Presentato in anteprima alla 75a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e ora disponibile su Netflix, The Ballad of Buster Scruggs è un film interessante a partire dalla scelta distributiva, inedita per i Coen, che segna un’epoca in cui le differenze sostanziali tra visione in sala e visione domestica (dimensione dello schermo, socialità, condivisione, qualità della proiezione) non appaiono più (se mai lo sono apparse nella teoria del cinema e nella pratica dei cinematografi) così sostanziali. The Ballad of Buster Scruggs non è una serie antologica ma un film a episodi, o forse una raccolta di cortometraggi. Se si dà retta al titolo, si può anche pensarlo come un album musicale composto di singoli brani. Il termine “ballad” descrive infatti una canzone dai contenuti narrativi, spesso centrata, come nel titolo dei Coen, su una singola vita (Ballad of Ira Haynes, Ballad of Hollis Brown, Ballad of Dorothy Parker…). Il primo episodio, quello con l'eponimo pistolero-cantante, inserisce il racconto dei Coen all’interno di una cornice musicale. Ecco poi affacciarsi alla metà del film un grande autore di ballate, Tom Waits, che in All Gold Canyon (ispirato a un racconto di Jack London) interpreta un cercatore d’oro. L’episodio illustra in modo quasi documentario le tecniche della ricerca dell'oro lungo il corso di un fiume. I dialoghi sono ridotti all’osso e tutta l’attenzione dello spettatore si sposta sui colpi di badile, sul ritmo visivo e sonoro.
Da più di mezzo secolo il genere western si confronta con un’aporia di fondo: racconta storie della conquista e dell’esplorazione di un territorio che è sempre nuovo, sempre da scoprire; e al contempo si deve arrendere all’idea che di quel mondo narrativo tutto è già stato esplorato e raccontato. In questi casi il cinema non può che essere post-moderno: i Coen fanno finta di credere alla storia che raccontano mentre continuano a strizzare l’occhiolino al loro pubblico. Il film inizia con Buster Scruggs che parla in macchina. Sin dal principio, il gioco e la complicità con lo spettatore sono totali. Come scrive in un suo brano il venerato (dai Coen, vedi A proposito di Davis) Bob Dylan, “to live outside the law you must be honest”: l’unico modo per essere onesti è dichiarare la propria disonestà. Tutti i topoi della narrazione western vengono dunque messi in campo: la pistola più veloce del West, l’attacco indiano, il dialogo fitto in diligenza, il bordello, il mandriano taciturno, la rapina in banca, i duelli al sole, il ladro di bestiame, le impiccagioni fallite e quelle riuscite. I Coen cercano le radici di un genere facendone in qualche modo la radice, riducendolo a un suo esponente, come nel caso dell’episodio Meal Ticket, che si appoggia al tema dei fenomeni da baraccone per rimpicciolirlo anche letteralmente, visto che il freak show si limita all’esibizione di un solo scherzo della natura, un torso umano, in un micro-teatrino ambulante. I Coen sono a loro perfetto agio con l’apologo kafkiano. I riferimenti inter-testuali, al cinema, alla letteratura, alla musica, si moltiplicano e si sfilacciano.
Altre voci dall’America, americane per eccellenza almeno quanto il western, sono quelle che ci propone Roberto Minervini, autore del documentario What You Gonna Do When The World’s On Fire?, che solleva questioni legate al tema della razza e della gentrification dando la parola a un pugno di esponenti della comunità afro-americana di Baton Rouge, Louisiana – una donna che cerca disperatamente di gestire un bar, le nuove Black Panthers, degli adolescenti in fuga dal loro destino... Secondo l’etica del documentarista che Minervini abbraccia, e che colloca il film all'interno del filone wisemaniano del racconto della realtà, la parola va data, a lungo, estesamente, a chi non ha voce.
A Venezia Frederick Wiseman in persona presentava il suo Monrovia, Indiana. La cittadina di Monrovia, mille abitanti, diventa una sineddoche degli Stati Uniti, un centro che racchiude e amplifica una serie di contraddizioni – tra libertà e chiusura, accoglienza e diffidenza, investimenti pubblici e pretese private, senso della vita e ripetitività delle giornate. La questione razziale scompare, o appare solo sottotraccia. Monrovia è abitata da bianchi. Vediamo una sola afro-americana, che canta in chiesa. La noia contagiosa di una cittadina americana si specchia nella storica passione di Wiseman per le istituzioni, in questo caso un consiglio comunale. Come suggerisce Errol Morris, “Fred ama le istituzioni come Fellini ama il circo”. Il fascino delle istituzioni sta nei cavilli, il diavolo nei dettagli, ad esempio quello, lungamente dibattuto, dell’attacco per l’autopompa dei vigili del fuoco in una zona residenziale.
Anche Errol Morris è tornato a Venezia a presentare il suo ultimo lavoro, American Dharma. Per indagare, di nuovo, le dinamiche del potere, Morris intervista Steve Bannon. La scelta è dunque opposta a quella di Minervini: Morris dà la parola a chi già ce l’ha. L'obiezione che gli è stata rivolta è di aver dato ulteriore celebrità a una figura celebre, o di aver addirittura riscattato Bannon dall'oblio in cui stava sprofondando. Ma Morris non è certo un interlocutore accondiscendente, e l'intervista si dimostra rivelatrice rispetto a una serie di meccanismi della propaganda politica terribili e vincenti. Come quando, in seguito alle accuse di molestia sessuale rivolte contro Trump, Bannon consiglia di trascurare i fatti, ridimensionandoli a questione insignificante. L'ideologo della nuova destra americana insegna che la politica ha sempre più a che fare con l'agenda setting, con la gestione della visibilità, con la capacità di orientare o dirottare l'attenzione pubblica. Una lezione presto assimilata dai movimenti populisti.
Sollevando in modi diversi la stessa vecchia questione narratologica, American Dharma si apparenta stranamente con il crime thriller presentato fuori concorso Dragged Accross Concrete. La domanda è ancora: si possono attribuire le intenzioni di un personaggio a quelle dell'autore? In questo caso le idee sono quelle manifestamente razziste espresse dal capo della polizia nel momento in cui è costretto a sospendere dal servizio i due poliziotti protagonisti del film (Mel Gibson e Vince Vaughn). Una serie di variabili extra-testuali e soprattutto testuali (nel film gli scenari paventati dai personaggi razzisti si verificano puntualmente), inducono a bollare il film come reazionario. Le risposte del regista e sceneggiatore S. Craig Zahler (“I write to my taste”) non rassicurano di certo.