Guardare al cinema di migrazione dal punto di vista degli artisti migranti significa comprendere questo fenomeno culturale dalla prospettiva della loro “voce”, che il teorico del cinema Hamid Naficy, autore del volume An Accented Cinema: Exilic and Diasporic Filmmaking (2001), ha definito “accentata” e che è, in buona misura, autoreferenziale. Dalle opere dei registi italiani e stranieri degli ultimi venti anni è emerso, in modo rilevante, il desiderio di presentare i complessi aspetti legati ai fenomeni migratori. Molti tra questi film raccontano del rapporto conflittuale tra le comunità Rom e la società italiana: Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana e A Ciambra (2017) di Jonas Carpignano ne sono un esempio. Tuttavia, la voce artistica degli autori di etnia rom, quali Laura Halilovic, Lidija Mirković, Tony Gatlif e Sami Mustafa, non ha ancora ricevuto la dovuta attenzione. I registi migranti esilici e diasporici non raccontano solo di viaggi cinematografici di ricollocazione geografica, ma “operano negli interstizi” dei processi di aggregazione e formazione sociale, spesso mantenendo posizioni di tensione e dissidenza sia verso il luogo di origine che il luogo di destinazione come dimostra il film Io, l’Altro (2006) di Mohsen Melliti (Naficy 2001: 10). Si tratta di registi che realizzano film prodotti fuori dagli ambienti mainstream dell’industria cinematografica, riuscendo ad ottenere sovvenzioni da enti culturali o fondi europei per la cinematografia indipendente. Commentando le opere originali degli autori rom, il critico Gian Luigi Rondi ha riflettuto:
Cinema rom. A tutt'oggi ne avevo incontrato un solo rappresentante, il franco-algerino Tony Gatlif, attivo con successo nel cinema francese. Si ricorderanno Exils, premio per la regia al Festival di Cannes, ma anche Latcho Drom sulla musica gitana e Vengo-Demone flamenco, ispirato e guidato dalla musica nazionale spagnola. Adesso, all'interno del cinema italiano, si cimenta una rom di origini bosniache, Laura Halilovic, che mette a fuoco i problemi che agitano una comunità di etnia uguale in una località periferica di Torino (Rondi 2014).
Come artista diasporica Halilovic, di origini rom bosniache, autrice del film qui esaminato dal titolo eloquente Io Rom romantica (2014), racconta delle circostanze di una difficile ambientazione sociale, con forti risvolti di sofferenza emotiva e crisi identitaria, tematiche ricorrenti nei film di autori della diaspora rom. Il film rappresenta il tema delle minoranze da una duplice prospettiva. Non si tratta soltanto di una giovane artista di origine Rom, ma di una cineasta che è riuscita ad accedere ad un settore creativo dove le donne costituiscono una netta minoranza. Infatti, sono ancora una minoranza le registe che sono riuscite a partecipare a prestigiosi film festival tra cui Cannes, Venezia e Berlino (White 2015: 29). Il film di Halilovic risulta esemplare anche dal punto di vista della distribuzione cinematografica essendo stato proiettato al celebre Giffoni Film Festival edizione 2014 ed anche ad altre rassegne cinematografiche quali Cinema all’AxTO, Giulianova World Cinema e Mondovisioni.
In questo articolo si analizzano due questioni principali del film di Halilovic. In primo luogo, si osserva in che modo la regista rappresenti cinematograficamente il suo percorso di sviluppo identitario tramite la simbologia del viaggio attraverso l’io; in secondo luogo, ci si interroga su come un film in cui è mostrata autoironicamente la comunità rom, accanto a qualche ben noto e pittoresco pregio, riesca ad evitare di diffondere ulteriormente i preconcetti che gli spettatori coltivano verso l’insediamento dei rom nelle periferie delle loro città. La cornice teorica in cui si analizzano i tratti caratteriali della protagonista in relazione al suo progetto di realizzare un film è, da una parte, la psicocritica di autori quali Donald W. Winnicott e Grace P. Conroy, interessati allo sviluppo dell’identità in relazione all’ambiente, e dall’altra, l’analisi sociosemiotica di teorici quali Hamid Naficy che affronta i contenuti di un film a soggetto migratorio dalla prospettiva ibridizzata del regista migrante, della sua forma mentis e del suo linguaggio. L’analisi privilegia una lettura winnicottiana degli aspetti psicologici di “vero” e “falso” sé della protagonista rom, rispetto ad un esame approfondito del contesto socio-antropologico da cui emerge l’opera e a cui si fa riferimento.
Le discriminazioni su base etnica contro i rom sono l’argomento che corre lungo tutta la narrazione filmica autobiografica della regista, anche se con toni che evitano la polemica diretta e la critica politica astiosa. La tematica, però, allude evidentemente all’emarginazione inflitta ai rom in Italia, specialmente a partire dalla campagna anti-nomadismo lanciata dalla Lega Nord, che attraverso il segretario del partito, Matteo Salvini, nel 2015 minacciava – e nel settembre del 2018 metteva in azione – l’abbattimento dei campi con le ruspe in varie località italiane, come attestano gli infelici episodi del campo rom Camping River (Roma) e la demolizione di una casa non autorizzata, in un campo Sinti a Carmagnola (Torino). Pertanto, dati i nessi rievocati nel film con le dure realtà politiche ed amministrative italiane, ad una minorenne nomade, cresciuta al Nord in un contesto cittadino dove sono in vigore procedimenti violentemente avversi ai rom, altro non resta che progettare una fuga verso Roma, nel sogno di realizzare una carriera nel mondo del cinema. La protagonista, adeguatamente integrata sul piano civile, soffre tuttavia gli stereotipi imposti alla sua persona sia all’interno della sua stessa comunità rom, delle cui tradizioni suo padre è un convinto continuatore, sia all’esterno di essa, nel rione di residenza, nel quale gli italiani si tramandano i peggiori luoghi comuni contro i rom. Ne consegue che Gioia, a dispetto del suo nome, si senta afflitta e disgustata dal contesto sociale che la circonda.
Affrontando i processi di maturazione del bambino rispetto all'ambiente, Winnicot formulò l'ipotesi che nella costruzione dell'identità individuale rispetto a circostanze ambientali ostacolanti e facilitanti, esistano delle costruzioni distorte del ‘sè’ percepite dal soggetto come ‘vere’ o ‘false’ (vedi il suo saggio, La distorsione dell'Io in rapporto al vero ed al falso Sé (1960), nell'ambito di studi sullo sviluppo emozionale condotti a partire dagli anni Sessanta)1. Winnicott andò oltre i presupposti freudiani del conflitto del soggetto all’interno della triade parentale, e si concentrò sugli elementi esterni, discussi nei termini di “ostacoli” alla normale formazione dell’io. In circostanze frenanti, il soggetto nasconderebbe le risposte emotive del “vero sé” agli stimoli esterni non già per adattarsi alle imposizioni che provengono dall’ambiente bensì per autotutelarsi e nascondere il “vero sé”. Il soggetto percepisce, tuttavia, che solo il “vero sé” sia in grado di essere spontaneo, creativo e reale. Al contrario il “falso sé” si fonderebbe su presupposti di adattamento costrittivo, ovvero sull'accondiscendenza ai bisogni altrui invece che ai propri desideri in relazione ad un ambiente inadeguato e ostile. Il falso sé si forzerebbe a sopportare una realtà esterna con la quale si sente incompatibile. Winnicott afferma che per proteggere la propria immagine sin dall’infanzia i bambini passano dal vero sé al falso sé, una facciata artefatta che lascia prevalere un aspetto costruito del sé, una protezione di fronte ad un contesto sociale che si è mostrato incompatibile o inadeguato per il vero sé. Winnicott teorizza che lo sviluppo del falso sé sia una delle organizzazioni di autodifesa più efficaci perché progettata per la protezione dell’io autentico. Tuttavia, il risultato dell’esistenza del falso sé è un senso di vuoto ed insoddisfazione. Per Winnicott l’elemento principale che facilita l’integrazione nel paese di destinazione è una società simile ad una madre “buona abbastanza” (Winnicott 1960) che sorregge il migrante e lo guida attraverso il percorso di perdita della madrepatria. Solo attraverso un lento percorso di accettazione di ciò che si è lasciato alle spalle sarà possibile l’integrazione nel paese di accoglienza. L’integrazione del migrante nella nuova cultura parte dalla capacità di provare dolore per la perdita del vecchio universo identitario ed avere la forza di separarsi dai suoi ricordi. Il lutto in sé rappresenta un viaggio attraverso le varie fasi che portano ad un nuovo inizio. Nel caso di Gioia, l’integrazione è un processo traumatico poiché le tradizioni popolari rom sorreggono l’intera struttura della sua educazione familiare. In Io Rom romantica, la protagonista, infatti, sa di rifugiarsi per opposizione nel “falso sé” e di nascondere il suo obiettivo di entrare nel mondo del cinema italiano. Giungere a potere rivelare la vera meta del sé è un processo di maturazione che man mano si esplicita in Gioia. Liberare il vero sé significa uscire dalla gabbia dal falso sé costruito come risposta all’ambiente prescrittivo che ne condiziona l’espressione emotiva. Il padre (Antun Blažević) e la madre (Dijana Pavlović) di Gioia, soprattutto, non fanno che esplicitare la loro apprensione rispetto alle convenzioni del loro gruppo etnico. Tanto ne soffrono che il padre, tradizionalista quasi suo malgrado, non aspetta che il momento in cui sua figlia ribelle se ne vada di casa in modo ufficiale e socialmente sanzionato, sposandosi con un giovane rom che se ne accolli la responsabilità prima che diventi “troppo vecchia”.
Con l’analisi close-up di alcune scene del film si suggerisce che sebbene la costruzione di un falso sé oppositivo contro la propria etnia sembri l'unica soluzione per l’adolescente per coesistere in una società dei gagè che non accetta i rom, alla fine Gioia trova la sua dimensione di vita tra i due modi di essere. Alla luce di questo processo di ibridizzazione comportamentale e psicologica, sarà utile considerare la prospettiva esposta dalla psicologa americana Grace P. Conroy, nel volume Migration Trauma, Culture, and Finding the Psychological Home Within (2016). Conroy sostiene che per i migranti che hanno subito dei grandi traumi imposti dall’emarginazione sociale sarà più difficile accogliere dentro di sé una identità biculturale. I migranti di seconda generazione, come nel caso di Halilovic nata in Italia da genitori rom, non solo si trovano ad ereditare la lingua e le tradizioni popolari della famiglia di origine, tramandate dalla nascita, ma a dover coltivare un legame continuativo con il paese di accoglienza anche attraverso l’istruzione pubblica. Pertanto, tra i migranti di seconda generazione è comune un senso di dilemma identitario, come emerge scena dopo scena dalla condotta instabile di Gioia nei rapporti con la sua famiglia rom tradizionale, e la società italiana.
Questa società “strana” dei gagé è rappresentata dall’amica egocentrica Morena Caputo (Sara Savoca) – “con Morena finisco sempre per mettermi nei casini, ma almeno mi diverto” (min. 00:08:14), – dal fascinoso meccanico Alessandro (Marco Bocci) di cui sia Morena sia Gioia si invaghiscono e dal regista Enrico (Giuseppe Gandini), il quale sotto ricatto accetta che Gioia sia la sua aiuto regista per un giorno, sperando di trarre dalla sua conoscenza degli spunti per un film documentario sulle comunità rom a Falchera. La famiglia di Gioia percepisce i gagé come persone ipocrite ed inaffidabili e sconsigliano Gioia di intrattenere con loro qualsiasi tipo di relazione che esca fuori dai parametri morali dei rom. Nonostante la forza oppositiva delle convinzioni di suo padre e sua madre, la ragazza rom, il cui io si avverte scisso tra due culture e tradizioni, desidera integrarsi nella società italiana. Anche i rapporti di amicizia diventano complicati e competitivi per Gioia: quando Alessandro inizia ad interessarsi alla sua passione cinematografica, Morena ingelosita l’offende in pieno viso con parole preconcette dinanzi a suo padre Armando: “Povera zingarella indifesa! Aveva ragione mio fratello, di voi non ci si può fidare, siete tutti bugiardi e traditori!”. Halilovic ha giustificato questa prospettiva autobiograficamente:
A volte vengo vista come portavoce ma altre volte come la povera sfigata zingara che è riuscita a fare cinema perché è diversa. Io non mi vorrei descrivere così, vorrei descrivermi come una ragazza normale come tutte le altre, una ragazza che ha portato avanti il suo sogno e ha combattuto per poterci arrivare. Non vorrei essere vista come la ragazzina facile che è riuscita ad entrare nel cinema con le porte aperte. Non è stato così purtroppo (Halilovic 2014).
Durante un’intervista al Giffoni Film Festival (Salerno), Halilovic ha dichiarato che, nonostante l’impegno dei registi per promuovere la parità dei diritti dei rom attraverso il cinema, tale integrazione non è un progetto facilmente realizzabile. Il film Io Rom romantica, in effetti, è costellato di epiteti negativi contro le comunità rom, dalla scena sul tram dove dei ragazzi italiani prendono in giro i nomadi, a quella del passaggio in macchina verso Roma offerto dalla donna italiana che inveisce contro gli immigrati facendo di tutta l'erba un fascio. Gli insulti sono utilizzati in modo strategico dall’autrice. Halilovic strumentalizza gli stereotipi di cui è stata vittima nella vita reale per esorcizzare la discriminazione a tappeto contro i rom utilizzando una vena ironica. La regista ha sostenuto: “Sono convinta che se avessi fatto un film più documentaristico alla gente non sarebbe piaciuto. Invece mettere un po’ più di ironia in quello che vuoi raccontare e con la risata, il messaggio ti rimane di più”. La regista ha aggiunto che il mondo dei rom ed il mondo dei gagé sono come cane e gatto, due universi che non hanno voglia di comunicare (Halilovic 2014). Infatti, in Italia, a tutt’oggi, i rom costituiscono la minoranza etnica soggetta al maggior numero di violenze inflitte da intolleranze etniche, basti pensare agli incendi appiccati dolosamente nelle baraccopoli. Gli stentati processi di integrazione dei rom nella società italiana rappresentano pertanto un problema ancora in fase di risoluzione. L’antropologo della cultura rom, Leonardo Piasere chiarisce: “Quando arrivano in Italia dai Paesi dell’Est, i rom vengono ‘zingarizzati’, cioè messi a vivere nei campi secondo lo stereotipo dei nomadi sporchi con il carrozzone”. La questione dei rom emarginati dalle città e dalla partecipazione alla vita civile ha suscitato l’interesse della regista Halilovic che ha dichiarato: “Tutti si lamentano che i rom non riescono a socializzare con le persone: come fanno se li mandano via da un luogo all’altro, se li fanno sentire esclusi, diversi, non accettati?” (Halilovic 2014).
Il risultato di questo vivere fra due mondi conferisce un senso di instabilità ed il sentirsi in bilico fra due culture (Campana 2015) come propone anche il soggetto di Io Rom romantica. In un’intervista rilasciata per il Fatto Quotidiano, la regista ha osservato: “Sono due mondi che non si vogliono conoscere e non vogliono comunicare tra loro. Una non-comunicazione che si sviluppa fin da piccoli: ‘non gioco con te perché sei zingaro’, ’non gioco con te perché sei italiano” (Cotticelli 2014). In un’altra intervista radiofonica per Funweek registrata nel 2014, Halilovic dichiara “Il film nasce in prima persona nel raccontare la mia storia cioè la difficoltà che ho avuto nell’approcciarmi con questi due mondi” (Halilovic 2014).
Come Halilovic, anche il suo alter-ego Gioia è intrappolata tra due poli. Gioia, migrata in Italia all’età di otto anni, si considera italiana a tutti gli effetti laddove la sua famiglia insiste che lei segua le tradizioni rom e si sposi al più presto con un ragazzo della stessa etnia. Gioia si rifiuta di ubbidire perché desidera coronare il suo sogno di diventare una cineasta e sposare l’uomo giusto. Per via di questa mutevole identità, intrappolata tra due realtà, quella dei rom e quella dei gagé, Gioia è rinchiusa in una impasse alla progressiva ricerca del sé. Si tratta di un’identità autentica ma velata, incapace di venire al di fuori creando un sistema di rapporti falsi per difendersi da un contesto ostile. Il film è in continuo movimento verso un unico gesto spontaneo, a cui fa riferimento Winnicot, attraverso il quale Gioia manifesta il proprio io autentico. Il gesto spontaneo rivela una natura libera che agevola lo sviluppo dell'individualità. Tuttavia, la tensione che intercorre tra il vero sé di Gioia ed il sé costruito confermano che il processo di integrazione nella società di destinazione non è ancora avvenuto per la ragazza. In una intervista al Giffoni Film Festival la regista afferma: “Il mio lavoro mi dà l’opportunità di raccontare il mio popolo. C’è un muro da abbattere e non credo purtroppo che il cinema possa riuscirci” (Cotticelli 2014). Halilovic chiarisce che per i rom il cinema è pornografia. Contrariamente a quanto dichiarato dalla regista, l’analisi delle scene del film dimostra come sia proprio il cinema ad avere gli strumenti per abbattere gli ostacoli che precludono la possibilità per i migranti di emergere nella loro vera natura.
Passando all’analisi close-up del lungometraggio di Halilovic, prodotto da Wildside con la partecipazione di Rai Cinema e distribuito da Good Films, si osserva che il soggetto si esplicita nello stesso titolo: una rom romantica di origini bosniache si racconta. L’argomento sottostante riguarda gli sforzi di adattamento nella società civile della figlia diciottenne di una famiglia rom diventata stanziale dopo avere fatto domanda al comune di Torino per l’assegnazione di un appartamento. La storia porta dinanzi agli spettatori le avventure di Gioia Tracovic, interpretata da Claudia Ruza Djordjevic. Gioia non si accontenta della sua vita in periferia e delle poche prospettive di lavoro che le si offrono e sogna di acquisire la propria indipendenza dalla famiglia per seguire la vocazione di regista e trasferirsi a Roma, liberandosi di una condizione marginalizzata che si riflette negativamente sulla sua psiche. Il film presenta la questione dall’interno della propria realtà etnica contribuendo a comprendere i drammatici risvolti dei processi di integrazione dei migranti attraverso il genere della commedia.
La regista usa la voce fuori campo dai toni confessionali per raccontare la vicenda che detta alla pagina di un diario. Gioia è, e si sente, la vera protagonista della sceneggiatura che sta per scrivere. Piena di energia, potenzialità e talento, la giovane rom è pronta all’avventura per cercare una sua collocazione all’interno del settore altamente competitivo dell’industria cinematografica con le sue gerarchie e i suoi circoli ristretti. Il film, dunque, oltre a manifestare uno stile accentato epistolare, originale e autoriflessivo come un’“impronta digitale” (Naficy 2001: 34), presenta anche un’interessante componente metacritica sul cinema amatoriale, che, come osserva Naficy, è tipicamente quello realizzato dai registi migranti.
Il film si apre con una dichiarazione autoriflessiva della regista. La prima scena si presenta al mondo della finzione con l’uscita della protagonista da una porta bianca che segna l’inizio del suo viaggio verso la scoperta del sé autentico. Gioia avanza verso gli spettatori guardando direttamente nell’obiettivo della macchina da presa. La rottura della ‘quarta parete’ delinea il divario che intercorre tra realtà e finzione. Qui la regista fa uso degli strumenti cinematografici per dare il benvenuto al pubblico all’interno della sua dimensione di rom migrante in continuo spostamento.
Halilovic dichiara questa modalità stilistica autobiografica di impostazione diaristica attraverso le parole del padre di Gioia nella prima scena quando la ragazza è nascosta nell’armadio ed il padre la rimprovera dicendo: “…tu scrivi, scrivi…”. La voce fuori campo della protagonista è caratterizzata da un accento straniero bosniaco che si percepisce chiaramente attraverso il suo uso pur disinvolto e competente della lingua italiana appresa a scuola dal suo arrivo in Italia. Scrivere un film utilizzando un linguaggio autentico, il discorso indiretto ed una musica tradizionale significa far sì che l'identità diasporica costituisca l’accento ufficiale del film e che questo si ritrovi nei personaggi, nello stile e nella struttura narrativa dell’opera (Naficy 2001: 22). Il dialogo tra le voci italiane e rom genera un livello di multivocalità e multilinguismo nel film. L'intersezione delle due lingue in cui la voce dominante è quella dell’autrice rendono la storia parte di un discorso autoriale che si distingue dalle tradizioni del cinema mainstream (Naficy 2001: 25).
L'ambientazione in cui si svolge l’azione è prevalentemente il quartiere di Falchera. Già dalle prime scene, la protagonista mostra insofferenza per la sua condizione marginalizzata all’interno di un contesto sociale sfavorevole all’integrazione degli stranieri. Gioia è oggetto di un’attenzione non sollecitata a causa sia della sua bellezza sia della sua diversità. La macchina da presa la riprende irritata per la strada mentre è seguita da ragazzi coetanei in motorino che la importunano con commenti maschilisti. Non sorprende che Gioia consideri Falchera secondo i parametri indicati da Naficy: come una porzione di spazio connotata repressivamente da valori che non condivide, espressi da soggetti antagonistici (Naficy, 2001: 152). Lo stesso isolamento dalla cultura autoctona riguarda la sua famiglia rom che si relaziona quasi esclusivamente con le altre famiglie della comunità rom, con cui mantengono vive le loro tradizioni e si guardano le spalle dalle azioni malevole dei gagé.
Gioia vuole sognare, integrarsi e sperare di realizzarsi come individuo. La sua voce fuoricampo puntualizza che in fondo una tipologia di comunicazione con l’Italia è avvenuta e ha preso forma nell’amicizia con Morena. “Per fortuna ho un’amica, una che non è rom come me. Ma è libera”, asserisce Gioia all’inizio del film. Questa dichiarazione prospetta una sfera sociale a cui ambire, ma il tentativo di comunicazione con il mondo dei gagé non è facile né scontato come spera l’adolescente.
Gioia scopre la propria verità attraverso un viaggio nel paese straniero dove il suo io si stabilizza tra due identità. Il cinema diasporico, a differenza di quello esilico, è caratterizzato da vicende di vita che implicano un cammino ed hanno generalmente luogo nel paese di destinazione (Naficy 2001: 15). Io Rom romantica è infatti scandito da sei inserti non diegetici che ritraggono Gioia a bordo di un treno in movimento. Gli inserti mettono in rilievo la sua indole volitiva e pensierosa ed insieme romantica, specie quando il suo viso appare riflesso nel finestrino di uno scompartimento mentre tenta di allontanarsi dalla condizione stanziale della sua vita confinata in un anonimo condominio. Mentre il treno percorre la distanza tra Torino e Roma che la separa dalla sua sognata destinazione, Gioia guarda il paesaggio italiano che corre veloce e sorride immaginando la sua meta, Cinecittà che evoca in lei il suo sogno di libertà. Si tratta di una capitale dell’alta industria culturale, che è mitica sia agli occhi dell’aspirante regista sia a quelli del grande artista hollywoodiano Woody Allen, diretto anche lui con la sua troupe a Roma per girare To Rome with Love (2012).
L’idea della libertà espressiva è trasfigurata nella terza scena che rappresenta un quadro di un viale alberato dove avanza trasognante la protagonista, vestita con un mantello rosso, in mezzo ad una distesa di alberi e petali rosa. Qui il vero sé di Gioia è immerso in un luogo aperto ed idilliaco in cui lo spazio ed il tempo costruiscono un ponte immaginario con i sogni di un altrove. In questo breve inserto onirico, il cronotopo del tempo e del luogo a cui Gioia vuole appartenere è un’utopia. La visione fantastica si dissolve all’improvviso per anticipare che la vita non è tutta rosa e fiori. La poetica fiabesca sparirà tra i petali per lasciare posto ad uno stile realista. La deterritorizzazione del luogo (Naficy 2001: 155-56) rappresenta il desiderio di Gioia di individuare un posto ideale in contrapposizione con lo spazio urbano degradato e ristretto di Falchera2.
Se nella scena 3, il sé autentico di Gioia appare libero di esprimersi all’interno di un tempo ed un luogo fiabesco, nella scena 4 la protagonista si nasconde nell’armadio per non farsi trovare dal padre che le sta imponendo di incontrare una serie di aspiranti mariti. Il sé autentico di Gioia si protegge con l’autoreclusione. La macchina da presa ad angolatura alta ritrae il senso di oppressione determinato delle aspettative del genitore e la differenza di vedute tra il padre e la figlia, l’uno fedele alle usanze rom e l’altra che vive un’identità ibridizzata.
Nel film hanno, pertanto, luogo non solo movimenti nel tempo e nello spazio, ma anche tre processi: un primo processo è quello dello sviluppo psico-fisico dall’adolescenza che implica anche una emancipazione affettiva verso la famiglia e l’ambiente, il secondo di integrazione sociale e culturale ed il terzo di realizzazione artistica ed intellettuale come regista. Gioia prova ad integrarsi facendo provini per lavorare come comparsa, ma al contempo sente di avere passione e talento narrativo. Infine, dopo molto ragionare, raccoglie il consiglio di Alessandro di raccontare una storia spontanea, autentica, autobiografica, ma dovendone ancora comprendere la direzione stilistica e le modalità espressive. In ciascuno di questi processi, Gioia deve accettare dei contraccolpi emotivi che segnano le diverse parti del racconto.
Il conflitto principale nel film nasce dal rapporto che Gioia ha con i genitori, vettori di una cultura rom da cui vorrebbe emanciparsi e distaccarsi. In attesa delle nebulose circostanze che le consentiranno un giorno di evadere, Gioia si sente intrappolata in questa dinamica oppositiva: grida, si chiude in se stessa, fugge, fa osservazioni sarcastiche e assume atteggiamenti dissidenti verso la sua cultura familiare. La ragazza chiarisce il suo bisogno di diversificarsi, di essere migliore della madre Veronica, che vede soggetta alle consuetudini della comunità rom con i suoi usi e costumi e le sue superstizioni. Le implicazioni di questa mentalità si chiariscono nella scena in cui la madre, nell’accogliere in casa la sorella puerpera con in braccio il bambino in un periodo post-parto considerato “iellato”, versa dell’acqua sulla soglia prima che ella la varchi non tanto perché ci crede, ma perché questa è la consuetudine. Il padre arriva alle loro spalle allarmato e per scaramanzia versa il contenuto di un intero secchio d’acqua sulla soglia per purificarla, sputandoci sopra ripetute volte, redarguendo la nuora: “Devi stare 40 giorni in casa! Che fai qui! Mi porti la maledizione!” (Armando, min. 00:17:32-00:18:20). La madre rassicura sua sorella dicendo che tutto quello che deve fare per tenersi buono Armando, suo marito, è mettere a posto la casa e sorridere.
Il rapporto di Gioia con la madre è ambivalente, generalmente polemico e qualche volte accondiscendente, oscillando tra il vero ed il falso sé. Tipicamente adolescenziale, questo conflitto si manifesta in una delle scene in cui rientra a casa più tardi del previsto. Sgridata, Gioia reagisce criticando la madre per essere schiava del marito, sostenendo di volersi sì sposare un giorno, ma non con un rom che “la comanda dalla mattina alla sera”. Gioia vorrebbe realizzare una svolta dalle tradizioni rom, magari sposando un gagé non per rinnegarle in astratto, ma per differenziarsi. La somma di queste tensioni all’interno della famiglia stressa ulteriormente la reattività emotiva di questa ragazzina dal carattere autonomo.
Mentre la protagonista accentua il suo rifiuto verso la famiglia rom, allo stesso tempo, in modo incongruo, mostra ai gagé che frequenta di saper mentire e rubare, minacciare ed estorcere a cuor leggero, rivelando esattamente le condotte che suscitano negli italiani sentimenti di avversione ai rom. Questi comportamenti stereotipati le sono necessari per “comunicare” con il mondo esterno italiano e farsi accettare, anche se in modo distorto. Lo psicoanalista Claudio Neri, in un’intervista pubblicata su Youtube, chiarisce: “Noi tendiamo ad adattarci alle richieste degli altri. Sviluppiamo un’interfaccia tra noi e gli altri che si adatta, adattandoci ad essere un po’ come tu mi vuoi” (Neri 2016). Questo implica che le scene in cui Gioia ruba dei soldi, un cellulare ed una videocamera confermano provocatoriamente uno stereotipo, anche passando il concetto che per una rom rubare non è tanto un reato, quanto una consuetudine senza alcuna morale negativizzante, vale a dire “un modo di esistere”, di procurarsi il necessitante.
In Italia, sembrerebbe che nessun’altra minoranza etnica sia così attaccata dal pregiudizio e discriminata quanto quella dei rom, costantemente tenuti al centro di definizioni accusatorie e criminalizzanti (Basso 2010: 361). Nel mostrare Gioia nel ruolo occasionale di ladra e manipolatrice, l’autrice sembra prendere in considerazione il peso dei pregiudizi che hanno gli italiani contro i rom ed adottarlo per una dialettica negativa, laddove anche i gagé, specie il regista di documentari, sono descritti come inaffidabili, imbroglioni ed infingardi. L’intento dialettico, nel presentare un’autocritica verso certi aspetti identitari dei rom, mostra che nella comunità di Gioia esistono credenze, abitudini e rituali sociali non del tutto diversi da quelli degli italiani. Delle somiglianze possono essere desunte dalle scene che mostrano gli equilibri delicati del parentato i cui membri non sono tutti ugualmente insidiati nel contesto urbanizzato, le allegre feste celebrative all’aperto dei riti di passaggio, specialmente quelle dei matrimoni, le danze e le musiche folkloristiche, i banchetti di aggregazione sociale con uso profuso di bevande alcoliche, la consuetudine del match-making, e, infine, nella cura dell’abbigliamento, in particolar modo quello legato ai codici estetici di genere. A questo punto è utile citare un’osservazione di Piasere, nel volume del 2009, I Rom d’Europa. Una storia moderna:
Radicatisi nel locale, quasi paradossalmente, grazie alla loro potente cultura della circolazione, i rom hanno sempre dimostrato di sapere non tanto delocalizzare lo sguardo e la vita, quanto trasformare in “locale”, “rilocalizzare” luoghi altri e le proprie vite. In epoche di “non-luoghi” e di “campi”, sanno trasformare tali non-luoghi (o fuori-luoghi o sotto-luoghi) in cui sono costretti a vivere in luoghi pieni di vita e di calore. In epoca di globalizzazione, essi sono più pronti di altri, e in un modo del tutto non violento, a considerare il mondo come un unico proprio luogo (Piasere 2009).
Ritornando alla preoccupazione inerente ai codici identitari e di genere, su cui ironizza la regista di Io Rom romantica, il padre non tollera che Gioia si vesta indossando dei jeans aderenti e insiste, fino ad esasperarsi, affinché Gioia indossi la gonna e getti via i pantaloni. In una delle molte scene filmate per le strade periferiche di Falchera, il padre di Gioia, dopo aver origliato i commenti ammiccanti ricevuti dalla figlia, in una scena successiva, le intima di togliersi i pantaloni ed indossare solo gonne. Armando: “Ma ti rendi conto di come ti chiamano? Zoc…! Uhrg…Mettiti la gonna e stai zitta!”. Come gesto di stizza, Gioia va in camera sua, apre l’armadio e raccoglie tutti i suoi eleganti abiti femminili e li getta alla rinfusa in una grande busta di plastica nera. Gioia: “Vuoi che mi metto le gonne? Ora ti faccio vedere come me le metto!…Papà…sto buttando tutti i pantaloni! Sì, come no!” La giovane commenta ad alta voce la disputa con il padre tra l’indossare gonne o pantaloni. La mdp. riprende i tessuti coloratissimi ed eleganti degli abiti gettati a terra, mentre la voce fuori campo di Gioia esclama stizzita: “Zingara o non zingara, pantaloni, gonne! Ma a qualcuno importa di chi sono io veramente?” (min. 00:11:10-00:12:27).
Nella scena successiva girata in esterna, indossando una tipica gonna lunga a balze in stile gitano, Gioia si dirige decisa verso un cassonetto della spazzatura e, con un gesto di sfida, butta via il sacchetto pieno di gonne proprio sotto gli occhi del padre che la scruta preoccupato ed incredulo dal balcone. In questo momento emotivamente reattivo, la gonna rappresenta il ruolo della donna nella tradizione rom a cui Gioia si ribella mentre i pantaloni simboleggiano la libertà delle ragazze gagé. Questo dettaglio narrativo, che si focalizza sul conflitto generazionale padre-figlia, mette in risalto i risultati tutt’altro che previsti di un’educazione eccessivamente prescrittiva. Il padre, un uomo apparentemente rigido, è in fondo apprensivo e timoroso per il futuro di Gioia. Pur nel conflitto, egli è un’influenza importante nella decisione dell’adolescente di incamminarsi verso una nuova vita tentando la via del cinema come regista. In questa ribellione costruita per una reazione verso le proibizioni provenienti dal padre, ma non motivata da un vero antagonismo, il vero sé di Gioia, che è ancora tutto da scoprire, combatte in modo trasversale i limiti imposti dalla sua cultura. Gioia dovrà apprendere che quei limiti sono gli stessi nel mondo che troverà fuori dalla sua famiglia e comunità.
La costruzione del falso sé, con cui Gioia accetta di essere quello che gli altri pensano di lei, ostacola e non agevola il suo sogno. Il falso sé, spiega Winnicott, crea le circostanze per assecondare il modo in cui gli altri ci giudicano. È proprio questo crescere nel falso sé a causare in Gioia la percezione del proprio ritardo rispetto all’incontro con il suo futuro di regista. Il vero sé di Gioia, creativo, aperto e romantico, cerca, tuttavia, di emergere in diverse circostanze. L’autrice suggerisce che per raggiungere l’integrazione in un mondo a cui si appartiene solo marginalmente occorrano condizioni propizie atte a consentire al soggetto di poter emergere in modo autentico. Queste condizioni richiedono scelte ed azioni spontanee, esonerate dal giudizio altrui. Nel caso di Gioia è particolarmente rilevante che per agevolare il processo di integrazione nella società di destinazione, la madre smetta di assecondare le idee del padre e inizi a svolgere il ruolo che Winnicott definisce “holding” con cui sorregge le scelte della figlia, come si evince dalla scena girata nello studio della psicologa, nel terzo atto del film, dove la famiglia di Gioia si rende conto delle sue necessità individuali ed artistiche.
È proprio nell’arte cinematografica che Gioia trova per la prima volta l’occasione di uscire dalla sua maschera quando, vestita da suora per un film in cui lei e la sua amica Morena fanno le comparse, dichiara che il cinema l’aiuterà a diventare un’altra persona. Il cinema riesce a fornire a Gioia gli strumenti per ritrovare la dimensione che Conroy definisce la “casa psicologica” (Conroy 2016), in altre parole le emozioni, le componenti autentiche della sua personalità che la portano a sentirsi viva e a sviluppare un senso di appartenenza allo spazio fisico in cui si trova per scelta ed autodeterminazione. Come accade al migrante romeno Ioan in Cover Boy: l’ultima rivoluzione (2006) di Carmine Amoroso, quando la fotografa italiana ne sfrutta l’immagine ai fini commerciali, anche Gioia si rende conto di potere essere soggiogata dal medium cinematografico che la rappresenta come outsider. La ragazza non desidera essere oggetto passivo dinanzi ad un obiettivo, ma soggetto vivo e creativo del cinema: una regista.
Laddove i sogni di Gioia immaginano una vita “altrove” e se stessa protagonista di un viaggio in cui scoprire il suo vero sé, è altrettanto vero che ella non si lascia abbagliare dal suo rapporto di lavoro con Enrico, il regista italiano di documentari che trama alle sue spalle per produrre un lavoro sulla sua comunità rom, sfruttando la sua inedita testimonianza. Per Enrico, Gioia deve rimanere il modello femminile di zingara rom che vuole portare dinanzi ai suoi spettatori, ma questo significherebbe per la ragazza interpretare non la sua verità interiore, ma il falso sé. In una scena centrale, parlando con Morena, Gioia, delusa dei suoi tentativi di trovare lavoro nel cinema, afferma amaramente:
Con il cinema già c’è andata male, poi il tuo amico Alessandro non è servito proprio a niente. E quel regista è proprio uno sfigato, con il suo cinemino che puzza di muffa. […] La verità è che siamo nate in un posto di merda e da qua non ci tira fuori proprio nessuno" (min. 00:35:00-00:35:40).
A livello della scansione strutturale degli accadimenti tra il momento dell’autodeterminazione e il viaggio a Roma accadono episodi colorati di comicità: la fine dell’invaghimento di Gioia per Alessandro, la rottura dei rapporti con la sua amica Morena, il tentativo del padre di organizzare un falso corteggiamento insieme al suo amico di infanzia per mettere insieme Gioia e suo figlio Elvis. Gioia riceve un sms da Enrico che le ricorda di dovere andare a fare l’assistente di regia. Chiede a Elvis di aiutarla e coprirla per dileguarsi dalla festa. L’iniziale sospetto reciproco si trasforma in complicità.
Il carattere metafilmico della sequenza notturna sul set, dove Gioia apprende per la prima volta il mestiere cinematografico, propone un risvolto autoriflessivo quando è proprio il soggetto vivente del film, che Enrico vuole sfruttare per una sua futura docufiction sui rom, ad appropriarsi in modo illecito di una videocamera professionale lasciata incustodita, in tal modo interpretando alla lettera la costruzione negativa della ladruncola che i gagè hanno dei rom. Il vero sé di Gioia deve uscire allo scoperto prima che la migrante possa identificarsi con la cultura di destinazione acriticamente, per mero spirito di accondiscendenza. Per questo motivo i momenti autobiografici, in cui Gioia punta la videocamera verso se stessa per osservarsi hanno il valore di una profonda introspezione psicologica realizzata attraverso l’obiettivo cinematografico. L’approccio narrativo autoriflessivo demarca i confini che segnano la differenza tra il sé e l'altro. Il personaggio ordinario di Gioia, “una ragazza come le altre”, come si autodefinisce la regista nell’intervista per Funweek sopracitata, diventa attrice del suo vero sé liberato, portato dinanzi al pubblico sullo schermo. Si potrebbe argomentare che impossessarsi della macchina da presa sia, in effetti, non tanto un furto, quanto il gesto istintivo che porta la ragazzina ad iniziare il suo sviluppo creativo. Tornando verso casa felice, reggendo la videocamera accesa, la voce fuoricampo di Gioia sulle sue prime riprese a spalla esclama:
Ecco la storia che ho in mente e che racconterò nel film! … è la storia di una ragazza che abita in un posto come questo, periferia di Torino, niente di speciale, ma questa ragazza, nonostante abiti tra queste strade vuote, tra il cemento e i parcheggi, non si accontenta! … Non vuole fare solo quello che il padre e le persone intorno le dicono…Sarà un film su una che vuole combattere, trovare la persona giusta…l’uomo giusto, anche in un posto come Falchera! (min. 01:00:00-01.00:28).
Una volta rientrata a casa, la famiglia di Gioia la rimprovera per essere stata disonesta ed aver accettato un lavoro nel cinema. Anche grazie all’aiuto del linguaggio figurato della nonna che afferma “Se ti metto su un cavallo seduta al contrario, il cavallo comunque continua ad andare avanti!”, la lite tra Gioia e il padre fa capire alla madre che con Gioia serve un approccio diverso per aiutarla a trovare se stessa e la perduta serenità e ad apprezzare la bellezza e la forza della tradizione rom. Nella scena successiva alla lite, filmata dal basso con una ripresa in campo totale della madre e della nonna che fumano e parlano insieme sul balcone della situazione della ragazza, le due generazioni si rendono conto che Gioia, partecipe del suo tempo e vivendo in un palazzo di gagé, persegue quel modello dominante di vita. La nonna aggiunge che, il movimento per i rom è una dimensione vitale perché finché “sono in cammino”, riescono a rimanere in salute, uniti e felici. La mancanza di mobilità fa subentrare la percezione della morte e attacca alle radici il senso stesso dell’identità nomade. Nel quadro successivo, enfatizzando questo commento saggio, che sintetizza una mentalità, la macchina da presa riprende dall’alto Armando, seduto sulla cyclette mentre pedala forsennatamente nel giardino angusto del suo caseggiato. Anche Gioia soffre della sua staticità e persegue instancabilmente il progetto di mettersi in cammino: il suo dovrà essere un viaggio verso la scoperta del vero sé. Il giorno successivo, Veronica accompagna la figlia al mercatino a comprare dei vestiti nuovi e cambia tattica, iniziando a comprendere la sua diversità e le presenta in una veste meno obbligatoria il suo futuro matrimonio con il bel rom Elvis.
Le sequenze successive in treno mostrano Gioia in viaggio verso Roma per andare incontro al suo destino di regista. Con questa sequenza, ha inizio il parlare chiaro dell’autrice sulla dimensione autoreferenziale della sua avventura narrativa. Pur nell’orizzonte della propria tradizione migliore, il viaggio di Gioia attraverso l’obiettivo della mdp. sarà un viaggio iniziatico alternativo, un autoritratto, se così si può definire, dell’artista da giovane che partendo da Torino perviene a Cinecittà, dando concretezza al sogno Hollywoodiano: del resto, Gioia è venuta a sapere che anche Allen è a Roma per girare il suo tributo alla capitale del cinema europeo.
Gli stereotipi usati in modo autoironico non mancano e continuano fino alla fine. A metà del viaggio in treno verso Roma, priva di biglietto, Gioia è fatta scendere dal treno dal controllore e costretta a proseguire verso la capitale chiedendo un passaggio in macchina. Mentre fa l’autostop, è caricata a bordo da una signora (Lorenza Indovina) che, credendola italiana, ritiene di dovere proteggerla da due “zingari” che vede sul marciapiedi alle spalle di quella che lei ritiene essere una povera ragazzina sprovveduta. Per tutta la durata del viaggio fino a Roma, la donna prorompe in un’escalation di insulti contro gli “zingari”, attribuendo ai politici l’incapacità di fare fronte alla responsabilità di risolvere il problema delle ondate migratorie dai Balcani. Nel suo flusso di invettive, la donna mostra di non sapere la distinzione tra cittadini dell’Unione europea dotati di regolare permesso di soggiorno e i rom:
Gli zingari stanno dappertutto… è un’invasione quella degli zingari! Ci hanno circondato! Albanesi, romeni, rom, zingari. Cioè non c'è più posto per gli italiani. Non che io sia razzista, per carità, però non si campa più. Mica si può andare avanti così. Bisogna fare qualcosa, e a pensarci devono essere i politici (min. 01:08:30-01:08:59).
Il monologo di questa scena evoca, in qualche misura, le parole del padre della protagonista del film Francesca (2008) di Bobby Paunescu quando fa riferimento alle dichiarazioni xenofobe di Alessandra Mussolini contro i migranti romeni. Allo stesso modo, ricorda una battuta nel film Cover Boy, quando un bellimbusto romano se la prende con gli immigrati, imprecando: “Ci state a sommergere!” Come accade nel film di Amoroso e di Carlo Mazzacurati Vesna va veloce (1996), anche qui gli immigrati preferiscono fuggire dinanzi a questi attacchi verbali, anziché controbattere. In questi film, il tentativo del migrante ghettizzato di mostrare il vero sé fallisce sistematicamente nelle interazioni con gli italiani. Questo viaggio in treno e in autostop, iniziato con l’impiego di due lingue (l’italiano e la lingua rom) assume finalmente la lingua ufficiale che le è connaturata, il linguaggio del cinema accentato, portatore della sua diversità, del suo stile e della sua cultura. Nonostante il cinema diasporico si differenzi fondamentalmente dal cinema Hollywoodiano per tecniche espressive e metodi di produzione, l’influsso dichiarato di Allen è chiaramente rintracciabile nel lavoro di Halilovic, che presenta la prospettiva comica dell’autore su sé stesso e sulla sua vocazione cinematografica.
Per un autore diasporico, fare un film, implica commemorare la propria comunità e ricordare agli spettatori della propria presenza nascosta (Naficy 2001). Come suggerisce Naficy, è utile consultare la filmografia di un autore per capire come si sia evoluto il suo stile, la sua personalità autoriale e la sua identità (Naficy 2001). Il primo lavoro di Halilovic è, infatti, un documentario intitolato Io la mia famiglia Rom e Woody Allen (2009). L’opera presenta molti degli elementi che si ritrovano nel film di finzione girato sei anni dopo, tra cui il personaggio della madre, che si aspetta che la figlia segua le tradizioni delle comunità rom e non quello dei personaggi italiani a cui è assegnato un ruolo antagonistico. Halilovic evoca il suo documentario attraverso un elemento citazionista di tipo infratestuale.
Arrivata a Cinecittà dopo non poche peripezie, Gioia compie il gesto che l’aiuta a lasciare il falso sé alle spalle. Nel momento della contemplazione della scritta “Cinecittà”, ella prova emozione e meraviglia dinanzi alla sua dimensione insieme reale e mitica che le fa sentire di potere raggiungere il suo vero sé. In mezzo alle strutture di cartapesta e legno dei setting storici, Gioia si sfila la gonna che le copre i pantaloni e la getta via, liberandosi dell’imposizione paterna che vorrebbe prescriverle di aderire alle tradizioni rom e ad una immagine di donna a lei estranea. Questo gesto rappresenta ciò che Winnicott definisce il sé autentico in azione, una dimensione istintiva, spontanea dall’effetto liberatorio con cui Gioia sente di uscire dallo stereotipo associato alla sua condizione emotivamente segregante di donna rom. Soltanto il sé autentico, fino a quel momento della storia rimasto nascosto in una gabbia di irrealtà e futilità, può essere veramente se stesso ed estrinsecare la propria creatività. Mentre varca l'ingresso di Cinecittà, ovvero tasta il suolo della “terra promessa” (Naficy 2001: 152), quell’ambiente a lungo vagheggiato si mostra finalmente ai suoi occhi come una realtà accessibile. Da questo momento catartico, anche le altre realtà esteriori, compresa quella della famiglia, diventano oggettive e non frutto delle sue proiezioni. Il film evolve rapidamente verso la fine, mostrando come Gioia, dopo l’incontro fortuito con la persona reale del regista americano Allen, che passa in automobile mentre lei lo chiama invano a gran voce, abbandonerà la visione irreale del cinema per viverlo attivamente come spazio operativo condiviso, in cui coinvolgere anche madre e padre.
Nell'ultima sequenza, la regista presenta la circostanza quotidiana della casa di Gioia, trasformata in un set con l'aiuto del suo amico e presunto fidanzato (Simone Coppo), il ragazzo figlio dell'amico di suo padre. In questo senso, si realizza quello che Winnicott definisce lo spazio transizionale, che rappresenta un ambiente sia percepito soggettivamente sia costruito oggettivamente, di cui la cinepresa, rubata da Gioia nella sua unica esperienza come assistente alla regia, è l’oggetto transizionale. Gioia fa della sua videocamera, acquisita certo illegalmente ma con chiara autodeterminazione, lo strumento creativo che la libera dal suo falso sé, che la induceva ad avere atteggiamenti autolesivi ora di soggezione ora di sterile ribellione. Il sogno del cinema tradotto in prassi creativa permette a Gioia di vivere nella realtà riuscendo a preservare il nucleo della sua diversità, che le consente di esternare l'originalità del suo talento. Dalla prospettiva di Winnicott, questa determinazione affabulatrice crea quel “luogo psichico” dove Gioia può finalmente concretizzare la propria passione in un’opera filmica, evolvendo come persona, pur non tradendo il proprio ambiente familiare e le proprie origini, ma anzi modellando i processi del crescere e dell'esistere insieme. Gioia matura il proprio “vero sé” anche comprendendo che la sua famiglia e i suoi singoli componenti sono essi stessi soggetti a regole e costrizioni di cui sono solo parzialmente consapevoli che emanano come norme implicite dalla comunità e dall’ambiente esterno, e a cui essi si assoggettano per necessità di adattamento. Nel dare espressione al suo io romantico e sognatore, a dispetto del contesto urbano torinese verso cui Gioia, come regista del film nel film, non sviluppa alcun autentico senso di appartenenza, la protagonista realizza la sua vicenda autobiografica con mezzi domestici, impiegando come attori i suoi stessi familiari, come esplicita la silhouette del padre di Gioia posta di spalle contro un romantico sfondo fotografico in bianco e nero della mitica Manhattan3 di Allen. Nella scena conclusiva del film, il padre si volge e sorride alla figlia: “Come sono andato?”
Il trauma della migrazione, avvertita in modo invalidante (Conroy 2016) produce, nel caso di questa regista emergente, degli esiti positivi anche rispetto al rapporto con i propri familiari. Infatti, come argomenta Conroy, se un migrante ripudia la propria cultura di appartenenza per indossare un sé frammentato che appartiene ad un’altra realtà culturale, questo passaggio causerà al migrante di sviluppare un'identità fragile (Conroy 2016). Naficy specifica che storicizzare e localizzare le origini del processo creativo degli autori esilici e diasporici è importante per comprendere la loro poetica. Da questa prospettiva la storia di Gioia può essere intesa come il viaggio del vero sé verso lo spazio senza territori dell’arte (Naficy 2001: 34).
Concludendo, il metodo della psicocritica di Winnicott, applicato all’analisi psicologica del personaggio di Gioia, al suo milieu, alla struttura e al linguaggio originale stesso dell’opera filmica che l’autrice compone attraverso due culture, ha mostrato che la sensibilità creativa, avvertita dalla protagonista come sospesa tra la Bosnia originaria posseduta e poi perduta e l’Italia come terra di destinazione, diventa il fertile campo di osservazione autobiografica e socioantropologica di cui la regista aveva già rappresentato le dinamiche nel citato documentario del 2009.
Il carattere precoce ed insieme persistente della passione di Gioia per il mondo del cinema si estrinseca, appunto, con il rubare la videocamera che riuscirà a fornire corpo e coerenza alla sua vocazione. Questa passione potrebbe costruire con il tempo un “mito” che riuscirà a spingersi oltre la proiezione autoriale. La prospettiva ha evidenziato che le potenzialità di Gioia, sommerse nell’inconscio e percepite consciamente come ostacolate dall’ambiente, si sono mosse verso il traguardo dell’autoespressione nell’opera filmica, se pur con momenti di crisi e discontinuità rispetto al progetto di autorealizzazione. L’autoriflessione sulla ricerca di un senso di autenticità acquisisce i toni di una poetica accentata in questo film dove Gioia sviluppa, infine, un sé biculturale in grado di coesistere in due culture interagenti partecipandovi attivamente.
Attraverso una prospettiva diasporica, la regista Halilovic suggerisce che l’arte cinematografica possa dar voce alla creatività emergente da una minoranza etnica considerata “non persone” e soggetta ad un duraturo stigma (Dal Lago 1999) e coinvolgere nella rinascita identitaria di una comunità deterritorializzata tutti i suoi membri, contribuendo positivamente alla loro integrazione nella terra ospitante e al riconoscimento della loro filosofia di vita ed autoimmagine.
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Per una pubblicazione comprensiva delle teorie di Winnicott di psicologia pediatrica nella traduzione italiana si veda Psicoanalisi dello sviluppo: brani scelti, a cura di Adele Nunziante Cesaro e Valentina Boursier, Roma: Armando, 2004 ed altre opere include nella bibliografia selettiva.↩
Falchera è un quartiere sorto intorno agli anni Settanta per alloggiare gli operai meridionali dell’industria automobilistica, quindi descritto come un ghetto dove regna la discriminazione.↩
Nel film Io Rom romantica sono presenti estratti dal film di Woody Allen, Manhattan.↩