Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.17 (2020)
ISSN 2280-9481

Gli effetti della musealizzazione del videogame sull’esperienza di gioco

Roberto CappaiUniversità di Pisa (IT)

Ph.D. student in History of Arts and Performing Arts.

Ricevuto: 2019-01-31 – Versione revisionata: 2020-05-07 – Accettato: 2020-06-17 – Pubblicato: 2020-07-30

The Effects of Videogame Musealization on Gameplay Experience

Abstract

From the early days of videogame until the early 2000s, videogame play usually took place in two main contexts: the public one (which included video arcades, bars and pubs), and the domestic one, due to the dissemination of home consoles. The musealization and the institutionalization of videogames have undermined gameplay conventions overlooking entertainment, which had been considered by the industry the primary function of videogames. New points of view have been suggested by museums and other cultural institutions, by proposing a new key to videogame interpretation which allows the player to see videogames as a new art form and to consider it something different from a mere commercial product. Starting from the suggestions of Mark J.P. Wolf, Matteo Bittanti and Francesco Alinovi, in this article videogame is considered as the union of two aspects: “video” and “game”. It will be argued that the videogame musealization, as well as other forms of recontextualization, can affect the gameplay placing the emphasis on visuality.

Keyword: videogame; gameplay; context; musealization.

1 L’importanza del contesto nella fruizione e nell’analisi del videogame

The Night Journey (2007-2018) è un’opera sviluppata dall’Innovation Game Lab della University of Southern California, ed è frutto della collaborazione tra un team capitanato dalla game designer Tracy Fullerton e il videoartista Bill Viola.

Nell’opera, il fruitore utilizza un controller (che cambia a seconda della piattaforma) per muoversi liberamente in un ambiente tridimensionale con una visuale in prima persona,1 intraprendendo un cammino di illuminazione individuale ispirato a quello di mistici e poeti vissuti tra il XIII e il XVI secolo2 e reso attraverso un’esperienza che combina il gameplay videoludico alla poetica dell’artista. Viola, infatti, attinge a piene mai dal suo archivio, utilizzando le immagini che caratterizzano il suo repertorio (come ad esempio volatili notturni, deserti, foreste, mari) per dar forma alle visioni e ai sogni che, metaforicamente, “illuminano” il percorso quando il giocatore si ferma a “riflettere” in precisi punti dell’ambiente di gioco. L’opera non prevede alcun obiettivo da completare, né un percorso prefissato, ma le azioni del fruitore si riflettono sull’ambiente, trasformandolo. Pur trattandosi di un vero e proprio videogame, The Night Journey non si discosta dunque molto dalle precedenti opere dell’artista, sempre caratterizzate da una fruizione contemplativa e da un certo grado di coinvolgimento fisico del fruitore3:

audio-visually, The Night Journey [sic] is comparable to Bill Viola’s other video works. The graphic artist participating in the project have modeled the computer graphics on the image lines of video and translated the grainy, almost blurred appearance of Viola’s video images. The game utilizes the entire range of video aesthetics and places them in an interactive form of computer graphics (“The Night Journey”, 2017: 174).

The Night Journey è certamente tra le opere sperimentali che più profondamente si interrogano sulla natura stessa della forma-videogame, e lo fa rifiutando qualunque tipo di definizione e limitando significativamente l’efficacia di un’analisi basata sulle convenzioni della critica tradizionale, sia d’arte, sia videoludica.
Un primo passo verso la soluzione delle sfide interpretative poste da quest’opera e da opere simili potrebbe dunque essere intrapreso in direzione di un un tentativo di comprensione della morfologia del videogame. Nel registrare le difficoltà che tale operazione comporta, in The Medium of the Video Game (2001), Mark J. P. Wolf tenta di definire il videogioco a partire da una sua presunta doppia natura. L’autore, infatti, considera il videogame un medium che è sia “video”, sia “gioco” (Wolf, 2001). Naturalmente, come nota lo stesso autore, entrambi i termini portano con sé una quantità di problematiche che sarebbe impossibile risolvere in questa sede. Ancora nel 2003, con riferimento all’astrazione che caratterizza una parte della produzione videoludica, è lo stesso Wolf ad affermare che

Video game, as an audio-visual medium, stood apart from other games, for its gameplay lacked the solidity of game pieces or the physicality of pinball action and the Newtonian collisions of pool balls. The video game took place within an image, whose interactivity required a new way of reading and understanding abstract imagery (Wolf, 2003: 64).

È interessante notare che già nel 1999 Matteo Bittanti affermava che “il ‘videogioco’ in quanto tale possiede una doppia natura: da una parte è ‘gioco’, dunque attività, prassi, dall’altra è ‘video’, per tanto rimanda a un vedere, a un’estetica” (Bittanti, 1999: 3), aggiungendo che

Nell’accezione di prassi, il videogioco mantiene una sua continuità strutturale, caratteristiche ricorrenti, marche di riconoscimento riconducibili a quelle individuate da Roger Callois nel seminale “I giochi e gli uomini”. Viceversa, sul piano estetico, il videogioco appare sottoposto a continue e spesso radicali trasformazioni che a loro volta riflettono il rapido susseguirsi dei miglioramenti tecnici (Bittanti, 1999: 3-4).

In quanto gioco, The Night Journey si presenta come un’opera non convenzionale e non commerciale, una delle prime a tracciare un percorso che è poi stato intrapreso da alcuni sviluppatori indipendenti come Jenova Chen, autore di Flower (2009) e Journey (2012), che già nel 2005 aveva battuto il terreno della sperimentazione videoludica proprio all’interno del Game Innovation Lab,4 e David O’Reilly, artista irlandese autore di Mountain (2014) e Everything (2017). Ad accomunare le opere citate è il rifiuto dell’agonismo, che ancora oggi caratterizza molti dei giochi che vengono sviluppati nell’ambito dell’industria videoludica, in favore di una fruizione più contemplativa, caratterizzata da meccaniche di gioco semplici che concedono al fruitore il tempo di concentrarsi su ciò che vede.5 Ed è proprio quando opere come The Night Journey vengono fruite e analizzate in relazione alla visione, e quindi come opere video (nel senso più ampio del termine, quindi anche interattivo), che vengono messe in luce caratteristiche e aspetti solitamente trascurati o trattati soltanto dal punto di vista dell’estetica o, meglio, dello stile.

Al di là della morfologia del videogame, tra le variabili che ne influenzano la fruizione, facendo propendere per una lettura dell’opera come “video” o come “gioco”, il contesto è forse quella che più di altre è in grado di cambiare radicalmente l’esperienza videoludica.

Tenendo conto delle peculiarità di ciascun medium, il discorso sulla fruizione videoludica presenta punti in comune con quello sulla fruizione filmica, almeno dal punto di vista dell’esperienza.6

Riferendosi all’esperienza filmica, Francesco Casetti nota che

con la moltiplicazione dei modi di fruire un film e la fine della centralità della visione in sala, l’esperienza filmica da una parte ha allargato i propri confini, acquistando nuove forme, dall’altra si è anche sciolta in una più generica esperienza mediale, perdendo la propria specificità. (Casetti, 2007: 3)

L’autore prosegue poi affermando che, oggi, la fruizione filmica non è più caratterizzata “da una serie di tratti stabili e precisi” (Casetti, 2007: 4), registrando che questa

oggi tende a acquisire contorni più ambigui: soprattutto quando si realizza attraverso nuovi dispositivi e in nuovi luoghi di fruizione, per un verso la sua identità sembra sparire, ma per un altro, sembra rinnovarsi e trovare una nuova identità. (Casetti, 2007: 4)

Una tendenza, questa, che sembra caratterizzare anche il videogame, la cui fruizione negli anni ha varcato la soglia della sala giochi (nella quale il videogame era “intrappolato” nei cabinati) dapprima invadendo le abitazioni private (con le home console e i computer), poi restringendosi sino a diventare portatile (con le console handheld), e infine irrompendo in tutti quegli spazi che inizialmente, salvo in sporadiche e pionieristiche occasioni, gli erano stati preclusi, come le scuole e, naturalmente, i musei.

Le parole di John Sharp in apertura al saggio Work of Games (2015) danno un’idea di come la ricezione del videogame in un contesto diverso da quello nel quale tradizionalmente ci si aspetta di giocarlo, possa far luce su aspetti dell’opera che altrimenti rischierebbero di rimanere in ombra. Proprio riferendosi all’opera citata all’inizio di questo articolo, Sharp scrive:

A few years ago, I found myself in front of Bill Viola and the University of Southern California Game Innovation Lab’s The Night Journey […] in a gallery of the Museum of the Moving Image. […] Seeing and playing the game in a museum context was revealing for me. My previous encounters with The Night Journey were always within the confines of the game community where the game stood out for its rejection of gameplay tropes. Here, at the Museum of the Moving Image, where the game was displayed as part of a media art exhibition and thus more likely to be seen by those more familiar with the concerns of artistic practice , I realized there was a whole other set of ways in which The Night Journey stood out. The ideas and practices central to Viola’s artistic practice —the exploration of themes of spirituality and contemplation, the manipulation of the video image, slow, meditative pacing— are all present in The Night Journey […]. But the work is a game, and not video art, Viola’s usual medium. By moving at a decidedly contemplative pace through a series of landscape vignettes, and by asking the player to pause and reflect, the game metaphorically models a spiritual journey through the standard three-dimensional (3D) videogame interaction model of moving and looking. (Sharp, 2015: 1-2)

Sebbene The Night Journey sia un caso particolare per il fatto che pur trattandosi dichiaratamente di un videogame si allontana da molte delle convenzioni videoludiche, lasciando il giocatore libero di vagare nell’ambiente tridimensionale, è evidente che l’esperienza videoludica di Sharp viene in qualche modo condizionata dal contesto. Laddove la fruizione avviene nell’ambito della game community, l’accento è posto sul “gioco”; al contrario, nella fruizione museale l’intervento di Bill Viola (e quindi il “video”) sembra acquisire più importanza.

Tale spostamento di attenzione viene ribadito nelle parole di Heater Corcoran, la quale racconta di aver visto alcuni visitatori di un museo dove l’opera era esposta posare il controller nel momento in cui si accorgevano che il gioco non avrebbe dato loro quella risposta immediata che invece si aspettavano (Corcoran, 2010). Diversamente, coloro che si erano riusciti ad adattare alla lentezza dell’opera, lasciandosi “catturare”, cominciavano invece ad esplorare l’ambiente di gioco, fino al momento della scoperta dell’unico tasto per il quale è prevista una funzione:

They discover a control to reflect the environment around them and are rewarded with a second layer of rich moving imagery – a blinking eye, or an odd shelter in the forest. A crowd forms. Spectators are immersed in the environment in much the same way as Viola’s early work, experiencing the piece as a kind of navigated video. (Corcoran, 2010: 20)

Dalla sua prima presentazione al SIGGRAPH Art Show: Global Eyes del 2007,7 The Night Journey è stato esposto in più di venti occasioni, ma solo in alcune di queste è stato messo direttamente in relazione con opere di videoarte. In particolare, si annoverano tra le altre la mostra New Gameplay tenutasi nel 2017 al Nam June Paik Art Center e organizzata dalla stessa istituzione in collaborazione con il ZKM (Zentrum für Kunst und Medien) di Karlsruhe, e il danese FOKUS video art festival del 2012. Nel primo caso, videogame e opere di media art considerate più tradizionali, almeno dal punto di vista artistico, erano state fatte dialogare seguendo il filo rosso della sovversione artistica legata all’utilizzo delle nuove tecnologie, con un omaggio esplicito al percorso di Nam June Paik:

It appears that gaming, among the most successful strategies of research and development, is directly associated with creative subversion. Subversion in this sense means the playful adoption and use, combination, and arrangement of elements of a given nature, technology, or society in order to find out, to experience, to enhance, and even to change their qualities, structures or content. […] The history of art and technology, especially media art based in 20th century, witnesses countless examples that display this process. When as early as 1963, Korean video art pioneer Nam June Paik started his series Participation TV, he made a most subversive use of an everyday consumer and mass media item – the television. (Serexhe, 2017: 20)

In questo caso, quindi, i videogame “artistici” non solo sono considerati sovversivi rispetto al gaming tradizionale, ma vengono inseriti in un contesto artistico, quello legato all’utilizzo della tecnologia dei media, che è posto in continuità con il lavoro iniziato da Paik, videoartista per definizione.

Il suggerimento di una lettura di The Night Journey come video è ancora più esplicito nel caso del festival danese, nell’ambito del quale i videogame vengono considerati una forma non tradizionale di videoarte, come si evince dal sito ufficiale dell’edizione citata del festival.8

A bene vedere, però, anche laddove l’opera viene presentata come esempio di un gameplay sperimentale e posta in relazione a videogame, piuttosto che a opere di media art più o meno legate alla videoarte, si sceglie di esporla in modo che l’interfaccia venga quasi del tutto nascosta (di fatto viene lasciato a vista solo il controller, che serve al fruitore per muoversi all’interno dell’ambiente digitale), proiettando il video su una parete e facendo assumere all’immagine una dimensione ambientale, quasi onirica, ben lontana da quella che si avrebbe utilizzando lo stesso gioco in un’abitazione privata, su un computer o una console collegati a un monitor. Ancora una volta, dunque, ad essere chiamata in causa è la visualità, con modalità espositive che chi frequenta abitualmente i musei è solito associare alla videoarte più tradizionale. Non a caso, una versione dell’opera per la fruizione domestica è stata rilasciata solo in seconda battuta, dopo che era già stata esposta numerose volte (Tanni, 2018).

2 Videogiochi fuori contesto

È interessante, a questo punto, mettere nuovamente in evidenza il fatto che i cosiddetti artgame9 vengono spesso esposti insieme a videogiochi che, per quanto particolarmente influenti e innovativi nell’ambito della storia del videogame, possono considerarsi in qualche modo tradizionali.10 La stessa mostra New Gameplay, decisamente più interessata a mettere in luce l’utilizzo artistico del videogame piuttosto che la sua storia, esponeva, insieme a opere più dichiaratamente artistiche, una comunissima console Atari Pong (1972) che tuttavia, in quel preciso percorso espositivo, ribadiva il fatto di essere frutto dell’utilizzo creativo di un medium audiovisivo.

Il discorso sin qui sviluppato con riferimento a The Night Journey (ma applicabile a molti di quelli che vengono considerati artgame o presentati come tali), si complica dunque quando ad essere esposti nelle sale di un museo sono videogame concepiti per essere utilizzati in un certo contesto e in un dato momento storico, come per esempio i cabinati che spesso si trovavano all’interno delle sale giochi. I giochi arcade hanno infatti caratteristiche molto particolari che li differenziano, per esempio, da quelli sviluppati per le console domestiche. Rispetto a questi ultimi, i videogame arcade richiedono infatti un livello di abilità e agonismo certamente maggiore, concedendo al giocatore un numero limitato di tentativi (le “vite”) prima del fatidico game over, spingendolo, con l’introduzione della schermata high score, a superare il proprio record personale o quello di altri giocatori.11 Si tratta, in breve, di quello che Jesper Juul chiama “the arcade model” (Juul, 2013: 72), che, come nota l’autore, proprio tra gli anni Novanta e Duemila (quelli durante i quali il numero delle sale giochi diminuì drasticamente di pari passo alla diffusione degli home computer e delle home console) venne man mano sostituito da giochi che concedevano al giocatore un numero infinito di tentativi (Juul, 2013).

Riguardo gli aspetti contestuali, bisogna poi tener conto del fatto che le sale giochi erano luoghi che richiedevano, almeno al gamer più esperto, un certo codice di comportamento, sintetizzato nell’ironica guida rivolta ai non-gamer curata da Michael Rubin e intitolata Defending the Galaxy (1982), pubblicata proprio durante l’età d’oro dei cabinati. L’etichetta della sala giochi comprendeva, per esempio, il jamming in,12 definito dall’autore “the fine art of being the ‘Next’” (Rubin, 1982: 80), e tutta una serie di comportamenti da tenere nel rispetto degli altri frequentatori e degli stessi cabinati. Occorre poi ricordare che le sale giochi non erano certo ben viste dall’opinione pubblica, e negli Stati Uniti come in Italia capitava spesso che alcune venissero chiuse perché diventate centro di spaccio di stupefacenti, come si legge dalle notizie riportate di tanto in tanto nei quotidiani dell’epoca. Persino la rivista Video Games, nel dicembre del 1983, ha dedicato un breve report alla questione (“Report: Drugs in Arcades”, 1982: 18), arricchendolo con un’illustrazione satirica piuttosto esplicita nella quale, nel caos della sala giochi, uno spacciatore offre una siringa a un ragazzino.

Nel suo Joystick Nation, J. C. Herz offre un breve spaccato di una delle sale giochi più famose di Manhattan:

video arcades in 1980 were intensely unprofessional places filled with smelly teenage boys – places like Playland on Forty-seventh street in Manhattan. Lodged in the warren of glitz and grime that is Time Square. Playland is a place where the orange and blue linoleum tiles checker the floor twenty feet wide and hundred feet deep into a lightless recess of pinup posters and wood veneer paneling. The posters (all for sale) mostly portray glossy-lipped softcore sex kittens straddling chairs on motorcycles. (Herz, 1997: 43)

Da queste poche parole non è difficile immaginare quanto sia lontana la fruizione di un qualunque gioco nel contesto di una sala giochi rispetto a quella dello stesso gioco nelle sale di un museo. Osservazione, questa, che naturalmente vale anche per i videogame sviluppati per home console o per dispositivi portatili: nel primo caso, un tipo di fruizione concepita per essere privata diventa pubblica, mentre nel secondo caso la fruizione in movimento (nel senso che il gioco può essere giocato ovunque) e comunque personale viene in qualche modo saldata a un certo percorso espositivo e resa pubblica.

Per descrivere la situazione dei videogame dopo il loro consumo e il superamento (tecnologico) delle funzionalità per le quali erano stati concepiti, Guins immagina un “aldilà videoludico” funzionale e contestuale, nel quale alle opere vengono dati nuovi e diversi significati (Ruins, 2014). I giochi, in pratica, esistono anche al di fuori delle istituzioni entro le quali sono nati e sono stati fruiti: musei, archivi e collezioni private sono solo alcuni esempi di possibili aldilà citati dall’autore. È evidente, però, che tutte le riproposizioni del videogame, specialmente quelle che avvengono nell’ambito di mostre organizzate all’interno di istituzioni museali, vengono interpretate dal curatore e offerte a un pubblico la cui lettura di ogni opera sarà quantomeno influenzata dal percorso espositivo e dalle modalità di esposizione. A tal proposito Emilie M. Reed, la cui ricerca si focalizza sulle modalità di esposizione del videogame in contesti museali,13 ha affermato:

A frequent tension that emerges in the exhibition of videogames in art spaces is how spectatorship, interaction with the game, and interaction between visitors coexist in the exhibition space, and complicate the understanding of where a videogame as an art object begins and ends. When the Corcoran Gallery in Washington, D.C. temporarily welcomed arcade machines into its halls for its ARTcade, held in 1983, the institution was making certain aesthetic, historical and value judgements about videogames. (Reed, 2018: 104)

Hot Circuits, la mostra curata da Rochelle Slovin e presentata al Museum of Moving Image di New York nel 1989, è stata la prima retrospettiva dedicata interamente al videogame.

È utile, a questo punto, citare un breve estratto di una riflessione a posteriori della curatrice sulla mostra, dalla quale emerge in modo evidente la volontà di offrire un’interpretazione del videogame diversa dal “gioco”:

the institution […] was founded in 1981 as the first museum in the United States devoted to the art, history, technique, and technology of motion pictures and television. To that end, it is both a screening and collecting institution. When the museum opened its doors in September 1988, it presented to the public the core exhibition Behind the Screens, the film series Glorious Technicolor, and the video series The Media and the Vietnam War. How then, would video games fit into this mandate? What was there worth saying about them? […] As we set about answering those questions, we became the first museum to call for a reconsideration of the very notion of the moving image. (Slovin, 2007: 138)

Esposto nelle sale del museo newyorkese, il videogame rimette in discussione la nozione di immagine in movimento e dunque è immagine in movimento, presentandosi come una forma di “video”. Secondo Slovin, infatti, i videogame mettono letteralmente in atto il “modo di pensare” dei computer, visualizzando e rendendo in qualche modo sensibili le leggi della fisica attraverso la rappresentazione grafica (Slovin, 2007). Anche in questo caso, dunque, l’accento è posto sulla visualità:

Considered as moving images, the aesthetics of these pioneering games are unique in digital media. Their pixilation is so chunky and low-resolution that it seems at times mosaic. If you look closely at, say, a character like Pac-Man, you can see individual pixels, the atomic building blocks of visualized computer space. This effect, of course, came about less by design than by necessity. Video game programmers, fighting against the limitations of the chips' tiny memory, were forced to compress their ideas. But that compression had a creative edge—it functioned much in the way a sonnet necessitates a compression of language and an economy of metaphor. In contrast to today's intensely realistic three-dimensional computer environments, the early games bear a resemblance to post-Abstract Expressionist paintings by artists such as Larry Poons. The stripped-down feel of the early games also suggests early black-and-white films before sound. Here, too, the art is defined by its limitations. And while later innovations in film, as in computer games, produced arguably “better” graphics, color, and effects, there is a poetic spareness about the early moments in each technology. (Slovin, 2007: 139)

Questo, naturalmente, non significa che il gioco non è più gioco: al contrario, questo aspetto permane, e non può essere altrimenti, nel momento in cui il pubblico viene lasciato libero di interagire con le opere esposte. “My goal”, afferma Slovin,

was to present the games themselves. […] I wanted to select games that had somehow stood apart from the mass – because they had broken new ground in graphic design, introduced a new type of gameplay, or perhaps been unpredictably popular. (Slovin, 2007: 141)

A ben vedere, però, al Museum of Moving Image, le macchine sono state esposte in modo molto diverso rispetto a come sarebbero stati collocati nei loro contesti originali. Per esempio, tra una macchina e l’altra era stato lasciato lo spazio necessario a girarci intorno, cosicché il fruitore era in grado di vedere delle parti del cabinato che in sala giochi rimanevano normalmente coperte, vista la necessità di razionalizzare lo spazio per massimizzare il guadagno (Guins, 2014). Inoltre, le macchine funzionavano senza gettoni, ed erano corredate di pannelli informativi che guidavano il visitatore lungo il percorso espositivo.

Il videogame, che nella sala giochi o nelle console domestiche era stato concepito, nella stragrande maggioranza dei casi, come una semplice forma di intrattenimento e di guadagno, nelle sale del Museum of Moving Image si riscopre dunque immagine in movimento nonché espressione dello spirito del proprio tempo.

L’approccio interpretativo all’esposizione del videogame non è, naturalmente, l’unico possibile: alcuni musei hanno sperimentato approcci diversi, mirati a ricreare un’esperienza di gioco quanto più possibile simile all’originale. Questo avviene, perlopiù, laddove lo scopo dell’istituzione o del curatore è quello di illustrare l’evoluzione del medium.14 Spesso, tuttavia, il tentativo non riguarda l’intera mostra, ma solo una parte, come nel caso della mostra itinerante Videotopia e della mostra permanente del Finnish Museum of Games .15 Entrambe, pur inserendo il videogame in un percorso organizzato cronologicamente, dedicano parte dello spazio espositivo alla ricostruzione di una sala giochi proponendo alcuni cabinati di successo. Il caso del museo finlandese è ancora più eclatante, poiché oltre alla sala giochi sono state costruite alcune stanze a tema arredate in relazione al periodo storico del gioco esposto, come se si trattasse di veri e propri ambienti domestici. Anche così, però, l’esperienza del videogame esposto ha poco a che fare con quella originale: difficilmente, infatti, il visitatore avrà modo o tempo di portare a termine un gioco come Doom (1993) o Super Mario Bros (1990). Egli potrà forse apprezzarne le meccaniche, ma l’esperienza del gioco resterà in gran parte visiva; un tipo di visualità che, è bene ripeterlo, passa attraverso i sensi, per usare un’espressione suggerita da Simonetta Cargioli (2002).

3 Conclusione: una breve riflessione sul videogame esposto

Come anticipato poco sopra, un approccio al videogame (esposto) che si concentra sugli aspetti legati al “video” è intimamente legato al discorso sulla sua materialità e a quello sul linguaggio (video)ludico.16

Per sua natura, il video è storicamente restio a qualunque tipo di definizione. È un medium liquido, profondamente manipolabile sia nel formato analogico, sia digitale, legato alla visione e capace di contrarsi in dispositivi tascabili ed espandersi sino a coinvolgere fisicamente chi lo guarda. Per comprendere come il video è usato dagli artisti bisogna anzitutto capire di cosa è fatto, quali sono, anche dal punto di vista artistico, la sua materia e il suo linguaggio. Questo quesito se l’è posto, risolvendolo in maniera esemplare, Marco Maria Gazzano17:

come per il “cinema” – la “scrittura” del movimento e della luce degli artisti, degli scienziati e dei filosofi dall’inizio del Novecento – così anche il “video” (la “televisione elettronica”, lo “Zen elettronico” di Paik) è una visione. Una possibile visione del mondo. […] Una visione che “non” si confronta con la tecnica, o almeno non principalmente. Con la poesia spesso sì: con il linguaggio, con il suono, con la comunicazione, con le altre arti certamente […]. Ma non con la tecnica. La tecnica è usata dai “videoartisti” […]. È radicalizzata, esplorata, forzata, reinventata a dispetto dei tecnici; per dare forma e immagine, e a volte anche oggettualità, alle possibilità conoscitive ed espressive dell’unica – decisiva – “materia” che ha segnato l’intera esperienza delle arti elettroniche, dal video al web: l’energia elettronica, la luce e il suono primordiali, il movimento simultaneo delle particelle elementari, i flussi elettromagnetici e le loro valenze iconiche, cromatiche, simboliche. (Gazzano, 2013: 137-138)

Esposto nelle sale di un museo, il videogioco non smette di essere gioco ma reclama il suo essere anche video, immagine in movimento, scrittura del movimento e della luce e, in fondo, energia elettronica. È la stessa origine del videogame a suggerirlo a più riprese: nel 1947, quando Thomas J. Goldsmith e Estle Ray Mann brevettano un sistema per manipolare il raggio catodico per simulare un tiro al bersaglio (il Cathode Ray Tube Amusement Device), nel 1958, quando William Higinbotham modificò (hackerò) un comune oscilloscopio per simulare un tennis minimalista e intrattenere gli avventori per l’annuale esposizione del Brookhaven National Laboratory, e nel 1972, quando Allan Alcorn intraprese un’operazione simile, manipolando il segnale video di un normale televisore domestico con un sistema analogico (Dillon, 2011).

Alcuni artisti, così come alcuni curatori, non fanno altro che concentrarsi sull’aspetto materiale del video, sulla sua temporalità e il suo linguaggio, offrendo un’esperienza di gioco diversa, non convenzionale, che ha a che fare con l’arte più che con l’industria dell’intrattenimento. Un’esperienza che spesso porta il fruitore a contemplare l’opera, a godersela lentamente, rifiutando la sfida posta dagli high score.

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Sharp, John (2015). Works of Game. Cambridge (Massachusetts): MIT Press.

Schrank, Brian (2014). Avant-garde Videogames: Playing with Technoculture. Cambridge (Massachusetts): MIT Press.

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Tanni, Valentina (2018). “The Night Journey di Bill Viola è disponibile su computer e Playstation 4”, in Artribune, 30 giugno 2018. https://www.artribune.com/progettazione/new-media/2018/06/the-night-journey-bill-viola-computer-playstation/ (ultimo accesso 03-12-18).

“The Night Journey” (2017). In New Gameplay: Nam June Paik Art Center: 2016.7.20 – 2017.2.19, a cura di Hyejin Park, 174-177. Yongin: Nam June Paik Art Center.

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Wolf, Mark J. P., (2001). “The Video Game as a Medium”. In The medium of the video game, a cura di Mark J. P. Wolf, 13-32. Austin: University of Texas Press.


  1. Sulle peculiarità del first person shot e le sue differenze con il point of view shot si faccia riferimento a Eugeni, Ruggero (2011). “Prima persona. Le trasformazioni dell’inquadratura soggettiva tra cinema, media e videogioco”. In Fate il vostro gioco. Cinema e videogioco nella rete: pratiche di contaminazione, a cura di Elisa Mandelli, Valentina Re, 16-25. Treviso: Terra Ferma.↩︎

  2. https://www.thenightjourney.com/↩︎

  3. Si pensi, per esempio, a opere come The Sleep of Reason (1988) o Going Forth By Day (2002), che includono lo spettatore nello spazio dell’installazione. Scrive Anne-Marie Duguet: «Les oeuvres de Viola s’inscrivent pleinement dans l’art contemporain, par ce rapport au processus at au tems que la vidéo engage de manière privilegiée, par l’importance donnée à la performance et au corps, pal l’invention de modalités d’implication physique et mentale du visiteur chaque fois singulières». (Duguet, 2014)↩︎

  4. Cloud (2005), descritto dall’autore come un “simulatore di sogni infantili”, è stato sviluppato dall’autore nell’ambito di un progetto di ricerca del Game Innovation Lab.↩︎

  5. A tal proposito, Beryl Graham ha affermato: “some gallery based video art was defined in opposition to the fast editing of commercial television, which resulted in a caricature of video art: large-scale, static installations that moved at glacial speed in order to be defined as art. New media art has an even stronger culture of speed as a starting point. […] Video games are often measured by their speed of response, and David Rokeby has described this intoxicating speed as relieving the users of the responsibility of consciousness and moral dilemma. […] Because of this culture of speed, it is therefore more transgressive of new media artists to proclaim proudly, as the artists JODI do, ‘the slower, the better’.” (Graham e Cook, 2010: 92-93). Su una fruizione “lenta” del videogame si veda anche: Cappai, Roberto (2017). “Lo Zen e l’arte del codice binario”. Quaderni d’altri tempi. http://www.quadernidaltritempi.eu/lo-zen-e-larte-del-codice-binario/ (ultimo accesso 10-04-2020).↩︎

  6. Casetti sviluppa un ragionamento sull’esperienza filmica articolato in tre punti: il primo è che si tratta di un’esperienza sinestetica, che va dunque oltre la diretta stimolazione sensoriale; il secondo è che scatta nel momento in cui un’opera filmica cattura l’attenzione del fruitore, che la riconosce come qualcosa che eccede rispetto a ciò che la circonda; il terzo punto è che si tratta di un’esperienza originariamente localizzata che tuttavia, nel tempo, è cambiata in seguito alla ri-locazione del cinema (Casetti, 2008). Almeno due dei punti individuati da Casetti riguardano anche l’esperienza videoludica: la doppia natura del videogame suggerisce che la fruizione videoludica può essere un’esperienza anche visiva che, proprio come l’esperienza filmica – anch’essa prevalentemente visiva – coinvolge lo spettatore creando una sinestesia che va oltre i soli sensi direttamente coinvolti. Inoltre, anche l’esperienza videoludica eccede rispetto a ciò che la circonda, e prende corpo nel momento in cui viene riconosciuta. Per quanto riguarda il terzo punto, ovvero il discorso sulla ri-locazione, si rimanda al testo.↩︎

  7. In questa occasione, non essendo ancora completa, pur facendo parte della sezione “Interactive” l’opera è stata presentata nella forma non interattiva di walkthrough, una registrazione video di una sessione di gioco.↩︎

  8. Nikolaj, Copenhagen Contemporary Art Center, is back with the follow-up to last year's great success, the FOKUS Video Art Festival. Copenhagen has now truly gained a platform for video art, the established as well as the experimental variety. Taking place this year in a period from February 9 to 26, the three weeks of Thursdays to Sundays will see Nikolaj transformed into one large video art scene, inviting guests to step into the dark to check out an extensive video programme of both Danish and international artists, talks and events. And once again this year, FOKUS has sent out an open call, inviting both established artists and new and upcoming talents to submit video works for the Festival programme". http://www.nikolajkunsthal.dk/en/udstillinger/fokus-2012 (ultimo accesso 15-06-2020).↩︎

  9. Sul fenomeno degli artgame (o Art game) si veda: Holmes, Tiffany (2003). “Arcade Classic Spawn Art? Current Trends in the Art Game Genre”. In Proceedings: Melbourne DAC 2003, 46-52. http://www.techkwondo.com/external/pdf/reports/Holmes.pdf (ultimo accesso 30-04-2020). Si veda anche: Parker, Felan (2013). “An Art World for Artgames”. In Loading… The Journal of the Canadian Game Studies Association, 7 (11): 41-60. https://journals.sfu.ca/loading/index.php/loading/article/view/119/160 (ultimo accesso 30-04-2020).↩︎

  10. È questo il caso, tra gli altri, delle mostre ZKM_Gameplay (ZKM, Karlsruhe, 20.04.16 - 19.08.2018) e ZKM_Gameplay. The next level (ZKM, Karlsruhe, 29.09.2018 - 31.12.2021), della collezione permanente del Computerspiele Museum di Berlino, e della mostra The Art of Video Games (Smithsonian American Art Museum, Washington D.C., 16.03.2012 - 30.09.2012).↩︎

  11. Il guadagno derivante da ogni gioco dipendeva proprio da questo: a una maggiore difficoltà corrispondeva, di norma, una maggiore quantità di monete, che gli avventori delle sale giochi spendevano negli innumerevoli tentativi di finirlo, laddove questo era possibile.↩︎

  12. Con questo termine Rubin fa riferimento a un’usanza che consisterebbe nel posare un gettone sul cabinato mentre questo era occupato per “prenotare” una sessione di gioco. Secondo Rubin, il jamming in aveva delle regole precise: per esempio, era buona norma non disturbare in alcun modo chi giocava, non toccare alcun gettone che non fosse il proprio, etc. (Rubin, 1982).↩︎

  13. Si veda anche il breve saggio scritto nel 1996 dall’allora direttore della Tate Gallery Nicholas Serota, intitolato Experience of Interpretation: The Dilemma of Museum of Modern Art.↩︎

  14. Un approccio di questo tipo caratterizza, tra gli altri, il Peek&Poke Computer Museum di Rijeka. https://www.peekpoke.hr/welcome/ (ultimo accesso 05-05-2020).↩︎

  15. Per un ulteriore approfondimento sulle mostra Videotopia e sulla collezione del Museo del Videogame di Tampere si rimanda ai rispettivi siti ufficiali: http://www.videotopia.com/ (ultimo accesso: 15-06-2020) e http://vapriikki.fi/pelimuseo/ (ultimo accesso: 15-06-2020).↩︎

  16. Sul passaggio dalla ricerca sulla materialità a quella sul linguaggio del video si veda Lischi, Sandra (2005). Il linguaggio del video. Roma: Carocci.↩︎

  17. Sulla fluidità e sulle proprietà metamorfiche del video si vedano anche: Bellour, Raymond (1990). L’Entre-images: photo, cinéma, vidéo. Paris: la Différence; Amaducci, Alessandro (1998). Il video. L’immagine elettronica creativa. Torino: Lindau; Lischi, Sandra (2001). Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video. Venezia: Marsilio. Marcheschi, Elena (2012), Sguardi eccentrici. Il fantastico nelle arti elettroniche. Pisa: ETS.↩︎