beneficiare definitivamente dell’informazione “partecipata” registrata dal videotape. Risvolto opposto, invece, ebbero le radio libere, forse le uniche forme di manifestazioni culturali che riuscirono a far risaltare il prodotto dal processo consentendo, oltre che l’emergere di una comunicazione di guerriglia orizzontale e rivoluzionaria, la nascita di momenti di socialità non mediata dalle grandi aziende dell’informazione commerciale. La diatriba tra partecipazione condivisa e mediata, non era del resto problema secondario nella sfera della comunicazione di massa. Tali discussioni giunsero in Italia grazie agli scritti di Enzensberger (Enzensberger 1971: 58- 102), il quale riscontrava nell’impossibilità del mezzo di trasmissione di poter parlare alle masse sociali un problema politico/capitalistico e non tecnico. Le intuizioni dello studioso tedesco, vennero infine indagate e sdoganate nel territorio nazionale anche da Faenza quando, nel 1975, con la pubblicazione di Tra abbondanza e compromesso proclamava candidamente che la televisione via cavo “alternativa” e “partecipata” era caduta nella mani delle grandi corporations, abdicando di fatto ad ogni capacità da parte degli strumenti di comunicazione di non essere controllati e mediati dalle grandi multinazionali del settore.

2 L’uso “sociale” del videotape nella pratica artistica di contestazione

In quanto progredita e moderna tecnologia che si offriva a una maggiore democratizzazione del fenomeno della comunicazione sociale, il videotape diventò ben presto uno strumento di ampio dibattito popolare, molto discusso anche tra la frangia artistica della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta. Sul numero di “L'Erba Voglio” del marzo/aprile del 1975 venne pubblicato il manifesto programmatico del Gruppo Televisione di Brera – collettivo formato da alunni dell’accademia meneghina che si riuniva in un “laboratorio di 30 metri quadri e un magazzino di 20” (GTB 1975: 31) – intitolato L’occhio moltiplicato. In esso, partendo dall’assunto che “il padrone non si impicca col cavo [televisivo] – lo usa” (GTB 1975: 30), si precisavano le idee che questi studenti avevano nei confronti del videotape, dell’apparecchio televisivo e delle TV locali. Secondo questi studenti una televisione locale si sarebbe giustificata nella sua esistenza solo se avesse intuito il valore del videotape usato come il ciclostile “per un contatto istantaneo, simultaneo nei fatti, collettivo”, se, inoltre, “più che all’eccezionalità”, la televisione si fosse dedicata “ai tempi comuni normali e quotidiani” e, infine, se tali temi avessero espresso “gli interessi di un gruppo, un laboratorio, un comitato che su questi apre il circuito, interpretandoli” (GTB 1975: 30). Una televisione, come si evince da quanto detto, che si doveva porre l’obiettivo di collegare le strutture politiche e pubbliche aspirando, al tempo stesso, a organizzare l’autonomia delle unità locali di produzione informativa. Solo quando queste reti televisive fossero riuscite a connettersi con “distretti scolastici, centri sociali, bocciofile” (GTB 1975: 30) si sarebbero potute creare delle reali e proficue comunicazioni tra gruppi sociali che avrebbero consentito una corretta interpretazione del messaggio così come manifestato dal mezzo tecnologico. Come ancora ricordavano i membri del collettivo nel loro manifesto, solo con la mediazione della comunità sociale si sarebbe pervenuti al raggiungimento di tale obiettivo: la televisione, infatti, “è registrazione/trasmissione di un evento, simultaneamente al suo svolgersi, ripresa da più punti di vista, tutti essenziali e offerti, senza mediazione, all’occhio dello spettatore che ne fa la sintesi.” (GTB 1975: 30). Tramite la pratica artistica – in questo specifico caso fornita dal Gruppo Televisione di Brera – si era pervenuti a connettere la volontà di controinformazione all’interno dell’antagonismo di classe, come auspicato da Baldelli e Faenza, con la valenza comunicativa e relazionale del videotape richiesta da Giaccari.

Molto più innovatrice rispetto al Gruppo Televisione Brera, una riflessione attorno all’utilizzo del videotape venne sviluppata, negli stessi anni, dal Laboratorio di Comunicazione Militante, collettivo di artisti, attivo durante il biennio 1976 – 1978, formato da Tulio Brunone, Giovanni Columbu, Ettore Pasculli e Paolo Rosa. L’utilizzo de parte del collettivo milenese del videotape si collocava, nella loro pratica lavorativa, quale esperienza fondamentale per la produzione di nuovi linguaggi e di sperimentazione di nuove metodologie artistiche, legate alle volontà di realizzare una comunità partecipante all’atto creativo del linguaggio comunicativo: una collettività sociale che si poneva l’obiettivo di concretizzare la nozione di feedback precedentemente esplicitato (LCM 1977: 112). Su tali aspetti i componenti del Laboratorio rifletterono soprattutto nel testo L’arma dell’immagine. Esperimenti di animazione sulla comunicazione visiva, pubblicato da Mazzotta nel 1977. In esso i quattro artisti analizzavano come il videotape svolse una particolare funzione sia in relazione alla “sperimentazione” di nuovi linguaggi comunicazionali, sia come elemento di indagine sulle tecniche di animazione performativa volte verso un riconoscimento di valore critico delle relazioni sociali umane in chiave controinformativa. Una pratica, quest’ultima, che venne ricordata anni dopo da Paolo Rosa:

Utilizzavamo il video per fare documentazione e qualche piccolo esperimento di animazione. Durante la mostra Strategia d'informazione abbiamo fatto un esperimento di animazione con gli studenti. In questo caso il video diventava un elemento performativo molto interessante perché si poteva filmare, rivedere, cancellare, senza dover fare un prodotto definitivo. Era un medium, un oggetto che portava dentro il linguaggio televisivo più che dentro i territori del cinema sperimentale (Licciardello 2004: 279).

Se, come suggerito da Rosa, la funzione del video manifestava aspetti irrefutabilmente artistici, tale strumento veniva utilizzato dal collettivo anche con funzione socializzante, saggiando le capacità di attuare un sodalizio lavorativo tra operatori culturali e studenti di scuole medie e superiori per poter pervenire, mediante la creazione artistica, a una più proficua interpretazione dei significati emessi e/o ricevuti dagli strumenti tecnologici quali, per l’appunto, il videotape e la televisione. Questa pratica lavorativa seminariale e di gruppo, di conseguenza, apriva a nuove possibilità funzionali: da una parte si collocava l’interesse verso la volontà di comprensione pratica del nuovo mezzo tecnologico, dall’altro l’impegno di cooperazione e di poter lavorare socialmente per poter accertare le garanzie di validità e veridicità interpretativa fornite da tale strumento (LCM 1977b: SP). Vi era, da parte del Laboratorio, una volontà progettuale che fondava il proprio lavoro sulla comunicazione mediante un approccio di stampo concettuale dove “Azione, performance, concetto si traducono in immagine; il fare e lo sperimentare più che l'opera finita sono il fine; il comportamento individuale e l'intervento sociale si configurano come mezzo e pretesto di cui la ‘registrazione’ è il fine”.

Interessante analizzare il lavoro del Laboratorio inerente l’analisi delle forme e delle tecniche comunicazionali della cultura allora “dominante”, mediante un'operazione tesa a torcere la struttura verbo-visuale ordinaria, rovesciando e riorganizzando la disposizione d’immagini e parole per annunciare una nuova “vulgata” sulla vicenda analizzata. Attraverso tale metodo d’indagine si voleva pervenire a dimostrare come a uno slittamento sintattico dell’immagine visuale, ne seguisse uno di stampo semantico, che avrebbe messo a nudo, con valenza, dunque, controinformativa, i meccanismi di costruzione della comunicazione mass-mediale. In particolare l’indagine del collettivo si soffermava sulla distorsione della notizia di cronaca, recependo la nozione che proprio attraverso la narrazione dei eventi della quotidianità la classe dominante potesse svolgere la sua funzione maieutica. Tale ambiguità intrinseca dell’immagine verbo-visuale veniva dal Laboratorio analizzata mediante una pratica di lavoro “sociale” e relazionale, attuata attraverso la pratica laboratoriale. Caso esemplare in tale senso fu il lavoro svolto con gli studenti della scuola media superiore Maurizio Sacchi di Mantova. Meritevole di attenzione, in questo contesto, l’operazione svolta dal collettivo sul caso di cronaca nera riguardante l’uccisione del calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi, ferito a morte da un gioielliere, dopo un finto tentativo di rapina da esso attuato con la complicità di un amico. Data la notorietà della vittima e la tensione sociale e politica del momento – siamo nel ’77 – il caso ebbe grande risalto cronachistico e divise in due l’opinione pubblica nazionale, tra innocentisti, che attenuavano le responsabilità del calciatore, e colpevolisti, che assolvevano dalla gravità dell’atto compiuto il gioielliere. Per analizzare tale fatto di cronaca i quattro membri del Laboratorio organizzarono un laboratorio “teatrale” dove consentirono agli studenti mantovani di inscenare l’episodio. Esso venne filmato con un videotape2 e successivamente pubblicato nel già citato libro L’arma dell’immagine, per l’occasione corredato dalla trascrizione della notizia trasmessa da due dei maggiori telegiornali del tempo, il TG1 e il TG2, che esplicavano le due fazioni di colpevolisti e innocentisti (fig. 1). Con questo esperimento non si aveva l’intenzione di negare la dinamica dell’episodio ma, piuttosto, si volevano analizzare le differenti “motivazioni e le giustificazioni di ordine morale e politico con cui il fatto veniva presentato all’opinione pubblica dai vari organi di informazione” (LCM 1977: 97). Il TG1, infatti, tentava di mettere in evidenza la notorietà della vittima, mitizzandone la popolarità, e attribuendo implicitamente al gioielliere le colpe dell’evento; al contrario, il TG2 considerava imprudente il gesto del calciatore e, di conseguenza, necessaria e non spropositata la reazione del gioielliere (non a caso il TG2 associava la notizia di Re Cecconi a quella del ferimento di un altro gioielliere lo stesso giorno a Roma per colpa di due malviventi). In questo specifico caso, la performance degli studenti si proponeva quale contraltare visivo alla parola scritta, sollecitando l’esercizio della critica come riflessione tra vero e falso.

Figura 1. Ricostruzione “teatrale” dell’uccisione di Re Cecconi, L’arma dell’immagine, Mazzotta, 1977.
Figura 2. Laboratorio di Comunicazione Militante, Immagine arma impropria, Milano, Permanente, 1978. (Courtesy Fabio Cirifino - Studio Azzurro)

Non è trascurabile, entro il contesto che porta a riflettere sui termini di lavoro artistico “socializzato” e nuove tecnologie comunicazionali, l’invito alla XXXVII Biennale d’arte di Venezia del 1976 fatto pervenire al collettivo milanese da parte di Enrico Crispolti, per esporre all’interno della mostra Ambiente come sociale organizzata dal critico negli spazi del Padiglione Italia ai Giardini di Castello. La rassegna era articolata in quattro ambienti di pari importanza: il primo (sala A) si presentava con la finalità di coinvolgimento dello spettatore mediante un molteplice apparato multivision di dodici proiettori che trasmettevano in sincrono fotografie, completate da una colonna sonora di accompagnamento allo scorrere delle proiezioni. Seguiva un ambiente (sala B) con quattro postazioni video e una terza sala (sala C) al cui interno erano installati proiettori di diapositive. In questa ultima sala, infine, era possibile guardare numerosi videotape – tra cui le videointerviste agli artisti partecipanti alla mostra realizzate da Luciano Giaccari – e fermarsi a sentire registrazioni sonore prodotte dai partecipanti all’esposizione.3 Seguiva, infine, uno spazio “aperto” e libero (sala D), atto a ospitare sia incontri ciclici sia esposizioni temporanee, costruito come un ambiente modificabile di volta in volta per accogliere le varie manifestazioni che al suo interno si volevano organizzare.4

La manifestazione, nelle intenzioni del /curatore, avrebbe dovuto offrire al pubblico “proposte, azione, esperienze, documenti di ricerca per nuovi modi di intervento creativo nell’ambiente sociale”, obiettivo sul quale già da tempo rifletteva anche il Laboratorio. A guidare il visitatore nella comprensione concettuale del padiglione, contribuiva anche il testo introduttivo di Crispolti, che proponeva quali urgenze costitutive di quanto presentato il riconoscimento dell’ambito urbano e sociale quale campo di verifica e sperimentazione della pratica artistica. In esso lo studioso si soffermava a riflettere sull’analisi, apportata dagli artisti presenti in mostra, di modalità di lavoro “socializzate”, dialogiche ed egualitarie che si ponessero “al di fuori dei termini canonici del consumo dell’arte” e che, al contrario, avrebbero fatto del sociale “una nuova area di esperienza” (AA. VV. 1976: 3). Singolare considerare come l’apertura informativa e di coinvolgimento che articolava la mostra, manifestasse l’interesse dato alla comunicazione come momento concreto di apprendimento ed emancipazione, consentendo ai soli operatori culturali la possibilità e la necessità di riflettere o meno sul significato del medium da loro utilizzato (Mattern 1999: 54-5, Catenacci 2015: 317). L’artista, in tal senso, avrebbe dovuto rinunciare ai “privilegi tradizionali del proprio specifico” facendosi “sollecitatore culturale” di esperienze artistiche socializzanti (AA. VV. 1976: 3). Operazione artistica che può essere ricordata come avente valore informativo e comunicazionale è il sabotaggio – come venne definito dall’autore stesso – di Gianfranco Baruchello E io scasso la casa: una riproduzione sonora che diffondeva per il padiglione voci di proletari registrate durante le lotte per la casa dei militanti di Potere Operaio, suoni che, in quanto avulsi dal loro contesto di fruizione “naturale”, introducevano un disturbo di fondo nelle “stanze dei bottoni” della Biennale “per disinnescare o mandarne in corto i circuiti” (AA. VV. 1976: 28). Quella di Crispolti, dunque, si mostrava come una mostra omogenea, condensata sulla raccolta e sulla registrazione delle molteplici iniziative di ambito sociale e controinformativo, costruita attraverso i materiali forniti, o registrati in presa diretta, dagli artisti stessi.

Meritevole di interesse, nel tentativo di sottolineare il legame che univa l’esposizione organizzata da Crispolti con la volontà di testimonianza sociale che si intendeva trasmettere mediante la mostra, notare come, una volta terminata, il curatore chiese all’ente veneziano il materiale concepito durante i diversi interventi organizzati nel padiglione, prospettando di raccoglierlo in una pubblicazione autonoma: “il volume avrebbe dovuto riunire, ampliandoli, i testi e le illustrazioni pubblicate nell’opuscolo realizzato per l’occasione, le trascrizioni delle interviste ai partecipanti e del dibattito Nuova domanda e modi di produzione culturale nel campo delle arti visive, alcuni documenti del convegno sul decentramento e il resoconto degli incontri del ciclo Documentazione aperta” (Catenacci 2015: 317); un testo che, tuttavia, non trovò mai pubblicazione. Si poneva in essere, dunque, una volontà di testimonianza, dai risvolti anche socializzanti, nei confronti della quale si intratteneva anche il Laboratorio che, come precedentemente ricordato, vedeva nel mezzo tecnologico del videotape uno strumento atto a documentare e registrare gli eventi di stampo performativo, per poi analizzarli e proporli alla comunità con una valenza sociale e controinformativa:

nel corso del lavoro il videotape si è rivelato uno strumento molto importante: inizialmente si era partiti con l’idea di usarlo semplicemente come strumento di documentazione per registrare le esperienze e i dibattiti degli studenti; successivamente invece il videotape è entrato organicamente a far parte del lavoro come strumento di sperimentazione delle specifiche tecniche del linguaggio televisivo e, inoltre, fatto importantissimo, come strumento di animazione del lavoro di gruppo (LCM 1977: 111).

Il Laboratorio venne presentato da Crispolti in catalogo nella sezione C5partecipazione spontanea” sotto la voce “azione politica”. In tale settore il curatore espose tutte quelle realtà che manifestavano la propria arte “sotto il segno di un deciso accento di denuncia fortemente politicizzata nel senso di lotta di classe proletaria” (AA. VV. 1976: 112). Il Laboratorio partecipò presentando opere focalizzate sulla pratica del videotape: in sala B era presente il video “strategia di informazione”,6 con il quale si documentava, con valenza di denuncia, la “violenza comunicativa” così come fornita dall’apparato istituzionale, mentre in sala C il Laboratorio era presente con una videointervista – “strumento a metà strada tra critica e documentazione” – di Luciano Giaccari. In essa il collettivo rifletteva ancora una volta sulla possibilità di creare una comunità sociale mediante l’operare artistico.7 I quattro membri del gruppo, infatti, non si proponevano meramente di collocare la loro presenza all’interno della pratica teorica, bensì suggerivano, mediante la prassi artistica, la decodifica del racconto per immagini della realtà istituzionale quotidiana. In questo contesto il videotape – e nello specifico la videointervista di Giaccari – era utilizzato come strumento atto a esaminare tali codici e sviscerarli in un linguaggio demistificato “per credere di meno, o quantomeno a credere più criticamente, allo speaker del telegiornale e in generale alle ‘certezze’ proprie del linguaggio televisivo” (LCM 1977: 111). In particolare fu con il videotape a circuito chiuso (che consente allo spettatore di rivedersi in presa diretta), che si riuscì a immettere nel campo della pratica culturale “un’operazione artistica sui generis, dotata di una forte intenzionalità didattica e di una altrettanto grande attenzione verso il proprio interlocutore, interessato a un rapporto con il sociale” (Fadda 1999: 133, AA. VV. 1976: 46). Il sistema di comunicazione a circuito chiuso riusciva a evitare qualsiasi tipo di programma codificato istituzionalmente, sfuggendo al raffreddamento dell’informazione immesso dall’alto (ovvero da una minoranza che detiene tutti i canali di informazione e comunicazione) ed evitava i rischi della manipolazione intellettuale e psichica. Chiunque voleva, poteva prendere la parola e, attraverso il videotape, partecipare in prima persona all’evento globale della comunicazione. Si creava, in tal modo, una nuova spazialità sociale visiva e sonora, mobile, imprevedibile, autogestita dalla comunità dei presenti.

Da sottolineare, tuttavia, come la locuzione scelta da Crispolti per il titolo della mostra veneziana – Ambiente come sociale – era interpretato dal collettivo milanese in maniera ambigua. Si può leggere, per dirimere tale questione, il primo degli otto punti del manifesto programmatico pubblicato dal collettivo nel 1976 che portava il titolo emblematico di “Cantine, cessi e istituzione come sociale”. All’interno di esso si spiegava in modo chiaro e semplice come per sociale non si intendesse l’ambiente in sé, ma la gestione che dello spazio poteva esserne fatta:

sociale è la gestione e non lo spazio: sociale quindi più essere la cella di una galera se costituisce la ragione e l’occasione per innescare idee, azioni e rapporti sociali. Anche una piazza affollata, invece, (o una manifestazione) può non essere sociale se si risolve in pura immagine, in forma e colore, destinato alla contemplazione privata. Il concetto di sociale quindi non equivale né può essere ridotto a quello di ambiente ed è frainteso anche da chi crede di operare nel sociale solo quando opera nell’ambiente determinando, su scala urbana, la trasposizione dei metodi e dei contenuti espressi all’interno delle strutture tradizionali (quadro/murales, scultura/monumento). (LCM 1976b: SP).

Ancor più pressante e lapidaria nei confronti della mostra veneziana fu il breve scritto, prodotto dal collettivo a chiusura della manifestazione, che venne pubblicato nella premessa al dibattito Arte e società organizzato il 6 febbraio 1978 per la presentazione del libro L’arma dell’immagine, discussione alla quale presero parte Marisa Dalai Emiliani, Daniela Palazzoli, Vittorio Fagone, Carlo Sartori, Pier Aldo Rovati e Tommasi Trini. Nei seguenti termini, i membri del Laboratorio si pronunciarono nei confronti dell’intuizione di Crispolti e sui rapporti tra ambiente, socialità e spazio sociale comunitario:

Riteniamo che il seminario Arte e Società debba rispondere alla attuale necessità di confronto e di informazione che si è determinata sia all’esterno che tra gli operatori che già lavorano o ritengono di lavorare nel sociale. Sussistono, infatti, a questo proposito grosse ambiguità e contraddizioni grazie alle quali trovano indistintamente legittimazione i più svariati modi di affrontare il problema. Alla insegna dell’operare in senso sociale molto spesso si ricreano concezioni e metodi che non si discostano nella sostanza dai moduli tradizionali.

La stessa esperienza della biennale, cui va riconosciuto il merito di aver fatto un tentativo di apertura al problema, non ha costituito, nonostante gli intenti dichiarati, momento di chiarificazione. La formulazione stessa del tema (‘ambiente come sociale’) ha contribuito ad aumentare le ambiguità: da una parte includendo anche coloro che credono di operare nel sociale solo in quanto operano nell’ambiente, inteso nella sua estensione fisica e spaziale (determinando così la trasposizione su scala urbana dei metodi e dei contenuti espressi all’interno delle strutture tradizionali); dall’altra riducendo il concetto di ‘sociale’ entro i limiti di quello di ‘ambiente’ (l’ambiente può essere assunto solo come particolare aspetto dei problemi sociali più generali). (LCM 1978b: SP).

Come si può osservare da queste constatazioni, il collettivo percepiva l’esigenza di “ri/attivare” gli ambienti urbani, affermando il principio della città come luogo di scambio e di coabitazione comune, rendendo tali spazi dei veri e propri luoghi atti a creare socialità, in modo da poter creare una nuova consapevolezza, conoscenza e azione collettiva (LCM 1976). Un’azione sociale che trovò attuazione anche attraverso l’uso del videotape, che diventò, nella mani degli “operatori culturali” del Laboratorio, un vero e proprio strumento atto a definire non solo un’azione performativa e ludica, peraltro ben presente nella loro attività, o di semplice ricerca “poetico visiva”, ma anche una pratica di socializzazione controinformativa. Una socializzazione che non doveva restare mestamente all’interno di uno spazio espositivo, ma che necessitava di aprirsi alla cittadinanza intera, per poter attuare più intensi momenti di condivisione di idee che potessero creare moti di ribellione sociale. Questo, tuttavia, rimase una consolatoria illusione: l’uso del videotape in chiave socializzante trovò resistenze presso la collettività cittadina, rimanendo, amaramente forse, confinata all’interno della pratica artistica dell’ambiente museale; non si hanno testimonianze, da parte del Laboratorio, di tentativi di esperienza di videoattivismo nell’ambiente urbano. Emblematico di questa illusione l’utilizzo che venne fatto del videotape durante la mostra Immagine arma impropria, organizzata dal collettivo al Palazzo della Permanente di Milano dal 1 al 19 marzo 1978 (fig. 3 e 4). Durante l’esposizione meneghina il videotape venne utilizzato come strumento per mostrare in diretta gli avvenimenti che succedevano all’interno della mostra e non per documentare l’attività sociale e antagonista che avrebbe potuto manifestarsi nelle strade e nei quartieri milanesi. Tommaso Trini, che nel catalogo dell’esposizione ricordava che “la prima regola [dell’utilizzo dell’apparecchio], consiste nell’operare tenendo sempre unite la pratica e la teoria” (LCM 1978a: SP) , in questo caso venne a dare maggior risalto alla portata teorica dello strumento rispetto alle sue potenzialità di utilizzo pratico. Se la prassi del Laboratorio imponeva l’utilizzo del videotape in chiave di documentazione antagonista, tale effetto, in questo caso, venne meno, restando intrappolato negli schemi “istituzionali” delle potenzialità del mezzo.

Il videotape, che avrebbe potuto spezzare il monopolio dell’informazione nelle mani dei detentori del mezzo di produzione informativo, dando la possibilità a tutti di comunicare e di instaurare un proprio e autonomo circuito di relazioni sociopolitiche, in realtà in ambito italiano ottenne ampi riscontri solo in un contesto istituzionale. In tal modo la portata antagonista che al videotape i collettivi “militanti” volevano dare, veniva a essere destituita.8 Di fatto, Seppur tale strumento paventava la passibilità di una comunicazione oltre i limiti di classe sociale, questa utopia non venne mai scardinata nelle logiche culturali del tempo. I brevi filmati delle lotte sociali degli anni Settanta, come quelli documentati dal Collettivo Cinema Militante di Torino, restano tutt’oggi validi esempi di documentazione storica degli eventi passati, ma se ne deve riconoscere che ebbero scarsi risultati sul piano di poter creare delle comunità indipendenti e antagoniste al sistema capitalistico, così come paventato dalla critica di Baldelli e Faenza e dall’esperienza artistica del Laboratorio di Comunicazione Militante.

Figura 3. Laboratorio di Comunicazione Militante, Immagine arma impropria, Milano, Permanente, 1978. (Courtesy Fabio Cirifino - Studio Azzurro)

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  1. Si intende, per tutto il presente testo, considerare la controinformazione nella seguente eccezione coniata da Umberto Eco e Patrizia Violi: “la controinformazione si caratterizza come tale per l’impiego di mezzi specifici differenti e normalmente trascurati dalla comunicazione ufficiale. Naturalmente anch’essa, in ultima istanza, contribuisce ad una modificazione di contenuti, ma la sua attenzione è principalmente diretta ai codici del destinatario e alla ricezione del messaggio” o, altrimenti, “tutti i casi di uso dell’informazione per fini contestativi o rivoluzionari”. (Eco 1976: 99).↩︎

  2. Della documentazione rimangono solo le foto ora pubblicate sul volume L’arma dell’immagine.↩︎

  3. Presenti nella sala C erano anche numerose riviste e pubblicazioni inerenti differenti operazioni artistiche, poste a disposizione del visitatore, al quale era consentito fotocopiarle per fabbricare il proprio catalogo ideale e personale.↩︎

  4. Tra le diverse conferenze si possono elencare: Un’esperienza nell’ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli, A/social Group (14-25 luglio); Esperienze di animazione nelle scuole primarie, Elisa Vincitorio (18 luglio – 8 agosto), La riqualificazione urbana della zona (centro storico) a Milano, Comitato di Quartiere Garibaldi (10 – 19 agosto), L’esperienza di Monumento a Roberto Franceschi, Enzo Mari (22 – 31 agosto), L’operazione Palazzo di Arcevia, Ico Parisi (3 – 12 settembre), L’ecomuseo: l’esperienza del “Cracap”, Le Creusot, e il lavoro di Carlo Pome a San Marino di Bentivoglio (15 – 26 settembre), I risultati della legge del 2%, suo rinnovamento e problemi della committenza pubblica (29 settembre – 10 ottobre), Dibattito sul piano regolatore particolareggiato di Venezia, s.d.↩︎

  5. Da non confondere con la “sala C” della mostra.↩︎

  6. Un lavoro creato dal collettivo l’anno precedente all’interno della scuole medie e superiori dell’hinterland milanese e già presentato, presso la Rotonda di via Besana a Milano, nel maggio del 1976.↩︎

  7. Per completezza di informazione va sottolineato che il Laboratorio era presente anche nella sala A con una serie di diapositive.↩︎

  8. Casi emblematici di questa istituzionalizzazione sono le produzioni della Galleria del Cavallino di Venezia, del centro Art/tapes/22 di Firenze e del Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti di Ferrara.↩︎