Una rassegna come il Trento Film Festival, dedicato tradizionalmente all'esplorazione cinematografica di montagne e culture, costituisce un punto panoramico molto utile per ragionare sul vecchio nodo documentario-finzione, ovvero per capire come si sta stringendo e ridefinendo negli ultimi anni il laccio dei loro rapporti. Questa nota nasce da un dubbio reale provato per diversi minuti davanti al film Drømmeland (Joost Van Der Wiel, 2019), che racconta di un uomo che si isola in una zona disabitata per stracciare i legami con la civiltà – salvo portare con sé uno smartphone. Il dubbio era naturalmente: sto guardando un documentario o un film di finzione? Quella sorta di eremita è una persona vera che ha fatto una sua scelta di vita o un attore? Sono riprese di osservazione o è una messa in scena, nel duplice senso di scrittura cinematografica e di artificio? A partire dal vissuto, il regista Joost Van Der Wiel costruisce infatti delle scene palesemente recitate, in cui la compilazione delle sequenze emerge in tutta la sua studiatezza. Si potrebbe giungere sino a formulare un rompicapo: una persona che recitasse se stessa in un biopic sulla propria vita starebbe all'interno di un documentario o di un film a soggetto?
L'argomento è molto dibattuto a livello teorico, e la definizione o categoria di non-fiction, dai confini più sfumati, serve a fornire una risposta a questo tipo di tensioni. Al di là della teoria, in Drømmeland è un'indecisione empirica a costringere a riflettere sulle concrete difficoltà definitorie poste dal panorama audiovisivo contemporaneo. A complicare le cose vi è la grande pulizia formale (fotografia, inquadrature, suono) di molti documentari, mentre, all'opposto, il cinema di finzione sceglie spesso la strada della sporcizia (camera a mano, bassa definizione, intenti immersivi). Questo senso di pulizia caratterizza anche il film vincitore del massimo premio del festival, la Genziana d'oro. La Grand-Messe (Valéry Rosier e Méryl Fortunat-Rossi, 2018) segue il pubblico che si abbarbica lungo le strade del Col de l'Izoard sin da dodici giorni prima del passaggio dei ciclisti del Tour de France. La videocamera condivide gli spazi angusti dei camper dove tifosi per lo più anziani dormono, leggono, guardano la tivù. La violazione del privato è protetta e legittimata dall'estetizzazione delle loro vite, quasi dei racconti morali di un'umanità che abita e ama le salite. Anche qui, quando ci troviamo dentro il camper, di notte, nel letto con una coppia di coniugi (lui che legge illuminato da un frontalino, lei che gioca a un videogioco sullo smartphone) siamo costretti a chiederci quanto essi stiano recitando per la videocamera e quanto stiano vivendo la loro sincera vita come se la videocamera non ci fosse. I discorsi che i personaggi si scambiano esisterebbero senza la presenza di un microfono che li registra? La versione dozzinale e spuria del principio di indeterminazione (la presenza di un osservatore cambia la realtà) è uno dei temi centrali non solo della scena documentaristica ma anche della mediasfera contemporanea più in generale: la costruzione del soggetto passa attraverso un osservatore esterno, e spesso l'osservatore “esterno” siamo noi stessi.
Anche su cosa sia la realtà (e il realismo) si registra negli ultimi anni un grande dibattito. Bruder Jakob, schläfst du noch? (Stefan Bohun, 2018) parla dell'elaborazione del lutto di quattro fratelli maschi, fra cui lo stesso regista, di fronte al suicidio del quinto di loro. La terapia passa per delle prove fisiche e delle nuove esperienze di convivenza neo-adolescenziale, alla ricerca di un nucleo di rivitalizzazione proveniente dal passato comune. La difficoltà del tema non permette errori. Il regista conferma che alcuni dialoghi fra fratelli sono stati girati più volte perché al primo ciak non funzionavano. L'improvvisazione avrebbe interferito con gli intenti del film – la precisione, la cura, il rispetto per la memoria.
La regina di Casetta (Francesco Fei, 2018) è un documentario d'osservazione tutto concentrato su una ragazza che frequenta le scuole medie e rimane l'unica abitante giovane del paesino appenninico di Casetta di Tiara. Nella lotta tra spontaneità e recita in favore di videocamera sembra qui prevalere la prima. Ma è davvero così, o la ragazza, Gregoria, è talmente brava a interpretare se stessa da non lasciarlo percepire? Anche se sembra vivere fuori dallo spazio e dal tempo, Gregoria è una nativa digitale, un prodotto di questo presente. La sua naturalezza è quindi la somma di tre fattori: della sua innocenza, della bravura del regista, capace di dedicare tutto il tempo necessario a creare confidenza con il suo soggetto, e, in terza battuta, del fatto che l'obiettivo non viene più percepito come una presenza estranea. Da quando è di fatto onnipresente un occhio digitale che registra ciò che siamo e ciò che facciamo, è avvenuto un cambiamento sostanziale nella sfera della rappresentazione del sé, che dà forma, aggiornando Edgar Morin, a un nuovo uomo immaginario.
La somma tra realtà e finzione si può dunque ridefinire nei termini di “finzione documentaria” anche perché la non-fiction nasce oggi in un contesto in cui l'immaginario gioca più che mai un ruolo costitutivo. Come scrive Slavoj Žižek (Paura delle lacrime vere 2001), la verità su di sé si articola sotto l’apparenza della finzione. Anche il vecchio genere documentario accetta inevitabilmente e consapevolmente di passare attraverso di essa proprio per arrivare a distillare qualche goccia pura di quella rara e ambita sostanza che è la realtà.