Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.14 (2018)
ISSN 2280-9481

Scrivere lo spazio con le immagini in movimento: percorsi espositivi, museali e urbani

Francesco FedericiUniversità Iuav di Venezia (Italy)

Francesco Federici holds an International Ph.D. in Audiovidual Studies from the Università di Udine in collaboration with Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3 and is Adjunct Professor in Documentary and Experimental Cinema at Università Iuav di Venezia. His writing has appeared in various edited collections and journals and he has recently authored Frammenti di cinema. Archivi e museografie d’artista (2018) and Cinema esposto. Arte contemporanea, museo, immagini in movimento (2017). He has co-edited Albert Serra. Cinema, arte e performance (2018), Extended Temporalities. Transient Visions in the Museum and in Art (2016), Cinema and Art as Archive: Medium, Form, Memory (2014) and Cinéma: immersivité, surface, exposition (2013). He is one of the coordinators of the “Cinema and Contemporary Arts” section of the MAGIS Gorizia International Film Studies Spring School and the book series published under the same name by Mimesis International.

Elisa MandelliUniversità degli Studi Link Campus University (Italy)

Elisa Mandelli is Postdoctoral Researcher at Link Campus University (Rome). She has published articles in several national and international journals. Her research interests include the exhibition of moving images in museums, the relationships between cinema and visual arts, and the history of Italian cinema. She published the books In Treatment. La serialità in analisi (Mimesis, 2017) and Esporre la memoria. Le immagini in movimento nel museo contemporaneo (Forum, 2017).

Pubblicato: 2018-12-31

Keyword: Museum; Cinema; Exhibition; Screen.

La pervasività delle immagini in movimento negli spazi espositivi è una delle cifre più caratteristiche del panorama artistico e mediale contemporaneo e si manifesta in forme che vengono continuamente ridefinite dall’uso e dalla ricerca artistica. Molto è stato scritto in una prospettiva estetica sul cosiddetto “effetto cinema” nell’arte contemporanea (l’effet cinéma di cui parla Dubois 2006), sulla rilocazione (Casetti 2012) del cinema nel museo, e su quell’insieme di fenomeni che sono stati di volta in volta identificati come “cinema d’esposizione” (Royoux 1997, 2000), “altro cinema” (Bellour 2000), “cinema d’artista” (nell’accezione, ad esempio, che ne dà Connolly 2009), othered cinema (Balsom 2013; sul “cinema esposto” si vedano anche Elwes 2015; Federici 2017). Inoltre, un numero crescente di ricerche si va in tempi recenti interrogando sulle forme di penetrazione delle immagini in movimento negli spazi del quotidiano, dagli scenari urbani ai contesti privati (Arcagni 2010; Ravesi 2011; De Rosa 2013).

Questo speciale vuole innestarsi sulla seconda delle linee individuate, che si distanzia da un’analisi dei fenomeni artistici in senso stretto, estendendo il campo di indagine alle esposizioni storiche o di costume allestite nelle sale dei musei, fino alla reinterpretazione degli spazi urbani tramite le immagini in movimento.

La prima parte indaga le forme di utilizzo delle immagini in movimento nella didattica e divulgazione del patrimonio culturale, nei musei e negli spazi espositivi. Film, video, proiezioni, schermi interattivi sono oggi parte integrante dell’esperienza del visitatore, e hanno man mano acquistato una legittimità che permette di farli dialogare in modo significativo con gli oggetti e con i più classici elementi dell’esposizione e della comunicazione museale, dalla vetrina al cartellino (Mandelli 2017). Nel loro andare a colonizzare (Casetti 2008) in modo sempre più ineludibile gli spazi espositivi, le immagini in movimento si configurano dunque come elementi tutt’altro che accessori; al contrario la loro selezione e disposizione nello spazio è frutto di una precisa serie di scelte che influenzano a fondo le forme di significazione del museo stesso.

Se dunque i media audiovisivi intervengono in modo decisivo nella produzione di senso all’interno degli spazi patrimoniali, sono soprattutto gli studi museologici e museografici ad averne finora interrogato con crescente attenzione tipologie di display, dispositivi tecnologici, modalità di relazione con il visitatore (Henning 2006 e 2015; Arnold-de Simine 2013; De Jong 2018). È invece stata finora decisamente più tiepida la curiosità degli studiosi di cinema e media, che pur, come già accennato, negli ultimi decenni hanno ampliato lo spettro dei loro interessi fino a considerare forme di presentazione delle immagini in movimento che spaziano ben al di là della classica sala cinematografica.

Quando non si consideri la produzione artistica, le sale dei musei, sempre più popolate da immagini in movimento che sono ora supporto espositivo ora oggetto esposto in se stesse, rimangono un territorio ancora largamente inesplorato nell’ambito dei film e media studies (se non con alcune significative eccezioni, per quanto in prospettiva storica: Griffiths 2002 e 2008; Wasson 2005 e 2011). Pare difficile interrogarne le ragioni: forse l’idea di una natura “strumentale” delle immagini in movimento nei luoghi del patrimonio (si veda ad esempio Albera 2012: 202-208), intese come subordinate alle esigenze della didattica e della divulgazione dei contenuti proposti dal museo. Ma le soluzioni di display adottate, spesso innovative, sono realmente solo piegate a finalità comunicative esterne? Come invece le immagini in movimento intervengono a riscrivere – in modo più o meno consapevole – i contenuti proposti dal museo, a influenzare il tono stesso della voce curatoriale e le modalità con cui interpella il visitatore? Come cambia la percezione degli oggetti, delle opere e dei reperti, quando sono accostati a filmati e testi audiovisivi, e come vengono riscritte la loro funzione, il loro portato memoriale, l’auctoritas che gli viene attribuita?

È convinzione di chi scrive che l’ingresso massiccio delle immagini in movimento negli spazi espositivi patrimoniali abbia non solo intercettato, adeguandovisi, una serie di tendenze in atto nel contesto museale, ma le abbia intensificate, influenzate e riorientate, dando un impulso decisivo all’evoluzione dei musei verso quella dimensione sempre più immateriale, emozionale, e persino spettacolare che oggi li caratterizza (Hein 2000; Violi 2014). Una serie di cambiamenti che non possono essere compresi se non estendendo il raggio di indagine e mettendo in relazione il museo con il più ampio contesto culturale e mediale contemporaneo, nel quale esso si inscrive a pieno titolo, e delle cui dinamiche partecipa tanto recependole quanto contribuendo a orientarne gli sviluppi.

Sembra allora tanto più urgente che approcci teorici e prospettive metodologiche dei media studies divengano strumenti operativi per indagare le forme di un museo sempre più mediatizzato. Tra gli obiettivi di questo speciale vi è dunque anche quello di sollecitare gli studiosi dei media a confrontarsi con lo spazio del museo e con la sua missione didattica, educativa e divulgativa.

Marco Lovisato e Giorgia Maestri propongono un attraversamento dei suggestivi spazi dell’archivio film della Fondazione Cineteca Italiana, che, con una scelta controcorrente rispetto alla comune pratica degli archivi – dove per preservare i materiali si tende a escluderli dalla vista –, predispone per il visitatore un percorso in realtà aumentata tra i film che nei decenni sono stati meticolosamente raccolti e conservati. Gli autori si interrogano sulle forme e sulle potenzialità dell’integrazione tra la fisicità delle pellicole e la virtualità della visione consentita dal dispositivo tecnologico, che va a creare quello che definiscono, con Montani (2014), un “ambiente associato”, che riscrive lo spazio dell’archivio ed esorta il visitatore all’esplorazione creativa dei contenuti.

Andrea Haller indaga le forme di presentazione di film e materiali audiovisivi in due musei di archeologia e preistoria, restituendo un ricco e preciso resoconto di come le immagini in movimento possano essere messe in relazione con gli oggetti e i reperti, integrandone il senso e contribuendo a tracciare per i visitatori i contorni di epoche storiche di cui non rimangono che rare e frammentarie testimonianze materiali. Haller sottolinea l’importanza di riflettere sulla mediazione introdotta dal museo nel comunicare il passato, suggerendo che le forme adottate per raccontarlo dicano non solo qualcosa di esso, ma anche del modo in cui si configura il nostro stesso sguardo.

Paolo Simoni si concentra invece sugli archivi di artisti e filmmaker sperimentali del dopoguerra la cui produzione, in particolar modo in formato ridotto, è rimasta quasi sempre ai margini. Analizzando alcuni momenti espositivi l’autore riflette su questioni oggi al centro degli studi archivistici, quali il ruolo delle immagini amatoriali e l’esposizione di momenti privati, nonché il problema del “pericolo della perdita della conoscenza culturale e tecnologica” e delle metodologie che possono essere messe in atto per inserire queste immagini nel panorama contemporaneo.

Più focalizzato su uno studio di caso, scelto per la sua emblematicità, è il contributo di Gabriele Landrini, che propone un’analisi delle eterogenee forme di esposizione delle immagini nell’ambito di una mostra sulle intersezioni tra la casa di moda Fendi e il cinema. Dai più classici schermi, cui è affidata la funzione di illustrare la “vita cinematografica” degli abiti, a installazioni immersive e interattive che interpellano lo spettatore e la sua percezione di sé, il museo si rivela uno spazio in cui esplorare creativamente le possibilità di relazione tra oggetti, immagini in movimento e visitatori.

Pur analizzando oggetti diversi e per molti versi peculiari, nel loro complesso i saggi stimolano interrogativi importanti, ponendo sul terreno una serie di questioni che invitano a proseguire una riflessione tuttora solo ai suoi inizi. Tra le considerazioni più urgenti vi è indubbiamente quella sul rapporto delle immagini in movimento con gli oggetti nella loro materialità da un lato, con i luoghi in cui sono installate dall’altro. In che modo i film e gli audiovisivi possono intervenire a “far parlare” nuovamente i reperti di epoche tanto distanti da rischiare di apparire mute allo sguardo contemporaneo, oppure quei luoghi del patrimonio che rimangono ricchi, ma muti, depositari di storia? E come – per aprire un’altra questione – questo può avvenire coniugando le esigenze di ricostruzione e divulgazione con il rispetto del rigore storico? E, per ribaltare la prospettiva, in che modo la fisionomia assunta oggi dal museo, anche sotto l’azione delle immagini in movimento, ci fornisce una chiave per comprendere la nostra relazione con il più ampio contesto mediatico e culturale contemporaneo?

È in quest’ottica che diviene fondamentale osservare, accanto alle trasformazioni che le immagini in movimento hanno provocato all’interno del contesto museale, anche il cambiamento del paesaggio mediale indotto dall’uscita delle stesse dai confini della sala del museo per approdare nello spazio della città.

Se vista sotto la lente d’ingrandimento degli studi cinematografici, la questione del rapporto fra cinema e architettura si basa su una lunga tradizione di studi nei quali sono state osservate con precisione le relazioni estetiche e di costruzione visiva tra queste arti (fra i vari lavori Bertozzi 2001; Dubois et al. 2011; De Rosa 2013; Koeck 2013). Uno degli obbiettivi di questo speciale è di analizzare le trasformazioni avvenute nel più ampio contesto della cultura visuale e degli studi sui media, riconoscendo al cinema un ruolo fondamentale seppur non esclusivo. In quest’ottica sono stati privilegiati lavori che parlano dello spazio della città come contenitore di pratiche mediali e perno per la costruzione dell’opera audiovisiva. Si tratta, del resto, di un passaggio fondamentale all’interno della cultura visuale, che vede l’architettura divenire schermo, supporto, forma necessaria alla visione dell’opera, come osservato da diversi studiosi (Bruno 2016; Casetti 2016; Koek 2016). Ma quali sono le relazioni che restano salde fra lo spazio museale, inteso allo stesso tempo come luogo di mostrazione delle immagini e come insieme di forme museografiche, e lo spazio ad esso esterno, in senso architettonico ma anche di costruzione urbana? Quali i modelli che possono essere analizzati e le pratiche maggiormente in luce in questo momento storico? Per cercare di rispondere a queste domande sono qui proposti alcuni contributi che analizzano pratiche diverse eppure spesso collegate fra loro come la realtà aumentata, il vjing o l’arte pubblica. Questa scelta si basa sulla consapevolezza che le “pratiche urbane”, sebbene non nuove nel mondo dell’arte e dei media in genere, rivestono oggi un ruolo notevole nella cultura visuale contemporanea, legata in particolar modo – in forme dirette o indirette – a quella che viene definita “schermologia” (Huhtamo 2004): le facciate urbane divengono spazio di costruzione visiva di pari importanza a quello museale e la città, nelle sue diverse componenti, diventa palcoscenico di esperimenti mediali. È stata Giuliana Bruno a osservare di recente come arte e architettura siano tuttora coinvolte in un processo di “avvicinamento” il cui punto di convergenza è la superficie (Bruno 2016, 201): in questo senso le influenze sono reciproche e l’arte si “affaccia” in uno spazio diverso da quello della galleria o museale. Non sono infatti rari festival artistici dedicati a sperimentazioni nella città e pratiche di singoli artisti o di gruppi che sempre più la eleggono come centro del percorso espositivo.

Chiara Di Stefano propone un saggio che si pone metaforicamente al confine fra uno spazio espositivo e lo spazio della città. Nel suo lavoro restituisce una vivida descrizione della videoinstallazione immersiva Perugia Folgora, realizzata negli spazi della Rocca Paolina, porta di accesso dei visitatori alla città di Perugia. L’autrice suggerisce una chiave di lettura che si appunta sulla natura videoludica di questa installazione che, pur non chiedendo allo spettatore l’intervento (inter)attivo proprio del videogiocatore, riprende le forme estetiche di lavori come Assassin’s Creed II. Perugia Folgora mette in atto strategie di trasmissione delle informazioni storiche – pur precise, seppure spesso solo implicitamente evocate – che si appellano a un immaginario mediale contemporaneo e fortemente connotato in senso ludico.

Proprio da questo rinnovato interesse per lo spazio urbano, come luogo adibito allo sviluppo di spettacoli che interessano diverse pratiche mediali quali l’animazione, l’installazione sonora, le diverse forme di proiezioni digitali e altro ancora parte il contributo di Maxime Watier. In questo articolo viene ricostruita una breve genealogia della pratica del videomapping, considerata come una “tecnica di proiezione” più che una disciplina a sé stante, in particolar modo analizzando il passaggio dallo spazio del club verso quello urbano.

Con la consapevolezza che nel paesaggio contemporaneo le arti visive sono difficilmente scindibili da altre pratiche mediali, così come lo è il cinema dalle altre immagini in movimento, una delle scelte di questo speciale è stata proprio quella di soffermarsi su fenomeni come quelli descritti da Maxime Watier al fine di osservarne, almeno in parte, le conseguenze sugli spazi di esposizione. Il videomapping diviene così una delle pratiche centrali di questo processo proprio per la sua capacità di “stare nel mezzo”, di crearsi uno spazio in festival ed eventi che spaziano dall’arte contemporanea al visual design, alla direzione artistica e ad altro ancora.

Proseguendo su questo filone dedicato alle nuove tecnologie nello spazio urbano, Mirko Lino analizza il lavoro del collettivo Komplex-Live Cinema Group, che dal 2013 sperimenta forme di narrazione urbana grazie alle tecniche dell’Augmented Reality. Ripercorrendo una genealogia di questa pratica che ingloba elementi, secondo l’autore, della fantasmagoria e dell’expanded cinema di Gene Youngblood, la realtà aumentata viene definita come surfacing media, “che permette di assistere all’emersione di immagini digitali […] tra le superfici urbane” con una forte componente di storytelling legata naturalmente alla dimensione della città. In particolare viene proposta l’analisi di Cthulhu: An Investigation on Very Low Frequencies in L’Aquila (2016) un percorso che Mirko Lino ha scelto per la sua capacità di risemantizzare la città abruzzese e la sua fase di ricostruzione attraverso l’interfaccia dello smartphone.

Guglielmo Scafirimuto, infine, si concentra sul lavoro di Krzysztof Wodiczko, artista polacco specializzatosi in arte pubblica e interessato in particolar modo a portare l’attenzione su figure marginalizzate, come immigrati e senza tetto. La sua opera si è distinta fin da subito per una pratica di disseminazione urbana che esce quindi dallo spazio della galleria, mescolando video, performance e design e risemantizzando la città e i suoi monumenti o costruendo vere e proprie protesi tecnologiche, come nel caso di Mouthpiece (1995), al fine di costruire un nuovo sguardo e attirare l’attenzione verso le fasce più deboli della popolazione.

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