1 Rappresentazioni e auto-rappresentazioni, un problema di sguardo
È certamente indubbio che il fenomeno migratorio sia entrato all’interno del nostro immaginario e del nostro quotidiano attraverso i media, la televisione, i giornali e successivamente il web. L’emergenza umanitaria e la crisi migratoria sono divenuti temi costanti, forma stessa del presente che deve essere investigata e su cui bisogna interrogarsi in maniera approfondita. Il cinema, per la sua natura transnazionale e transculturale, può aprire uno spazio critico di riflessione e di ri-formulazione del mediascape contemporaneo, ri-attivando una critica socio-politica e una riabilitazione della sensibilità.1
Riflettendo sul ruolo del cinema nell’attività umanitaria, Sonia Tascon conia il termine human rights film (Tascon 2012). Confrontandosi con la risonanza mediatica, la saturazione e la strumentalizzazione delle immagini che documentano il fenomeno migratorio, relegate all’interno della cronaca nera o della narrazione spesso sensazionalistica ed emergenziale degli sbarchi, queste produzioni adottano, in contrapposizione, uno sguardo intimo e personale, uno sguardo umano. L’human rights film cerca di restituire al soggetto migrante un volto, un profilo, una voce e un’appartenenza. Per il legame referenziale con il mondo esterno, per la capacità attestativa e l’efficacia testimoniale, si è riscontrata una forte risposta da parte del cinema documentario,2 come genere e come forma, nel contestare e contrastare le politiche egemoniche di rappresentazione così come a stimolare una riflessione critica nello spettatore intorno al fenomeno migratorio.3
Al fine di mostrare l’umanità nella sofferenza dell’altro, la rappresentazione del soggetto deve oltrepassare le forme che identificano il migrante esclusivamente “in stereotypical terms as a victim or invader” (Cati 2019: 3).4 Il documentario, attraverso una modalità interrogativa piuttosto che assertiva atta a lasciare spazio alla riflessione personale, si interroga sulla relazione etica tra lo spettatore e il soggetto migrante, tra chi vive in una zone of comfort e chi invece in una zone of suffering (Chouliaraki 2006). Tuttavia, come sottolinea Kaisa Hiltunen, prendendo in esame il film Salam Neighbor (2015) e facendo riferimento ai paradossi della comunicazione umanitaria che Lilie Chouliaraki definisce paradox of agency (Chouliaraki 2013: 34), nel cinema documentario contemporaneo può emergere una tensione problematica tra “humanitarianism as an act of benevolence” e “as an act of power” (Hiltunen 2019: 147). L’atto di solidarietà rischia infatti di confermare le dinamiche e le gerarchie di potere. Chouliaraki riflette sulla modalità in cui nell’epoca del post humanitarianism, caratterizzata dalla difficoltà di mettere in luce i benefici su chi riceve solidarietà per concentrarsi invece sugli effetti e i meriti di chi la opera, il cinema documentario possa rappresentare il dolore e la sofferenza a distanza in maniera etica e costruttiva (Chouliaraki 2013).5 Per interrogarsi sulla promozione dei diritti umani nel cinema documentario risulta necessario riflettere sulla modalità in cui viene rappresentato e re-inquadrato il soggetto migrante, secondo quali strategie visive e narrative si costruisce il racconto e viene restituita la sua testimonianza.
A venir messo in discussione non è il legame indessicale del cinema documentario, la pretesa di veridicità e l’oggettività che questo dovrebbe comportare, quanto la natura dello sguardo che viene incarnato. Lo sguardo del soggetto migrante è di natura duplice, sul mondo che osserva e attraverso gli strumenti impiegati per osservarlo, uno sguardo in grado non solo di cogliere ma anche di promuovere diverse dimensioni culturali, come sostiene Said nel delineare la figura dell’esule (Said 1993). Tuttavia, nel cinema documentario contemporaneo il soggetto migrante è spesso in qualche maniera subordinato allo sguardo del regista. Il problema dello sguardo emerge nel momento stesso in cui il soggetto viene definito come ‘altro’ (Pavoni 2018). In questo modo la rappresentazione, veicolata dal concetto di alterità, comporta inevitabilmente una proiezione dello sguardo del regista su di esso, in linea con un’estetica post-umanitaria, secondo cui la voce egemonica occidentale si andrebbe a sostituire a quella del soggetto migrante relegato ai margini. L’umanitarismo occidentale rischia di trasformarsi, secondo quanto afferma ancora Chouliaraki, in un ironic spectatorship “where attention is on our own emotionality rather than on others and global justice” (Chouliaraki 2013: 22).
2 Il mondo visto con gli occhi dei migranti
È necessario dunque interrogarsi, come suggerisce Donya Alinejads, sulla modalità in cui vengono restituite e mediate le memorie del soggetto migrante dal momento che nella maggior parte dei casi non sono loro stessi ad aver realizzato o ideato il prodotto audiovisivo finale in cui viene restituita e attraverso cui viene trasmessa la propria testimonianza (Alinejads 2017). Visto che durante il viaggio migratorio soltanto pochi hanno accesso a strumenti di ripresa, molto spesso il soggetto racconta e descrive ad altri la propria esperienza.6 La testimonianza del migrante viene rappresentata e raccontata in questo modo da uno sguardo e da una prospettiva eurocentrica. Per cercare di soprassedere a questa appropriazione visiva, numerose produzioni hanno raccolto e archiviato video-testimonianze, diari, racconti orali e interviste realizzate dai migranti durante e dopo il loro viaggio. Questi progetti, ri-attivando le memorie del soggetto nel tempo presente e dando spazio agli individui che hanno vissuto in maniera diretta la migrazione, cercano di dare forma ad autorappresentazioni che possono avere un impatto significativo nella costruzione della memoria culturale.
L’Archivio delle memorie migranti (AMM) è una delle realtà nate in rete atta a promuovere la produzione e la diffusione di racconti di sé e testimonianze scritte e orali sulle migrazioni. Basando il proprio operato su metodologie partecipative e interattive, l’AMM si pone l’obiettivo di valorizzare una pluralità di forme espressive che possano lasciare traccia del fenomeno migratorio e delle storie individuali di chi ha avuto tale esperienza. Al fine di permettere ai soggetti di padroneggiare gli strumenti per l’espressione di sé, ovvero in tal caso i mezzi cinematografici, l’Archivio delle memorie migranti offre inoltre corsi, laboratori di scrittura e opportunità di training. Prendendo in esame due delle produzioni realizzate dall’AMM come Benvenuti in Italia (2012), una raccolta di cinque cortometraggi scritti, girati e diretti da ragazze e ragazzi immigrati in Italia e Va’ Pensiero (2013) di Dagmawi Yimer, film che si concentra su episodi di razzismo avvenuti a Milano e a Firenze, Raffaele Pavoni sottolinea come, nonostante a filmare le memorie migranti siano gli stessi migranti, queste opere continuino ad essere fortemente caratterizzate da una componente eterorappresentativa. La modalità di rappresentazione del sé del soggetto migrante è strettamente condizionata ed interconnessa con gli stereotipi e le generalizzazioni promosse spesso dal medium televisivo, muovendo la narrazione verso una dinamica conflittuale razzismo/antirazzismo, accoglienza/odio, e “tralasciando quasi sempre l’identità, culturale e affettiva, dei soggetti trattati” (Pavoni 2018: 140). Nel tentativo costante di “alterizzazione dell’altro” le auto-rappresentazioni vengono contaminate facendo emergere “lo sguardo nostro sull’Altro”, piuttosto che “lo sguardo dell’Altro su sé stesso” dal momento che le pulsioni del soggetto migrante, per una propria auto-rappresentazione, non sono indirizzate necessariamente verso queste direttive e tematiche, come può essere la narrazione antirazzista (Pavoni 2018: 151-152).7
Sulla natura estetica e retorica della pratica del ri-uso e della ri-contestualizzazione delle immagini realizzate dai migranti stessi si concentra anche lo studio di Alice Cati e Maria Francesca Piredda. Le due studiose prendono in esame oltre che l’Archivio delle memorie migranti anche il progetto Sciabica, ponendo numerosi interrogativi concernenti gli obiettivi che hanno portato alla formazione di queste due realtà. Molto spesso questi progetti sembrano sfruttare il fenomeno migratorio attraverso contenuti generati dal basso per evocare “pathos rather than making a serious social commitment” (Cati, Piredda 2017: 632). Il nodo centrale risulta essere dunque non l’autenticità e la spontaneità del racconto quanto l’opportunità di dare ai soggetti migranti la possibilità di sviluppare una forma di auto-rappresentazione “of their own migration experience according to their own modes of expression” (Cati, Piredda 2017: 632). A venir indagato, come sottolinea ancora Cati, è l’approccio della ri-mediazione dei filmati realizzati dai migranti. Una volta ri-ordinate e ri-contestualizzate, le immagini possono assumere nuove forme di significato, un nuovo valore testimoniale, uno strumento critico che apre la strada ad una nuova prospettiva nel dibattito e nel giudizio pubblico (Cati 2019).
La giustapposizione, il collage, la ri-mediazione e il ri-montaggio intermediale di forme multiple diventano dunque linguaggio filmico e principio epistemico, distanziandosi tuttavia per certi versi dalla pratica dell’archiveology delineata da Catherine Russell. Secondo quanto formulato dalla studiosa, l’archiveology consiste in una pratica filmica che “draws on archival material to produce knowledge about how history has been represented and how representations are not false images but are actually historical in themselves and have anthropological value”. (Russell 2018: 22). Tuttavia, i casi presi in esame, al posto che svelare la storia che si cela dietro le immagini, riscoprire e gettare luce attraverso una ri-attivazione nel presente storico delle tracce amnesiche del materiale d’archivio, spesso occultato o destinato all’oblio, cercano di ri-ordinare un repertorio audio-visivo che affolla il mediascape contemporaneo attraverso un discorso intermediale.8
Per produrre nuova conoscenza storica l’immagine deve venir ri-mediata dalla memoria archivio – “il cumulo dei ricordi non organizzati e non utilizzati” – alla memoria funzionale – “una memoria strutturata da un processo di scelta, di collegamento, di costruzione del senso” (Assmann 2002: 150). Dal momento che il flusso delle immagini del fenomeno migratorio ha saturato il mediascape contemporaneo, risulta necessario un processo di ri-ordinamento e di ri-organizzazione. In questo modo le immagini possono riacquistare senso e significato. Ad ogni modo, come abbiamo accennato in precedenza, questo atto creativo di re-intermediazione preserva ancora un’istanza comunicativa eurocentrica. Il soggetto capace di decodificare la memoria archivio facendosi portatore della memoria funzionale, legando i ricordi e il vissuto personale in una struttura narrativa oltre che emozionale atta a fornire un senso di orientamento per lo spettatore, risulta essere ancora una volta non il migrante ma chi realizza il prodotto finale.
3 Les Sauteurs e la soggettività migrante
Al fine di proseguire la riflessione intorno alla rappresentazione della soggettività migrante e alle problematicità evidenziate, nell’ultima parte del contributo prenderò in esame il film Les Sauteurs (2016),9 diretto da Moritz Siebert, Estephan Wagner e Abou Bakar Sidibe. I saltatori a cui il titolo fa riferimento sono migliaia di migranti, provenienti specialmente dall’Africa subsahariana, che cercano di entrare in Europa attraverso la città di Melilla, enclave spagnola sulla costa orientale del Marocco. Al fine di raggiungere la porta di accesso all’Europa in terra africana, una fortezza quasi inespugnabile, è necessario superare un complesso sistema di sicurezza che consiste in tre barriere di filo spinato alte sei metri e lunghe dodici chilometri. Per pianificare e programmare i tentativi di ingresso i migranti si radunano in accampamenti nascosti nella vegetazione sul monte Gurugu, il punto più alto del Capo delle Tre Forche, di fronte alla città di Melilla.
Moritz Siebert e Estephan Wagner, provenienti rispettivamente da Germania e Cile,10 decidono di mostrare questa realtà drammatica, spesso taciuta o ignorata, affidando una piccola handycam digitale ad Abou Bakar Sidibe, un giovane originario del Mali che vive sul monte da ormai quindici mesi nella speranza di poter entrare in Europa. I due registi decidono di lasciare il potere del racconto per immagini al soggetto migrante, cercando in questo modo di decostruire la prospettiva eurocentrica e di evitare di cadere nella gabbia dello sguardo egemonico per raccontare una realtà e una condizione che, attraverso la loro prospettiva, sarebbe stata restituita inevitabilmente contaminata.
Siebert e Wagner affermano in un’intervista che non avessero concretamente idea di come costruire la storia. Conoscevano parzialmente la realtà del monte Gurugu ma non sapevano cosa potesse essere possibile filmare e come.11 Grazie ad un giornalista spagnolo, i due registi riescono ad entrare in contatto con Sidibe. Come afferma il giovane maliano nel corso del film: “mi hanno chiesto se avessi voluto fare un film sulla mia vita nella foresta e mi hanno dato una telecamera. All’inizio i soldi che mi hanno dato hanno giocato un ruolo importante affinché non vendessi immediatamente la camera. Ma volevo anche documentare ciò che succede qui. Questo mi ha motivato”.
Nonostante le istruzioni e i suggerimenti che Siebert e Wagner danno a Sidibe, specialmente di natura tecnica (evitare di scuotere troppo la camera, realizzare delle inquadrature abbastanza lunghe per avere più alternative al montaggio, evitare di utilizzare lo zoom), il film rispecchia la prospettiva del soggetto migrante diventando una propria auto-rappresentazione. Il giovane ragazzo maliano filma la vita precaria e sospesa dei migranti. Molti sono in attesa di una possibilità per entrare in Europa mentre molti altri decidono di ritornare al paese d’origine sfiduciati dopo i numerosi tentativi falliti. “Il monte Gurugu. Il monte famoso, sacro. Divino. La speranza e la disperazione. La vita e la morte insieme, è un nuovo mondo” afferma Sidibe nella parte iniziale del film. Il giovane si concentra sulle lunghe attese che intercorrono tra un tentativo di attraversamento e un altro, filmando momenti quotidiani come ricercare il cibo nei cassonetti, accendere un fuoco improvvisato per scaldarsi o cucinare, andare a raccogliere l’acqua alla fonte, lavarsi con un barattolo, ricostruire un misurino o altri utensili distrutti dalla polizia marocchina e momenti di condivisione con i compagni di accampamento come una sfida a dama, una battaglia rap, o la partita di calcio che vede sfidarsi i migranti provenienti dal Mali contro gli ivoriani, su cui ci si sofferma lungamente. Ad accompagnare queste scene ci sono le testimonianze del protagonista e di altri migranti che confidano davanti alla macchina da presa preoccupazioni e speranze. Sentiamo la voice over di Sidibe, dietro la telecamera, che interpella i propri compagni, i quali si rivolgono a lui raccontando un passato fatto di guerra e povertà così come i grandi progetti e cambiamenti che hanno in mente per il futuro.
Ad emergere è la realtà di un mondo a parte, con le proprie regole e strutture, dove il dottore fa il commerciante e dove il venditore di sigarette era calciatore professionista nel proprio paese. La società che si è andata a costituire nel campo ha delle precise gerarchie; ci sono ad esempio persone che assumono il comando, designate ad organizzare e pianificare strategie per superare la recinzione. Oltre il muro, oltre le barriere di metallo e lamiera c’è un luogo idealizzato. L’Europa viene vista come l’Eldorado, una terra promessa su cui si sofferma molte volte lo sguardo della macchina da presa. La città di Melilla, quasi esclusivamente inquadrata dalla cima del monte, sembra estremamente vicina, facilmente raggiungibile ma ancora inafferrabile.
Sidibe comprende la potenzialità del mezzo cinematografico sia come strumento di autorappresentazione sia per la sua efficacia testimoniale, veicolo per rivendicare la violazione dei diritti umani e soprusi subiti da parte di dittature e regimi.12 “Il mio paese è stato sfruttato per anni e adesso che io voglio venire in Europa me lo impedite? No, no, no, non è giusto! Io ho il diritto di entrare in Europa, non potete toglierci tutto e poi lasciarci fuori” commenta il giovane. Il soggetto/regista oltre che filmare la realtà che lo circonda, in alcune occasioni, come quando mostra la città di Melilla dall’alto, si pone egli stesso di fronte alla camera e al centro dell’evento. Auto-filmandosi Sidibe pone in primo piano la propria presenza fisica, evidenziando come lo sguardo incarnato dalla camera non sia depersonalizzato ma portatore di una specifica e chiara soggettività.13
Le immagini realizzate dai soggetti migranti che vengono ri-mediate all’interno di una narrazione filmica, come può essere il caso della webserie Com’è profondo il mare (2016), formata da cinque puntate pensate per una fruizione sui dispositivi mobili, rischiano di finire “into the logic of the total subtraction of corporeity”. Prendendo in esame questa produzione, Alice Cati sottolinea come “the mediatisation of the subjective gaze functions as a form of identitarian deprivation” (Cati 2019: 12). Nonostante i filmati siano stati realizzati dai sopravvissuti, non è presente alcun elemento che permetta di attribuire loro un valore identitario. I soggetti risultano essere invece oggettivati e depersonalizzati, destinati a rimanere corpi senza singolarità, senza un nome e un volto.
Contrariamente, in Les Sauteurs, Siebert e Wagner lasciano ampio spazio discorsivo e creativo a Sidibe, che in questo modo può esprimersi in maniera personale mostrando la propria esperienza, singolare e unica. Nonostante sia certamente vero che ai due registi rimanga un potere non secondario come quello del montaggio finale, all’interno dell’ordine del visibile emerge chiaramente la soggettività del migrante. Le immagini colte dal suo occhio, filmate dalla sua prospettiva, non risultano lasciare esclusivamente un debito di testimonianza, ma vanno a costituire una narrazione in cui emergono elementi che permettono allo spettatore di attribuirne un’identità.
A differenza della webserie precedentemente citata, la prospettiva del first person shot in Les Sauteurs non vuole limitarsi a calare lo spettatore in una realtà drammatica in modo da suscitare compassione, attraverso uno sguardo che risulta estremamente depersonalizzato.14 È Sidibe ad avere in mano la macchina da presa e quindi il potere di decidere su cosa concentrarsi, cosa mettere a fuoco, cosa integrare e cosa escludere dalla narrazione. È il giovane maliano ad acquisire agency e a diventare protagonista della sua stessa storia, una storia altrimenti taciuta o restituita priva di complessità.
Il flusso di immagini, che fotografano esclusivamente sofferenza passiva e dolore, raccontano il fenomeno migratorio attraverso una narrazione emozionale che può suscitare compassione nello spettatore ma risultare non necessariamente efficace, atta ad aprire uno spazio di riflessione critica sulla questione. (Chouliaraki 2006).
Alle riprese effettuate da Sidibe, Siebert e Wagner decidono di giustapporre le immagini a infrarossi catturate dalle camere di sorveglianza della polizia spagnola, in cui vengono mostrati i tentativi di salto. Lo sguardo del migrante, portatore di una soggettività specifica, viene alternato dall’occhio artificiale e depersonalizzato di un sistema robotico che legge il fenomeno migratorio come un semplice flusso in movimento. I soggetti vengono mostrati come puntini luminescenti su uno schermo. Le immagini colte dagli organi di sicurezza istituzionali, atti a controllare, identificare e riconoscere il soggetto in movimento, sembrano spesso coincidere con la rappresentazione del migrante promossa dallo sguardo egemonico, allo stesso tempo privo di agency, delegato all’occhio non umano dei media mainstream. Nelle immagini che popolano il mediascape contemporaneo, i soggetti sono spesso inquadrati in campo lungo, un’enorme massa omogenea e acefala in movimento da respingere o compatire. Non emerge alcuna soggettività propria, specifica e complessa dei migranti. I soggetti non sono rappresentati come esseri di parola, ma identificati come figure fantasmatiche prive di qualsiasi forma di individualizzazione.15
Il racconto di Sidibe si conclude nel momento in cui riesce, insieme ad altri suoi compagni, a superare la recinzione e ad entrare in territorio europeo. Lo scavalcamento della barricata viene ancora una volta mostrato esclusivamente attraverso le registrazioni della camera di sicurezza. Nel finale vengono inquadrati, non più dalla macchina da presa del giovane maliano ma probabilmente da passanti o giornalisti che si trovavano nei pressi del muro divisorio, decine di migranti che esultano e gioiscono per essere riusciti finalmente nel loro intento. Tra di loro, visibilmente commosso e spaesato, dopo aver trascorso settimane in viaggio e aver vissuto più di un anno sul monte Gurugu, compare Sidibe. L’uomo, con le scarpe in mano che ha utilizzato come rampini per scavalcare la recinzione, si allontana, confondendosi insieme agli altri migranti in attesa di essere identificati dalla polizia.
Come riportano Siebert e Wagner in un’intervista, dopo essere riuscito ad entrare in Europa, il giovane maliano ha vissuto in un primo momento in Spagna per poi spostarsi in Germania dove è stato trasferito in cinque differenti centri di accoglienza. Dal momento che il progetto prevedeva di focalizzare l’attenzione sulla realtà drammatica di chi vive sul monte Gurugu, il racconto di Sidibe si interrompe nel momento in cui raggiunge il mondo al di là della barriera, nel momento in cui tutti i suoi sforzi sembrano aver raggiunto un compimento. Les Sauteurs rifiuta la struttura narrativa della migrazione che accomuna molti prodotti, strategia che rende il viaggio un percorso emozionale per lo spettatore e di formazione per il soggetto, che si può dividere sostanzialmente in tre parti: il viaggio, l’arrivo nella terra promessa e i problemi legati al percorso di integrazione (Loshitzky 2010).
4 Conclusioni
Come abbiamo sottolineato nel presente contributo, numerose produzioni negli ultimi anni si sono concentrate sul fenomeno migratorio cercando di porsi come narrazioni alternative rispetto al racconto promosso dai media mainstream. Nonostante alcune delle opere prese in esame in precedenza cerchino di rendere protagonisti i migranti, lasciando spazio all’auto-narrazione, nonostante cerchino di decostruire la prospettiva eurocentrica raccogliendo, archiviando e ri-contestualizzando contenuti realizzati dai soggetti stessi, sembrano preservare ancora uno sguardo eurocentrico. Molto spesso il processo di ri-mediazione delle immagini coincide con una remoralization (Chouliaraki 2015), cercando di “convertire patemicamente ed emozionalmente la narrazione” (Cati 2013: 72). I frammenti, le storie e le immagini raccolte in rete sembrano ri-ordinate e ri-montate a sostegno di una tesi precostruita intorno alla condizione e all’esperienza migratoria. Risulta necessario dunque interrogarsi per prima cosa sulla natura dello sguardo incarnato, sulle modalità attraverso cui viene rappresentato e re-inquadrato il soggetto migrante, secondo quali strategie visive e narrative si costruisce il racconto e viene restituita la testimonianza.
Les Sauteurs sembra offrire una prospettiva alternativa che si muove oltre le convenzionali categorie binarie che rappresentano il soggetto migrante esclusivamente come vittima da compatire o come un pericoloso invasore. Il film risulta essere un esempio paradigmatico al fine di aprire una riflessione su cosa possano realmente dire ed esprimere i migranti in merito alle proprie esperienze attraverso il mezzo cinematografico, quanta libertà abbiano in queste produzioni, quale regime di rappresentazione adottino e quale forma identitaria trasmettano.
Nonostante non si debba tralasciare il fatto che il film sia stato finanziato da una casa di produzione europea, l’autorappresentazione di Sidibe, dal momento che rispecchia la prospettiva e le intenzioni del soggetto, acquisisce un valore testimoniale e politico differente rispetto alle immagini dei migranti che dominano il mediascape contemporaneo. I media, come abbiamo sottolineato precedentemente, spesso neutralizzano il valore testimoniale delle immagini incoraggiando sentimentalismo e impedendo un processo di identificazione e ri-elaborazione. Le immagini personali che raccontano l’attesa realizzate da Sidibe danno invece forma ad una contro-narrazione sul fenomeno migratorio, entrando in una dimensione costitutiva del racconto testimoniale che può promuovere un impegno sociale.
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Come sottolinea Sandra Ponzanesi, il cinema risulta essere “a transnational medium par excellence and offers new visions of Europe in motion” (Ponzanesi 2016: 218). Sul cinema postcoloniale in Europa si rimanda anche a Cfr. Ponzanesi, Waller (2012); Ponzanesi (2014). Sulla rappresentazione del fenomeno migratorio nel cinema documentario così come in altre espressioni artistiche si veda anche Demos (2013).↩
Pooja Rangan sostiene che l’umanità a rischio, mostrata in situazioni di crisi ed emergenza, è la ragione d’essere del cinema documentario, in particolar modo per quanto concerne il documentario partecipativo, condizionandone e determinandone le forme estetiche Cfr. Rangan (2017). Come riprende anche Brian Winston, la sofferenza delle vittime della società continua ad essere una base rilevante del cinema documentario, la più considerevole eredità della scuola griersoniana Cfr. Winston (2008).↩
Secondo la studiosa, gli human rights films adottano una forma documentaria, nonostante non tutti i film siano classificabili propriamente come dei documentari, “the films are to be taken seriously, accepted as truth, and acted upon in their entirety” (Tascon, 2012: 871).↩
Sulle modalità di rappresentazione delle minoranze si rimanda anche a Cfr. Puwar (2004).↩
Secondo quanto sostiene Rancière, a saturare i mezzi di informazione non sono le immagini di sofferenze ed eventi catastrofici ma immagini di corpi anonimi, individui di cui si parla ma a cui non viene concesso di esprimersi Cfr. Rancière (2018). Sulla questione umanitaria e la rappresentazione del dolore si rimanda inoltre a due testi fondamentali che hanno affrontano l’argomento dal punto di vista filosofico-antropologico e sociologico-politico Cfr. Boltanski (1993); Sontag (2003).↩
Il viaggio compiuto dai migranti viene trasformato spesso in uno spettacolo estetico che si comunica e si racconta attraverso la potenza delle immagini. Questa problematicità di sguardo e rappresentazione risulta evidente ad esempio nel film Human Flow (2017), diretto da Ai Weiwei, in cui il fenomeno migratorio diventa un esodo biblico. Le inquadrature dall’alto effettuate dai droni mostrano una vera e propria fiumana di gente che si muove in massa. Ricco di immagini di campi profughi dalla Grecia al Kenya, dall’Afghanistan al Libano, dalla Giordania alla Turchia, dalla striscia di Gaza alla Sicilia, di raccolte di cifre e di statistiche grazie alle interviste realizzate a volontari e professionisti nel settore dei diritti umani, il film non lascia praticamente spazio alla soggettività dei migranti. I rifugiati risultano essere una grande massa senza alcun tipo di specificità, forma identitaria, storia o legami affettivi, parte di un fenomeno spettacolare da immortalare cercando di generare empatia ed affezione nello spettatore. Seppur da un altro punto di vista, dal momento che viene preso in analisi Exodus: Our Journey to Europe (2016), un progetto partecipativo realizzato dalla BBC che assembla anche immagini realizzate dai soggetti migranti, sulla rappresentazione del viaggio migratorio si rimanda ad esempio a Cfr. Bennett (2018).↩
Raffaele Pavoni prende in esame anche il film collettivo Tumaranké (2018), un termine della lingua bambara, parlata in Mali, che definisce chi si mette in viaggio alla ricerca di un futuro migliore, ideato e coordinato dalla casa di produzione Dugong Film. Nell'ambito del progetto europeo Re-Future è stato chiesto a trentotto minori richiedenti asilo, ospitati in centri di accoglienza della Sicilia meridionale, di riprendere con lo smartphone alcuni momenti della propria quotidianità. Vengono in questo modo alternati racconti personali, momenti di svago, di lavoro e di interazione con gli italiani. Tuttavia, come afferma Pavoni, a mancare nel progetto è la spontaneità “talmente ricercata da diventare artificiale. […] Detto altrimenti, la rinuncia a una presa di posizione sul materiale girato si traduce, potremmo dire, in un’antinarrazione autoriflessiva, che finisce per prendere il sopravvento sul contenuto stesso di tale materiale”. (Pavoni 2018: 156).↩
Il cortometraggio The Migrating Image (2018) diretto da Stefan Kruse Jørgensen riflette in maniera approfondita sulla produzione di immagini relative ad eventi traumatici e tragici in riferimento al fenomeno migratorio e come queste possano essere strumentalizzate dai media generando fake news o altri fraintendimenti legati all’informazione. Il film pone in conflitto regimi visivi ed espressivi differenti, indagando le molteplici connessioni delle immagini, alternando scatti catturati da camere militari, da elicotteri o imbarcazioni della marina per fine documentativo con riprese effettuate dagli stessi migranti o dai volontari appartenenti ad organizzazioni umanitarie.↩
Il film è stato finanziato dalla casa di produzione danese Final Cut for Real. http://www.finalcutforreal.dk/↩
Moritz Siebert dopo aver lavorato fino al 2006 come medico, ha realizzato diversi cortometraggi e un lungometraggio Erntehelfer (2014) prima di Les Sauteurs (2016). Estephan Wagner nato e cresciuto in Cile, dove ha studiato regia e montaggio, si è trasferito in Germania e successivamente in Francia. L’ultimo documentario realizzato Sea of Sorrow – Sea of Hope (2018) racconta nuovamente il fenomeno migratorio, concentrandosi su una donna siriana, che dopo aver trovato rifugio in Danimarca, cerca disperatamente di ricongiungersi con i propri figli rimasti in patria.↩
https://www.dfi.dk/en/english/do-we-really-need-more-fences-melilla(Ultima visualizzazione 12 Settembre 2019).↩
Per questo aspetto si rimanda a Cfr. K. Schaffer, S. Smith (2004).↩
In un recente contributo Chouliaraki sposta l’attenzione sui selfie realizzati dai soggetti migranti e sulla loro ri-mediazione nei media mainstream occidentali. La traccia digitale come forma di testimonianza e auto-rappresentazione viene marginalizzata, dislocata, ri-contestaulizzata e ri-semantizzata secondo la linea del symbolic bordering Cfr. Chouliaraki (2017).↩
La tecnologia e la realtà virtuale diventano delle macchine empatiche che immergono lo spettatore nella dimensione drammatica dei migranti e nella vita nei campi profughi come si denota nei progetti Refugee Republic (2012) e Clouds Over Sidra (2015). Il primo è un documentario interattivo e transmediale ideato dal disegnatore Jan Rothuizen, il giornalista Martijn van Tol e il fotografo Dirk Jan Visser. Lo spettatore può visitare il campo profughi di Domiz, situato nel nord dell’Iraq attraverso un’esperienza multisensoriale con testi, foto, suoni e video. Clouds Over Sidra è invece un cortometraggio realizzato in VR da Gabo Arora e Chris Milk. L'immersività garantita dalla realtà virtuale cerca di avvicinare il più possibile lo spettatore alla vita dei migranti nel campo giordano di Zaatari, esplorando in maniera fisica e corporea l’interno dello spazio abitato Cfr. Previtali (2019).↩
Massimiliano Coviello e Giacomo Tagliani pongono in relazione la rappresentazione, nei media mainstream, del terrorismo e delle migrazioni facendo riferimento ad una parabola retorica che pone l’altro come invasore e la diversità come minaccia al fine di infondere paura nell’opinione pubblica. Entrambi i soggetti vengono dotati di “una soggettività in vitro, infinitamente replicabile e trasmissibile ai propri consimili resi tutti uguali” (Coviello, Tagliani 2018: 127).↩