Sarebbe una lista molto lunga, quella che dimostrerebbe come il Sicilia Queer FilmFest, che si tiene a Palermo, stia portando avanti un lavoro di coerenza e di attenzione come poche altre piccole realtà cinematografiche quantomeno europee. E si parla di lista perché questo lavoro di coerenza si traduce nella sconfinata serie di autori (registi, attori, scrittori, musicisti) che il festival invita e ha invitato in passato, e che sono stati così introdotti al successo in altri festival di grandissimo tenore. Si pensi alle parentesi dedicate a Xavier Dolan nelle prime edizioni, proseguite e ampliate con precisione finché non è giunto il successo di Mommy (2014) a Cannes; si pensi a Gabriel Abrantes, a cui il festival ha dedicato la prima retrospettiva in assoluto dei suoi lavori nel 2017 e che viene premiato dalla Settimana della Critica di Cannes nel 2018; si pensi a Carlos Conceiçao, i cui corti sono sempre stati divisi fra Cannes, Berlino e il Sicilia Queer, e il cui ultimo lungometraggio, dopo la prima berlinese, ha trionfato al Sicilia Queer numero IX. La lista, appunto, sarebbe lunga, proseguirebbe, ma già solo questi nomi riferiscono chiaramente della capacità del Sicilia Queer di osservare ciò che avviene in Europa a livello cinematografico e di esercitare un ruolo quasi profetico nell’individuazione di nuovi autori, di nuovi sguardi e di nuovi modi di fare cinema costruttivamente anticonformisti. Niente infatti lascia dubbi sul fatto che Carlos Conceiçao, al Sicilia Queer con Serpentario (2019), sia una delle nuove promesse del cinema mondiale. Il suo cinema è postmoderno, misterioso e silenzioso, conteso da tratti grotteschi e da momenti addirittura cosmici, che sanno guardare all’immaginario comune, lo sanno strapazzare in maniera appunto postmoderna (dalle fantasie di Boa Noite Cinderela del 2014 alle maschere di Coelho Mau del 2017) e lo sanno ricontestualizzare definitivamente in meccanismi nuovi, alieni, proprio come alieno è lo sguardo registico della prima mezz’ora di Serpentario. Carlos Conceiçao smonta e rimonta la scatola cinematografica, confondendo i generi, le ambientazioni e l’interiorità con l’esteriorità. Non c’è motivo di sospettare che il suo inserimento in concorso non sia un’effettiva profezia, dati i precedenti di eccezionale lungimiranza del Sicilia Queer; ma questo ce lo confermerà il tempo.
E cinema cosmico, postmoderno e “capriccioso” è anche quello di Galatée à l’infini (2017), diretto da un collettivo di registe spagnole (Rojas, Pluchino, Reijnen, Chatzi e Maura) e premiato insieme a Serpentario dalla giuria internazionale del Sicilia Queer di quest’anno. Si tratta di un’operazione sincretica di più linguaggi differenti, montati e riarrangiati come il concetto di queer riarrangia il corpo e i suoi apatici modelli precostituiti. Il tutto per ridiscutere di donna e di simulacro femminile, smontato fisicamente così come figurativamente, in uno spazio dell’impossibile quale può essere lo schermo cinematografico, terra della possibilità.
L’attenzione del festival per un cinema anticonformista, “diverso” e appartenente alle tendenze più interessanti e innovative del cinema europeo non perde mai coscienza del suo messaggio anche sociale, atto a invitare lo spettatore a una maggiore autonomia critica, mettendolo di fronte a film realizzati recentemente e mossi da interessi non esclusivamente legati alle tematiche LGBTQI. Ecco che il formato di un festival queer assume i contorni più generali di un festival di cinema internazionale tout court, sempre in grado di richiamare alle potenzialità politiche della sessualità e della diversità con argute selezioni di pellicole classiche, iconiche o dimenticate (dalla Luna di Bernardo Bertolucci, 1979, a Taxi Zum Klo di Frank Ripploh, 1980) o con titoli più contemporanei che richiamino a una coscienza sociale ma anche estetica, come a ricordarci che le due dimensioni non sono poi troppo distanti o differenti.
Una suggestione del genere sembra portata alla luce proprio da uno dei titoli in concorso, Lembro mais dos corvos (2018) di Gustavo Vinagre, titolo ricco di grande calore umano ma al contempo rigoroso e coerente fino all’eccesso con la propria idea di cinema. In questo caso, tenere per un’ora e venti circa la cinepresa puntata – ma non fissa – su una donna brasiliana trans, Julie Katherine, senza musica extra-diegetica né artificiosi metodi di montaggio, non ha l’unico obiettivo di sperimentare con ritmi e formati dati spesso per scontati, ma ha anche quello di invitare a percepire nel cinema ciò che è invisibile, ed è altro ed è continuamente rievocato. La donna racconta il suo passato e le sue esperienze che finiscono come incarnate nel suo sguardo e nel suo corpo – come ha ben detto il Comitato Palermo Pride nel dedicare al film una menzione speciale quest’anno – ma anche percepibili attraverso la semplice parola, che riacquista una potenza oggi inedita, o almeno rara, in un cinema contemporaneo tendenzialmente votato al parossismo (anche postmoderno, come detto precedentemente) e all’iperrealismo iperbolico. Recuperare il gesto della zoomata, o del semplice movimento di camera, come gesto assoluto e di rottura rispetto alla nostra percezione – qui abbandonata a questi aspetti primi e primordiali del linguaggio cinematografico – è anche un gesto politico che plasma il nostro modo di percepire il reale in primis, e il contesto in secundis, il che si traduce nello smettere di dare le cose per scontate e nell’attivarsi direttamente per poter dialogare con una forma d’arte, la settima, che modifica e arricchisce il nostro – per fortuna, sempre dinamico e cangiante – modo di emozionarci.