1 Il gruppo Archigram e il radical design italiano: le origini di un rapporto editoriale
Dalla metà degli anni Sessanta si formano un po’ ovunque in Europa gruppi di progettisti neo-futuristi, termine con il quale si definisce generalmente un’ampia tendenza sviluppatasi a partire dai pionieristici studi di Buckminster Fuller, che si esplicita in una serie di pratiche eterogenee che contestano in chiave utopico-ironica e provocatoria l’estetica funzionalista promulgata dal Movimento Moderno, dominante dagli anni del dopoguerra.
In Italia questa tendenza attecchisce in modo particolarmente fertile dando origine al cosiddetto radical design, un movimento animato da giovani architetti appena laureati provenienti principalmente dalla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze e dal Politecnico di Milano.1
In linea con il clima culturale dell’epoca, l’attività di questi gruppi tentava di attuare una revisione, appunto radicale, della disciplina architettonica che non doveva più essere finalizzata allo sviluppo di strutture e oggetti di consumo, ma concentrarsi sull’ideazione di sistemi che potessero condurre l’umanità ad abbracciare modelli e stili di vita alternativi. Bisognava insomma, smettere di progettare secondo il vecchio adagio razionalista “dal cucchiaio alla città” e, viceversa, iniziare a progettare “dalla città al cucchiaio” (Orlandoni and Vallino, 1977).
Molti degli assunti di base dei gruppi radical italiani erano ispirati dalle proposizioni degli Archigram, il primo collettivo di designer radicali fondato a Londra già nel 1960. Gli Archigram predicavano un approccio costruttivo totalmente infrastrutturale a partire dalla pratica progettuale, che non si risolveva più in un disegno ma trovava il suo unico compimento in un processo comunicativo che utilizzava i linguaggi e le iconografie tipiche della cultura pop. La trasformazione del progetto in pura comunicazione era per gli Archigram il fulcro metodologico (e ideologico) con cui riformare l’esercizio architettonico in una direzione totalmente dimostrativa, una prospettiva che, almeno teoricamente, venne abbracciata anche dai radicali italiani.
Di fatto però, questo programma restò, per lo meno inizialmente, un vago ideale. Infatti, se è vero che dal 1966 ad oggi nessun progetto degli Archigram è mai stato prodotto e molto spesso neppure fisicamente realizzato sotto forma di prototipo, viceversa in Italia l’azienda Poltronova mise in produzione diversi arredi disegnati dai gruppi fiorentini, addirittura il divano Superonda degli Archizoom venne commercializzato a pochi mesi di distanza dalla sua presentazione, avvenuta nel dicembre del 1966, in occasione di quella che viene storicamente ritenuta la prima esposizione del movimento, la mostra Superarchitettura. In principio quindi la continuità con il gruppo inglese si limitò, nella sostanza, a un generale rifiuto del razionalismo e a una certa estetica pop.
Lo spostamento degli italiani verso modalità di progetttazione più propriamente radicali avviene nel 1968, anno nel quale il Gruppo Archigram presenta alla XIV° Triennale di Milano il suo ultimo progetto dedicato proprio alla città italiana, il Milanogram. L’evento è preceduto dall’arrivo alla casa editrice fiorentina Centro Di di alcune copie del quarto numero del magazine degli Archigram “Amazing Archigram Zoom” (Brizzi, 2017: 81) – dal quale gli Archizoom avevano mutuato il nome – e dalla pubblicazione di un dossier di 23 pagine in italiano sulla rivista “Marcatrè”, articolo che permise una migliore conoscenza delle teorie del gruppo britannico e che illustrava ampiamente la loro “ideologia” di “expendable architecture”, attuabile per mezzo di un sistema abitativo di capsule tra loro collegabili, il Plug-in (Pizzinato and Villa, 1967: 187).
Anche il Milanogram deve la sua notorietà prevalentemente alla cultura editoriale del periodo, pur non trattandosi di un progetto sviluppato, come altri del gruppo, per rimanere – letteralmente - sulla carta. Il suo destino fu segnato quando l’intero allestimento della Triennale venne distrutto da un gruppo di giovani contestatori il giorno stesso dell’inaugurazione, dopo che solo un esiguo numero di addetti ai lavori lo aveva visitato (Nicolin, 2011). L’unico modo per vedere la tanto criticata esposizione purtroppo si riduceva, oltre al catalogo, a due servizi fotografici scattati prima della rivolta e pubblicati su “Domus” (Anonimo a, 1968: 15-41) e nel numero speciale di “Interni” dedicato alla mostra (Anonimo b, 1968). Dalla documentazione completa sul Milanogram resa disponibile dalla University of Westminster,2 si comprende come l’enorme e coloratissimo pastiche di immagini proiettate che formava questa complessa installazione multimediale non potesse essere affatto restituito dalla due immagini in bianco e nero scattate dal fotografo della triennale Erminio Bottura che comparivano nelle pubblicazioni sopracitate.
Se il fine ultimo era la definizione di una nuova cultura progettuale condivisa, era necessario comunicare in modo efficace, da qui l’interesse dei designer neo-futuristi dell’epoca per l’editoria e per gli audiovisivi, mezzi che permettevano una più ampia circolazione delle idee rispetto alle canoniche forme progettuali (Brizzi, 2017: 80). Non sorprende quindi che il membro degli Archigram Peter Cook disegni un grande poster pieghevole a colori del Milanogram, il Popular Pack – Domusgram Special pensato espressamente per essere allegato al numero di novembre di “Domus” (Cook, 1968: 108-111), la rivista italiana di architettura più diffusa del periodo e in quel momento la più attenta alle nuove tendenze internazionali. Il poster ricostruiva attraverso fotografie e disegni l’allestimento della Triennale ed era corredato di didascalie numerate che spiegavano il funzionamento dei vari apparati.
2 Il Milanogram, Marshal McLuhan e le utopie audiovisive dei radicali
Il Milanogram si presentava come un grande gonfiabile all’interno del quale venivano presentate in forma audiovisiva alcune soluzioni al problema del sovraffollamento delle città, grazie all’utilizzo di una serie di tecnologie di sopravvivenza “leggere”, modulari e trasportabili (Archigram Group, 1999: 82-83). Le proposte del gruppo guardavano alla città come a un organismo dinamico, perpetuamente soggetto ai cambiamenti di costume dei suoi abitanti.
Pneumatico effimero, l’oggetto sospeso era un gigantesco tubo catodico della comunicazione contemporanea, metafora estrema della contaminazione e trasformazione dell’architettura in teoria dell’informazione […] proponendosi come superficie destinata a riflettere diapositive a colori, film, effetti luminosi provenienti da apparecchi posti nel cilindro. (Nicolin, 2011: 235).
Ma il Milanogram non era solo un efficace display multimediale: le futuribili soluzioni di sopravvivenza che proponeva erano a loro volta incentrate su l’invenzione di nuovi dispositivi audiovisivi. Il Cushicle, ad esempio, era un’unità ambientale individuale che avrebbe permesso a chi la “indossava” di spostarsi nello spazio ed espletare ogni sorta di bisogno fisiologico senza prestare attenzione a null’altro che alle immagini in movimento trasmesse dallo stesso abitacolo (pod). L’environment era dotato di una spina dorsale collegata a una sorta di “sistema nervoso” elettromeccanico che permetteva all’abitacolo di sollevarsi e muoversi, dotandolo al contempo di un inquietante aspetto antropomorfo; una o più unità potevano poi “unirsi” – attraverso il già citato sistema plug-in – per creare un ambiente più spazioso, dotato di sistemi di schermi sempre più complessi (Archigram Group, 1999: 64-65).
Mentre l’idea di una città flessibile, fatta di sistemi abitativi modulari tra loro collegabili veicolata dal Milanogram sarebbe stata germinale per i progetti dei radicali immediatamente successivi – si pensi alla No-Stop City (1969-1970) degli Archizoom o, di contro, al provocatorio Monumento continuo (1969) di Superstudio – la tecnologia audiovisiva rimase sempre un elemento marginale per gli italiani.
La distanza siderale tra il loro modo di intendere gli audiovisivi e quello degli Archigram è ben esemplificata dal progetto della Supersuperficie di Superstudio, un’ipotetica “griglia di distribuzione di energie” (Superstudio, 1972: 17) pensata per ricoprire la quasi totalità del manto terrestre e provvedere al fabbisogno di elettricità dell’intera umanità del futuro, immaginata come una comunità di hippie nomadi intenti ad attaccare le spine di vari elettrodomestici direttamente al suolo. La modalità scelta per presentare questo ecosistema fu un film, Supersuperficie (Supersurface: An alternative model for life on Earth, 19723), prodotto dal MoMA e probabilmente il più conosciuto tra i film degli architetti radicali.4 Pensato per una consueta fruizione frontale, il film era decisamente tradizionale anche nella forma, una sorta di documentario sui sensi dell’uomo e sulla loro possibilità di liberazione composto da brevi sequenze di immagini fotografiche di varia provenienza commentate da una voice over.
Nonostante le differenze, sia la Supersuperficie che il Milanogram, in modo più o meno letterale, cercavano di interpretare in chiave progettuale le teorizzazioni espresse da Marshall McLuhan nel fortunato Gli strumenti del comunicare (Understanding Media: The Extensions of Man, 1964 [trad. it. 1967]), sorta di vera e propria bibbia sia per chiunque sperimentasse con gli audiovisivi o immaginasse nuovi modelli di vita. Michael Callahan – membro di USCO, uno dei primi collettivi di media-art vicini ai designer radicali – ricordando molto tempo dopo il clima culturale di quegli anni in un’intervista disse:
Our work was really drawn from McLuhan. We looked at McLuhan as the theoretician and we were the practitioners. It was the scientist versus the engineer; we were the applied science. We had a mission to bring about public awareness of the impact that all this instantaneous communication was having and was going to have-to attempt to be prepared for it and to change it if necessary. (Callahan, 2008: 133).
I progetti di Archigram e Superstudio, pur ipotizzando una messa in pratica del concetto di “villaggio globale” e della seducente immagine della rete elettrica come “estensione del sistema nervoso centrale” (McLuhan, 2015 [1967]), leggevano immancabilmente queste metafore attraverso un filtro di volta in volta utopico o distopico. Entrambi erano lontani dal proporre qualcosa che fosse realmente in grado di “deviare” i mezzi di “comunicazione istantenea” in una direzione alternativa, come suggerito da Callahan.
All’epoca questa necessità di cambiare le modalità fruitive era particolarmente sentita nei confronti della televisione, il cui funzionamento basato sul broadcasting era dai più considerato anti-democratico e manipolatorio nei confronti dello spettatore, nonostante lo stesso McLuhan avesse definito la TV come “la più recente e spettacolosa estensione del nostro sistema nervoso centrale” (McLuhan, 2015 [1967]: 286 ).
3 Discorsi sugli audiovisivi in “IN. Argomenti di immagini e di design”
La rivista bimestrale “IN. Argomenti di immagini e di design” nasce a Milano nel 1971. Strutturata in numeri monografici tematici, accoglie sulle sue pagine discussioni inerenti i “problemi di design” legati alle epocali trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche in atto nell’ambiente antropizzato.
Diretta dall’architetto ed esperto di comunicazione Pierpaolo Saporito coadiuvato dal designer radicale Ugo La Pietra, nel corso della sua breve parabola (nove numeri, dal 1971 al 1973) pubblica una messe notevole di lettere e saggi programmatici dei maggiori esponenti internazionali del design e dell’architettura dell’epoca, come anche di sociologi, semiologi, artisti e critici, costituendosi come uno dei principali veicoli di aggiornamento in lingua italiana sulle coeve teorie della comunicazione e sulle pratiche progettuali sperimentali a esse collegate.
Sebbene “Domus” e soprattutto “Casabella” – che dal 1970 al 1976 è diretta da Alessandro Mendini – fossero in quegli anni i luoghi privilegiati di discussione dei radicali, è su IN che si discute più ampiamente delle conseguenze socio-ambientali ed ecosistemiche della diffusione sempre più capillare degli strumenti di comunicazione a uso privato: non solo il telefono e la televisione ma anche i nuovi mezzi di registrazione e trasmissione videomagnetica portatili che proprio in quel periodo iniziavano a essere commercializzati anche in Italia. L’accresciuta accessibilità di queste tecnologie stava modificando lo stile di vita dell’intera popolazione terrestre, determinando un inedito (ed enorme) problema progettuale: sia l’ambiente urbano che quello domestico andavano completamente ripensati.
Ai possibili nuovi usi della TV la rivista “IN” dedicò un numero monografico (L’immagine iconoscopica. Uno strumento, n.4, gennaio-febbraio 1972), nel quale si discuteva prevalentemente dell’immagine elettronica in senso creativo con interventi di artisti, critici e operatori attivi nell’ambito della videoarte (Giuseppe Chiari, Luciano Giaccari, Rudi Stern, Daniela Palazzoli, Gianni Colombo e Vincenzo Agnetti). Il numero era corredato da un dossier sull’iconografia delle sigle televisive con interventi di Guido Guarda, Italo Moscati e Piero Zanotto, oltre che da un regesto di testi a cura di un fantomatico “Gruppo di Studio Strumenti Audiovisivi e Pubblico” i cui contenuti si limitavano una mera denuncia del potere coercitivo della TV.
All’interno della rivista spiccava per contrasto una prima versione del progetto del Videocomunicatore, uno dei sistemi disequilibranti di Ugo La Pietra, strutture appositamente pensate per generare interferenze all’interno dei consueti sistemi per portare a una miglior conoscenza del funzionamento degli stessi. Il testo di sintesi a corredo degli schizzi specificava come queste “precipitazioni progettuali” non dovessero essere considerate come “rivoluzioni al problema”, ma come “modelli di comprensione dei problemi di volta in volta indagati” (La Pietra, 1972a: 26). Non più rappresentazioni di fantasie tecnocratiche o di incubi distopici quindi, ma proposte propedeutiche all’analisi dei concreti problemi “relativi al superamento dei sistemi di comunicazione a scatola chiusa” (La Pietra, 1972a: 27).
Nello specifico, il Videocomunicatore è immaginato come un apparato audiovisivo costituito da una semplice cabina all’interno della quale sono collocati un monitor collegato a una telecamera e a un videoregistratore. Il sistema prevede che una persona possa entrarvi per registrare un video-messaggio e che questo venga poi trasmesso via cavo a una serie di grandi schermi collegati in vari punti della città, permettendo a ognuno di partecipare “alla dinamica delle comunicazioni audiovisive” e al contempo di superare il rapporto “spettatore passivo/attore attivo”, innescando uno scambio “di informazioni a livello urbano, tramite il rapporto individuo-individuo” (La Pietra, 1972a : 27).
4 La lettera programmatica degli Archigram e La cellula abitativa di Ugo La Pietra
Un ulteriore passo nel solco di questo primo modello viene compiuta da La Pietra lo stesso anno, con il progetto dell’envinroment audiovisivo La cellula abitativa, realizzato in occasione della mostra Italy the new domestic landscape (La Pietra, 1972c) organizzata nell’estate del 1972 al MoMA di New York, a oggi la più grande e costosa mai messa in opera dal museo.
Nella genesi di questo progetto di La Pietra, così importante per la storia del design italiano, non è mai stato considerato il peso che hanno avuto le tesi esposte nella lettera programmatica inviata da David Greene a nome del Gruppo Archigram alla redazione di “IN” e pubblicata sul numero 6, seconda parte del monografico sul tema della Distruzione e riappropriazione della città, questione a cui vengono dedicati tre interi numeri della rivista.
Se per i lettori della rivista questa lettera rappresenta un primo veicolo di aggiornamento al dibattito critico internazionale sorto attorno all’uso del videotape come strumento per la lotta politica e contro-culturale, per gli Archigram si tratta di un contributo teorico così importante che in sede di archiviazione presso l’University of Westminster il gruppo ha acconsentito che la bozza inglese della lettera venisse annoverata come un vero e proprio progetto e non come corrispondenza.5
Consci del proprio ruolo privilegiato nell’ambito del design europeo, gli Archigram aprono la lettera in tono provocatorio precisando come per loro il tema della “disintegrazione” della città fosse già stato ampiamente discusso sia nelle pubblicazioni radicali che in quelle underground – in proposito qui viene citata la rivista statunitense Radical Software – come anche dallo stesso McLuhan, del quale viene riportata in esergo questa significativa frase:
La Metropoli è un’aula, i suoi insegnanti sono la pubblicità, l’aula è un riformatorio obsoleto, una segreta feudale, la Metropoli è obsoleta. Chiedilo all’esercito. È l’istantaneo, globale, reportages della Radio/TV. Toglie il significato e la funzione della forma della città. Una volta le città erano legate alla realtà della produzione e intercomunicazione, ora non più. (McLuhan, 1966: 264 ).
Greene prosegue spiegando che è proprio grazie ai new media che “la disintegrazione della città è già avvenuta, anche se la struttura è inalterata” e, a tal proposito, preannuncia che seguirà illustrando una serie di ricerche “per farvi scoprire la struttura che nasce dalle vostre esperienze e rifiutare gli schemi pre-esistenti” (Archigram Group 1972: 38).
Sapendo che il volume Guerrilla Television (1971), la già citata rivista Radical Software e gli studi su di essa pubblicati6 non erano ancora noti ai lettori italiani, il designer inglese spiega brevemente come le preoccupazioni della “videoguerriglia” (video guerrilla) – termine che in realtà era stato usato la prima volta da Umberto Eco,7 – fossero inerenti “all’accesso e alla distribuzione dell’informazione” più che alla disponibilità d’uso di “standards professionali”(Archigram 1972: 38): non si trattava insomma di occupare lo studio di un’emittente per lanciare messaggi di sorta ma, in primis, di far comprendere il funzionamento del network televisivo per trasformarlo in qualcos’altro, in una tecnologia utile a rifondare la struttura profonda della città e della comunicazione tra i suoi abitanti. In proposito, è di particolare interesse un passaggio riportato nella “parte terza”, quella più specificatamente dedicata alla “disintegrazione della città”, che polemizza direttamente con i progetti radicali più hippie:
Woodstock era una città nel vecchio significato di gruppo, c’erano attrezzature e rifornimenti per i consumi. Ma la videoguerriglia ci offre un’altra alternativa al consumo per se stesso. Se vogliamo controllare il nostro avvenire dobbiamo affidarci al rimedio che ci offre una struttura aperta, non soltanto alle strutture esistenti più sviluppate, ci arriveremo affidandoci allo sciamanismo elettrico? Mobilità e documentazione = storia, la storia è la memoria rigenerata: la tecnologia sostiene i ricordi, la storia e i ricordi sono eventi del tempo conseguenziale: quindi la tecnologia sostiene dei momenti che esistono nell’ambito di un espediente continuo. Noi ci muoviamo nell’ambito di un presente storico ed infinitamente continuo che registra e rintraccia le nostre reazioni. Lasciamo le nostre impronte sugli oggetti e nei vari luoghi = la città individuale. (Archigram Group, 1972: 41).
La lettera continua con una serie di istruzioni (ripartite in quattro sezioni) organizzate come possibili percorsi progettuali per scoprire “la struttura della propria città individuale”. Greene si rivolge direttamente a un ipotetico lettore ordinandogli di tracciare delle mappe segnando
1) tutti i posti dove hai usato il telefono, guardato la tv, dove hai ottenuto informazione = la città dell’informazione 2) tutti i posti dove hai parcheggiato la macchina, gli aeroporti da cui sei partito, o tutti i posti dove hai cambiato mezzo di trasporto. questa è una cartina delle tracce che hai lasciato sulla superficie terrestre. 3) Segna tutti i posti dove hai percepito e memorizzato eventi emozionali… la città della tua mente. 4) Segna tutti i luoghi che hai documentato con la cinepresa o con il videotape questi sono i tuoi monumenti all’informazione, monumenti che appartengono allo spazio tempo. (Archigram Group, 1972: 42-43).
Questo richiamo all’individualità, alla comunità cittadina intesa come una rete di soggetti continuamente interconnessi in un rapporto comunicativo personale, intessuto attraverso l’uso di strumenti per la produzione di immagini private, tattili, stride sonoramente con molte delle utopie universalizzanti degli anni Sessanta e fornisce un solido supporto concettuale per la creazione di ulteriori progetti audiovisivi da basarsi sull’impiego di tecnologie amatoriali in un ambiente domestico.
I contenuti della lettera di Greene avranno un lungo e profondo effetto sul lavoro successivo di La Pietra, particolarmente evidente nel film La riappropriazione della città (1977) nel quale il designer addirittura ripropone tali e quali le istruzioni contenute nella lettera degli Archigram e rivolgendosi direttamente allo spettatore lo invita a disegnare una serie di piante, per scoprire di volta in volta la propria “città dell’informazione”, quella dei “monumenti”, quella degli “itinerari” e infine quella della “mente”.8
Sullo stesso numero di “IN” in cui viene pubblicata la lettera, La Pietra presenta invece tutti possibili usi de La cellula abitativa, un envinroment audiovisivo sperimentale che sembra preconizzare il funzionamento di internet. A differenza dei progetti degli altri designer radicali si trattava di un prototipo tecnicamente fattibile già all’epoca sebbene gli alti costi di un sistema di queste dimensioni con quel tipo di tecnologie non ne permisero mai l’effettiva realizzazione.
“Negare l’utopia” che caratterizzava i lavori degli altri designer radicali, per La Pietra significava “impegnarsi nello scontro diretto con le logiche della produzione” (La Pietra, 1972b: 18-19); al contempo scegliere la casa, luogo privilegiato del design oggettuale, di puro “consumo”, permetteva di mettere in discussione “le abitazioni private come tanti ‘terminali’ dell’informazione” (La Pietra, 1972b: 26), ripensandole come apparati organici, in rapporto con l’esterno. L’idea qui contestata è proprio quella perpetuata da un’errata lettura del claim “il medium è messaggio” – scrive La Pietra:
dobbiamo liberarci dall’oggetto inteso ancora come ‘messaggio’ le cui caratteristiche sono sempre tali da renderlo riferibile ad una classe specificatamente differenziata di fruitori […] nel senso di non subirne mai la presenza sia come ‘oggetti’, sia come strumenti; distruggendone il ‘disegno’ e ipotizzando la loro evoluzione. (La Pietra, 1972b: 19)
Due dei modelli di comprensione presentati in occasione di Italy The New Domestic Landscape riprendono l’uso del Videocomunicatore, ma entrambi includono ora la possibilità di vedere (mod. E) e trasmettere (mod. F) i messaggi anche dalla cellula abitativa, cioè dal proprio ambiente domestico e viceversa. Le immagini e i messaggi della città, del mondo, sarebbero entrati nelle abitazioni private e da esse sarebbero state trasmesse, con un meccanismo non dissimile da quelli odierni di video-messaggistica privata (mod. E) o collettiva e/o random sharing (mod. F), si pensi ad esempio esempio a un sito come Chatroulette.9
I modelli di comprensione C e D, invece, sembrano più direttamente connessi alle parole di Greene. Essi prevedono l’uso di un nuovo apparato, il Ciceronelettronico, pensato da La Pietra come “deposito di memorie”, primo prototipo di “una grande famiglia di oggetti audiovisivi che potrebbero raccontarci la nostra storia” (La Pietra, 1972b: 26). Anche in questo caso il modello è pensato per un funzionamento biunivoco: e i messaggi, registrati tramite l’uso combinato di un registratore magnetico e di una serie di telefoni si sarebbero potuti ascoltare da casa; inoltre il sistema avrebbe permesso di comunicare dall’ambiente domestico con uno o più apparecchi telefonici opportunamente posizionati in vari punti della città. L’elemento di maggior interesse in questo caso è però rappresentato dal “contenuto” del programma di trasmissioni del prototipo allestito a New York. Nell’envinroment esposto in mostra si potevano ascoltare, seduti all’interno dell’abitacolo, le voci di una casalinga, di un designer, di un “tipo aggiornato” e di un bambino nell’atto di descrivere il medesimo spazio, ognuno a suo modo. Secondo La Pietra il sistema doveva dimostrare come nessuno dei loro racconti rappresentasse un “modello ottimale da perseguire” ma come queste piccole storie personali fossero “le uniche alternative all’interno delle quali è consentito porci”. Non più grandi narrazioni o scienze esatte: la società diventava sempre più “permissiva” (nell’accezione positiva del termine) e aperta a situazioni dove chiunque poteva e voleva descrivere la sua idea del mondo (La Pietra, 2001: 87).
Oggi viviamo in universo dominato dalla tecnologia digitale in cui i social network, come contemporanei Ciceronielettronici, ci permettono non solo di comunicare con chiunque ma – parafrasando Greene – di muoverci nell’ambito di un presente continuo che “registra e rintraccia le nostre azioni” e, letteralmente, “le nostre impronte sugli oggetti e nei vari luoghi”. Ora che finalmente la tecnologia “sostiene” completamente i nostri ricordi, minuziosamente stoccati in server e cloud che trasformano continuamente la storia in una “memoria rigenerata” (Archigram Group, 1972: 41), è forse venuta a mancare una forte volontà di ricerca proprio di quei “gradi di libertà ancora esistenti all’interno della struttura sociale” (La Pietra, 1972b: 19), che se praticati potrebbero consentirci di riprogrammare il nostro sguardo verso il mondo e le immagini che ci circondano.
Bibliografia
Anonimo a (1968). “Milano.14 Triennale”. In Domus (40)466: 15-41.
Anonimo b (1968). “Edizione speciale per la 14° Triennale”. In Interni la rivista dell’arredamento (13)23: 2-70.
Archigram Group (1972). “Disintegration of the City.” In IN. Argomenti di immagini e di design 2(6): 38-45.
Archigram Group (1999 [1972]), “Milan Triennale.” In Archigram, edited by Peter Cook with a new foreword by Mike Webb, 82-83. New York: Princeton Architectural Press.
Brizzi, Marco (2017). “Architetture tracciate nell’editoria”. In Utopie Radicali. Archizoom, Remo Buti, 9999, Gianni Pettena, Superstudio, UFO, Zziggurat, edited by Pino Brugellis, Gianni Pettena and Alberto Salvatori, 79-86, Macerata: Quodlibet.
Cook, Peter (1968). “Popular Pack - Domusgram Special”. In Domus (40)468: 108-111.
Eco, Umberto (1967). “Il medium e il messaggio”. In Marcatré (5)37/38/39/40: 37-39
Kuo, Michelle (May 2008). “Special Effects: Michelle Kuo Speaks With Michael Callahan About USCO.” Artforum 46(9): 133-136.
La Pietra, Ugo (1972a). “Il videocomunicatore.” In IN. Argomenti di immagini e di design 2(4): 26-27.
La Pietra, Ugo (1972b). “La cellula abitativa: una microstruttura all’interno dei sistemi di comunicazione e informazione.” In IN. Argomenti di immagini e di design 2(6): 18-31.
La Pietra, Ugo (1972c).“The Domicile Cell: A Microstructure within the Information and Communications Systems.” In Italy The New Domestic Landscape, edited by Emilio Ambasz, 226-232, New York: The Museum of Modern Art.
La Pietra, Ugo (2001). “Ciceronelettronico.” In La sinestesia delle arti, 87, Milano: Mazzotta.
McLuhan, Marshall (1966), “Cinque dita sovrane tassavano il respiro.” In La comunicazione di massa, edited by Edmund Carpenter and Marshall McLuhan, 244-254, Firenze: La Nuova Italia.
McLuhan, Marshall (2015 [1967]). Gli strumenti del comunicare. Milano: Il Saggiatore.
McLuhan, Marshall (2015 [1970]). Culture is Our Business. Eugene: Wipf & Stock.
Nicolin, Paola (2001). Castelli di carte. La XIV Triennale di Milano, 1968. Macerata: Quodlibet
Orlandoni, Bruno and Vallino, Giorgio (1977). Dalla città al cucchiaio. Saggi sulle nuove avanguardie nell’architettura e nel design. Torino: Studio Forma.
Pizzinato, Patrizia and Villa, Angelo (1967). “Achigram”. Marcatré 5(30/31/32/33): 180-203.
Spampinato, Francesco (2012). “Guerrilla Television. Ascesa e caduta della contro-tv d’arte.” Link idee per la TV 10(11): 122-137.
Shamberg, Michael and Raindance Corporation (1971) Guerrilla Television. New York: Henry Holt &Co.
Shamberg, Michael (1973). “Tu sei l’informazione”. In L’Altro Video. Incontro sul videotape, edited by Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, 8-13, Pesaro: Centro Stampa del Comune.
Superstudio (1972). “Supersuperficie: un modello di un’attitudine mentale.” In Casabella 44(377): 17-19.
Tra il il 1966 e il 1978 in area fiorentina sono attivi i gruppi Archizoom (poi Archizoom Associati), 9999, Superstudio, UFO, Zziggurat, Remo Buti, Gianni Pettena e Michele De Lucchi; a Milano operano invece Ugo La Pietra, Ettore Sottsass jr. e Alessandro Mendini, questi ultimi aderiranno poi al neo-modern entrando nel 1976 a far parte di Studio Alchimia insieme ai fiorentini Michele De Lucchi, Andrea Branzi (Archizoom) e agli U.F.O.↩
Archigram (1968), Milanogram. http://archigram.westminster.ac.uk/project.php?id=112 (consultato il 5 luglio 2019).↩
Superstudio (1972), Supersurface. An alternative model for life on Earth, 35mm, col., son., 9’44’’. http://www.architectureplayer.com/clips/supersurface-an-alternative-model-for-life-on-the-earth (consultato il 5 luglio 2019).↩
Oltre ai film legati al ciclo de “Gli atti fondamentali” che vengono girati da Superstudio in 35mm e prodotti dal MoMA e dalla Triennale di Milano, girano film a basso costo e in formati ridotti anche Gianni Pettena e Lapo Binazzi del gruppo UFO.↩
Greene, David (1972). In magazine proposal. English version http://archigram.westminster.ac.uk/ephemera.php?pid=7&cid=46 (consultato il 5 marzo 2019). La lettera inglese è una sorta di menabò della versione italiana, con correzioni a penna e annotazioni su dove inserire le immagini e lo stralcio della lettera di Warren Chalk citata, qui fotocopiata e allegata al progetto. La traduzione italiana è molto accurata e non presenta forzature rispetto al testo originale.↩
L’autore di Guerrilla Television è Michael Shamberg fondatore con Paul Ryan (già assistente di McLuhan) della Raindance Corporation, il collettivo di videomaker statunitensi responsabile di Radical Software. Ed è ancora una volta da una delle fulminee frasi del teorico canadese – “World War III is a guerrilla information war with no division between military and civilian participation” (McLuhan 2015 [1970]: 66) – che i due avevano tratto ispirazione per le loro “bellicose” teorie. Il volume non verrà mai pubblicato nel nostro paese, ad eccezione del capitolo che sarebbe poi stato tradotto all’interno di un regesto di materiali pubblicati l’anno successivo, in occasione de L’Altro Video. Incontro sul videotape, una tavola rotonda organizzata in occasione della IX° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema a Pesaro. (Shamberg, 1973: 8-13).↩
Come ha precisato Francesco Spampinato in un articolo sul tema, “un primo fondamento teorico alla Guerrilla Television giunge dalla lezione che Umberto Eco rilascia al simposio Vision '67 a New York, intitolata Towards a Semiological Guerrilla Warfare, che invoca una guerriglia culturale combattuta dagli ‘studiosi e dagli educatori di domani […] adoperando i mezzi della società tecnologica […] che reintrodurrebbero una dimensione critica nella ricezione passiva’ (Eco, 1973)”. (Spampinato, 2012: 124). Il discorso venne immediatamente pubblicato anche in Italia su Marcatré, ma tradotto in modo non letterale (Eco, 1967).↩
Ugo La Pietra, La riappropriazione della città, 1977 (Prod. Centre Pompidou, 16mm, b/n, col., son. 30’) https://www.youtube.com/watch?v=77JcWziPJbU (consultato il 5 luglio 2019).↩
https://chatroulette.com (consultato il 5 luglio 2019).↩