1 Introduzione. La nuova serialità e la “Complex Television”
Negli ultimi anni, come è noto, le narrazioni seriali si sono confermate un oggetto di analisi privilegiato non solo nell’ambito dei Television Studies ma anche in quello dei Media Studies, di cui stanno contribuendo ormai da tempo a una vera e propria riconfigurazione, e per i quali rappresentano oggi una delle maggiori sfide teoriche. La cosiddetta “nuova serialità”1 che si è andata consolidando nell’ultimo decennio, e le pratiche economiche, sociali e culturali ad essa legate, hanno dimostrato quanto sia sempre più difficile considerare i media – in primis la televisione – come degli oggetti di studio unificati e unilaterali, e come la loro fruizione sia un’esperienza complessa e non sempre prevedibile, che coinvolge e chiama in causa dimensioni e competenze estremamente diverse. Quest’ultimo aspetto, ovvero quello dell’integrazione di molteplici esperienze di fruizione dei prodotti audiovisivi seriali, è di rilevante importanza, e ha a che fare con due tipi di trasformazioni tutt’oggi in atto: una che riguarda le caratteristiche intrinseche e proprie delle narrazioni seriali, l’altra che coinvolge l’interazione tra i testi e il loro pubblico.2 I più recenti studi italiani e internazionali dedicati all’analisi degli odierni prodotti seriali si sono mostrati generalmente d’accordo nel rilevare una crescente e più visibile complessità di questi specifici oggetti narrativi rispetto al passato, complessità che si riscontra a più livelli, nei temi affrontati, nelle storie e nei personaggi raccontati, come nella ricerca formale, nello stile visivo, nella struttura narrativa e nelle modalità di rappresentazione. Lo stile visivo della serialità, in particolare, a lungo rimasto in secondo piano, è diventato oggetto di un interesse crescente, come dimostrano, per esempio, le recenti ricerche di S. Peacock e J. Jacobs, proprio incentrate sullo studio degli aspetti stilistico-formali delle narrazioni seriali. I due studiosi insistono sulla necessità di analisi che mettano in primo piano lo stile della serialità (esattamente come avviene per i film), inteso come un elemento non secondario, e anzi fondamentale alla produzione del senso (Peacock; Jacobs 2013). Gli autori invitano a cogliere l’importanza del legame che intercorre tra lo stile e il significato, centrale per comprendere le dinamiche tra i personaggi, ma anche tra i personaggi e gli ambienti in cui abitano e si muovono, anch’essi fondamentali all’interno della costruzione narrativa. I due studiosi, infatti, hanno messo in evidenza la straordinaria capacità, peculiare delle narrazioni seriali, di creare e animare universi e spazi (sia fisici che metaforici) abitati in egual modo da persone e oggetti, e di far appassionare lo spettatore a quegli universi rendendoli familiari. La familiarità, tuttavia, non coincide necessariamente con una chiara leggibilità dei prodotti seriali, la cui costruzione narrativa risulta oggi, al contrario, sempre più articolata e poliedrica. Non è un caso, infatti, che tra le definizioni-chiave più ricorrenti associate alle recenti analisi della nuova serialità vi sia quella di complex television, in riferimento non solo ai singoli prodotti – le narrazioni estese che rappresentano, oggi, come è stato sottolineato, dei veri e propri “ecosistemi narrativi” (Pescatore 2018) – ma in primis alla televisione stessa, considerata un medium ancora in metamorfosi, convergente rispetto agli altri principali attori mediali, in cima ai quali ci sono, oggi, internet e le piattaforme online di streaming e di produzione e distribuzione di contenuti. Come ha osservato Jason Mittell, uno degli studiosi ad aver parlato esplicitamente in anni recenti di “complex television” in riferimento alle serie televisive statunitensi mainstream (Mittell 2015), la complessità è una caratteristica decisiva emersa già a partire dalla fine degli anni Ottanta, che ha implicato un modo nuovo di costruire le narrazioni e di svilupparle nel tempo, fattore, questo, da sempre fondamentale per tale tipologia di prodotti. La complessità e la multiformità del linguaggio seriale hanno contribuito, nel tempo, a mettere in questione anche alcuni aspetti teorici importanti, tra cui la nozione stessa di testo audiovisivo (che non esaurisce in sé il suo senso e, anzi, lo trova soprattutto al di fuori, nei percorsi extratestuali e nelle varie modalità di fruizione), e la tendenza, negli approcci di analisi critica, a fare riferimento a un solo canone di ricerca (Cardini 2017), rendendo particolarmente necessari processi di analisi interdisciplinari. Le odierne serie televisive e web based, sempre più complesse, immersive e partecipative, hanno anche la capacità di estendersi rapidamente nelle reti sociali creando una forte discorsività, dando luogo a interazioni e dibattiti che oltrepassano la sfera strettamente mediale e hanno una forte ricaduta sociale, oltre che una valenza culturale e politica. In questo modo la cosiddetta “nuova serialità” riesce ad attivare e combinare efficacemente “(…) esperienze di fruizione in passato ritenute diverse tra loro” (Pescatore 2018: 21), da quella di intrattenimento e ludica fino a quella educativa e formativa. I prodotti audiovisivi seriali, del resto, a cominciare dalla loro struttura narrativa che si distacca spesso da una sequenzialità più tradizionale, sembrano invitare il pubblico a intraprendere percorsi non lineari che, proprio come i processi di apprendimento, prevedono una continua messa in questione della conoscenza, un giocare con le contraddizioni del reale e un’apertura verso un mosaico a volte destabilizzante di molteplici verità (Kilgore 2001).
1.1 Le “Post-Comedy” series
Alcuni generi, più di altri, sono andati in questa direzione, dimostrandosi anche particolarmente sensibili e aperti a sperimentazioni formali e narrative, e riuscendo in molti casi a raccontare efficacemente alcuni dei maggiori cambiamenti culturali e sociali in atto nel mondo occidentale di oggi. È il caso, per esempio, dei prodotti comico-satirici, che in ambito televisivo (e non solo) hanno attraversato negli ultimi anni interessanti evoluzioni e attuato numerose contaminazioni con altri generi, rese possibili anche dal contesto mediale ed economico dell’attuale mercato audiovisivo – estremamente frammentato e complesso – in cui c’è spazio anche per prodotti originali, rischiosi da un punto di vista economico e innovativi per le modalità di rappresentazione. La maggior parte delle comedy series di oggi, per esempio, sembra non avere più soltanto l’obiettivo diretto della risata, e pare invece focalizzarsi soprattutto sulle atmosfere, sulla costruzione narrativa e dei personaggi, oltre che inglobare sempre più spesso temi sociali (soprattutto questioni riguardanti l’inclusione sociale). In molte di queste narrazioni c’è un’alternanza frequente tra un tono ironico e uno più cupo e riflessivo, elementi, questi, che si rispecchiano anche nella rappresentazione dei personaggi, caratterizzati da forti ambivalenze che li fanno oscillare tra leggerezza e una cupezza che chiama in causa temi e questioni esistenziali e che, come ha osservato Anna Camaiti Hostert, appartiene a tutte le serie statunitensi del momento e al paese stesso, “(…) al mood che oggi lo caratterizza” (Camaiti, Hostert 2017: 105). Tutti questi fattori, diventati centrali in molte delle odierne serie comiche di successo, hanno fatto sì che si parlasse dell’epoca attuale come di una “Post-Comedy Era” che sta ormai interessando trasversalmente sia il piccolo che il grande schermo,3 e che implica anche una commistione di generi diversi che si intrecciano e influenzano reciprocamente. Nel filone delle post-comedies televisive rientrano anche le cosiddette Taboo Comedies, delle commedie che, per i temi trattati e per lo spirito particolarmente irriverente (un humour nero costruito intorno a temi sensibili come la morte, la malattia, il sesso, la religione, o questioni legate alle minoranze culturali e così via), vengono spesso considerate oltraggiose, esplicite, al limite tra il politicamente scorretto e l’offensivo. Questo tipo di commedie esagerano e deformano volutamente la realtà – attraverso l’iperbole, l’ironia, l’enfasi – mettendo così anche in evidenza la parte di inautenticità che si cela dietro ogni rappresentazione (Bucaria; Barra 2016). L’humour cinico e irriverente di queste narrazioni può rivelarsi, per alcuni versi, un’arma particolarmente efficace, poiché permette di aprire il campo del piccolo schermo a problemi sociali ancora poco trattati e visibili – abbracciando quindi una posizione progressista – ma può anche essere un mezzo per ironizzare su tali questioni, ridicolizzando così l’idea stessa di una posizione progressista (Bucaria; Barra 2016) o sedicente tale.
2 Un caso di studio: American Vandal, il mockumentary
Uno dei prodotti seriali più originali degli ultimi anni e in parte figlio proprio della cosiddetta “Post-Comedy Era”, oltre che della famiglia delle Taboo Comedies, è probabilmente American Vandal, una serie statunitense creata da Dan Perrault e Tony Yacenda e distribuita da Netflix (2017-2018), che si presenta come un caso di studio particolarmente rilevante per la sua complessità – mascherata da un plot apparentemente banale e quasi demenziale – e per il suo essere un prodotto ibrido e ambiguo che gioca con i codici dei generi e che riflette sul linguaggio audiovisivo, sullo statuto odierno delle immagini mediali e sul loro impatto sociale e culturale soprattutto sulle nuove generazioni. American Vandal può essere definita, per alcuni aspetti, un mockumentary,4 ovvero un prodotto audiovisivo che per l’approccio formale, i codici espressivi e lo stile di ripresa adottati, si configura come un documentario televisivo, pur trattandosi in realtà di un prodotto seriale interamente di fiction realizzato con un cast di attori professionisti. La serie, infatti, costruisce e mette in scena, attraverso una narrazione esplicitamente documentaristica, l’indagine portata avanti da due studenti del liceo californiano Hanover High School per far chiarezza su delle vicende avvenute pochi giorni prima nella scuola, che hanno turbato l’equilibrio tra insegnanti e ragazzi. Gli avvenimenti in questione riguardano alcuni atti di vandalismo a danno delle auto dei professori del liceo, sulle quali qualcuno si è divertito a raffigurare dei disegni fallici con una bomboletta spray. Nonostante l’identità del colpevole non sia nota (in quanto le videocamere di sorveglianza erano state accuratamente oscurate), tutti gli insegnanti, i dirigenti scolastici e molti degli studenti sono fermamente convinti che l’artefice sia Dylan Maxwell, un ragazzo già noto per le sue bravate e la sua cattiva condotta che, pur non avendo un vero alibi, si dichiara innocente. A partire da questo fatto, apparentemente poco rilevante e per alcuni aspetti esplicitamente comico, la serie dispiega, sotto forma di documentario di inchiesta, la ricerca del vero colpevole da parte di due compagni di Dylan, Peter e Sam, che credono alla sua innocenza. I due giovani documentaristi procedono subito ad una minuziosa ricostruzione cronologica e a una documentazione dei fatti attraverso interviste e dichiarazioni dei compagni, dei professori e dei familiari del presunto colpevole, con l’obiettivo di risalire alla verità, che resterà ambigua e in parte incerta fino alla fine. Seguendo alcune delle caratteristiche tipiche del mockumentary, che si appropria “(…) delle estetiche documentarie a fini ‘ludici’” (Formenti 2013: 24), (tra cui, per esempio, lo stile di ripresa “sporco” ottenuto tramite la camera a mano), la serie adotta un tono volutamente ironico e satirico in primis verso altri generi televisivi, come i true crime drama – serie televisive drammatiche che, attraverso una narrazione documentaristica, tentano di far luce su dei fatti di cronaca nera – o i teen drama, che ruotano intorno al mondo degli adolescenti e della scuola. Osservando American Vandal il paragone da subito più evidente è, effettivamente, con un’altra serie di recente successo, 13 Reasons Why (2017- in produzione), anch’essa diffusa da Netflix, incentrata sul fenomeno del bullismo nei contesti scolastici americani. I due prodotti sono per alcuni versi speculari in quanto affrontano, attraverso prospettive e generi molto diversi, problematiche educative che coinvolgono da un lato la cultura giovanile dei millenials, e dall’altro l’analisi e la critica del sistema scolastico americano. Se 13 Reasons Why si presenta come una serie drammatica, didascalica e di denuncia di temi di attualità e urgenza sociale, prediligendo il punto di vista della vittima (una giovane studentessa morta suicida) e il suo rapporto con gli altri personaggi, American Vandal fa emergere temi analoghi servendosi, invece, della satira e di un’ironia sottesa e pungente mai portata agli eccessi, restando costantemente sul confine tra il supposto reale e la finzione, tra la presunta oggettività dei fatti e la “verità” del punto di vista. Il mockumentary, del resto, rappresenta sempre una forma di critica culturale più o meno esplicita che si serve della parodia, dell’imitazione e del pastiche anche per sfidare le nostre credenze e la nostra identità (Miller 2012), provocando un sentimento di disagio nello spettatore e portandolo indirettamente a riflettere sulla costruzione sociale e culturale di norme, valori, ideologie.
Attraverso la forma ambigua del mockumentary e una costruzione della storia che aggiunge di volta in volta dei tasselli potenzialmente utili alla risoluzione dell’enigma (la cui portata viene esplicitamente e ironicamente ingigantita), ma che, nello stesso tempo, aprono ad ulteriori interrogativi e questioni (dalle bugie fino alla costruzione di fake news diffuse capillarmente sul web), la serie invita soprattutto a riflettere sulla costruzione, la potenza e il funzionamento degli stereotipi. È a causa di pregiudizi legati a stereotipi, per esempio, che il protagonista Dylan, vittima di una reputazione che egli stesso si è in parte creato, viene considerato immediatamente colpevole, pur in assenza di prove effettive che lo dimostrino tale; come nel suo caso, del resto, a ogni altro studente della scuola viene associata da subito un’etichetta, e con essa una nomea non facilmente modificabile. Lo stereotipo trova nel web e nei social media una potente cassa di risonanza, che contribuisce a rendere ambiguo un reale già difficilmente penetrabile e continuamente manipolabile, come dimostra lo svolgimento del plot e il fatto che ciascuno dei personaggi costruisca e difenda una personale versione dei fatti.
3 La soggettività in gioco
Nell’epoca attuale in cui, come ha osservato Ruggero Eugeni, è sempre più complesso stabilire con chiarezza ciò che è mediale e ciò che non lo è (Eugeni 2015), la serie American Vandal riflette con ironia proprio sull’onnipresenza e sul potere dei media (in particolare i social media), mostrati come dispositivi che alimentano nello stesso tempo sia il desiderio di esibizione di sé che la tendenza alla soggettivazione dell’esperienza, tipici delle odierne società occidentali. Mentre il primo viene accresciuto dall’iper-utilizzo dei social network – concepiti non più come delle semplici estensioni del nostro mondo, ma come dei veri e propri ambienti in cui si è immersi e attraverso cui si vive ogni tipo di esperienza quotidiana – la seconda ha anche a che vedere, in questo caso, con la forma stessa del mockumentary. Quest’ultimo, infatti, si serve spesso di quello che Eugeni definisce il first person shot,5 una forma espressiva che offre l’impressione di assistere a un’esperienza dinamica e viva che si dispiega in diretta davanti ai nostri occhi, e che incarna in questo modo quella soggettivazione dell’esperienza che è propria della “condizione postmediale” attuale di cui parla lo studioso. La narrazione documentaristica adottata da American Vandal, che prevede l’utilizzo frequente della camera a mano e del first person shot, rappresenta una scelta espressiva particolarmente rilevante in quanto perfettamente calata nel nostro tempo, di cui fa emergere alcune tendenze dominanti. Parallelamente, Peter e Sam, i giovani documentaristi che danno vita all’indagine sugli episodi di vandalismo, nell’atto stesso di filmare raccontano in un certo senso anche loro stessi, costruendo di volta in volta il proprio ruolo all’interno delle vicende e in relazione agli altri, come dimostra in modo più evidente la seconda stagione della serie. Nella successiva stagione di American Vandal, infatti, i due ragazzi hanno acquisito una maggiore consapevolezza e raggiunto una notorietà inaspettata proprio grazie al loro omonimo documentario d’indagine (lanciato sul web e diventato virale), tanto da decidere di continuare il loro lavoro di investigazione su un altro caso di vandalismo avvenuto questa volta in una scuola privata cattolica di Bellevue, a Washington. Nonostante i due abbiano ormai acquisito uno status sociale diverso, ovvero una maggiore credibilità agli occhi dei docenti e degli altri studenti e un’enorme visibilità, e abbiano quindi un ruolo più centrale rispetto alla prima stagione, la forza della serie continua a manifestarsi “(…) nella sua costruzione, nel modo in cui si serve dei personaggi per portare avanti la trama, e della trama per raccontare i personaggi” (Anelli 2018), e nel modo in cui riesce a parlare di temi attuali rilevanti pur senza affrontarli in modo diretto ed esplicito.
4 La critica del sistema scolastico
Se la prima stagione ruota soprattutto intorno alla detection, al mistero e ai dubbi riguardo il colpevole, quella successiva si preoccupa maggiormente di focalizzarsi e di sviluppare alcuni temi-chiave già presenti nella stagione precedente e lanciati in modo più esplicito solo negli episodi finali. Tra questi vi è soprattutto una riflessione sul ruolo dei social media – visti come dispositivi ambivalenti di costituzione del legame sociale e, nello stesso tempo, di esclusione e marginalizzazione – e una forte critica delle istituzioni scolastiche e del loro sistema di funzionamento. Questi due aspetti si rivelano interconnessi, in quanto i limiti della scuola – che nella serie è un setting tutt’altro che irrilevante – e degli insegnanti hanno a che vedere anche con la loro incapacità di comprendere davvero e a fondo l’odierno contesto mediale, e di coglierne soprattutto le complesse implicazioni a livello sociale ed educativo. Come ha ancora potuto evidenziare Eugeni, infatti, stiamo assistendo da tempo a una “seria crisi delle istituzioni preposte alla formazione all’interno della condizione postmediale” (Eugeni 2015: 78), che si sono dimostrate sempre meno adeguate e non al passo con i cambiamenti culturali e sociali avvenuti anche solo negli ultimi dieci anni. La conferma del gap della scuola è data, per esempio, dalla scelta, da parte del preside della Hanover High School, di vietare la visione e la diffusione del documentario di Peter e Sam diventato virale, in quanto considerato una fonte di distrazione inutile per gli studenti, ma anche e soprattutto una pericolosa minaccia per il mantenimento dello status quo. Il lavoro portato avanti dai due videomakers viene in effetti inizialmente sottovalutato dai docenti e dalla scuola, e diventa un pericolo per i dirigenti e per gli insegnanti solo a partire dal momento in cui si trasforma in un prodotto virale, poiché diventa uno strumento di denuncia, dal forte impatto mediatico, delle ineguaglianze e degli abusi di potere reiterati e insabbiati. La scuola, sia pubblica che privata, viene mostrata, poco a poco, come un luogo di marginalizzazione sociale e di stigmatizzazione della diversità, in cui l’identità dei giovani, di per sé incerta e fluttuante, viene rigidamente definita dallo sguardo degli altri in modo definitivo, attraverso pregiudizi e categorie totalizzanti, proprio come suggerisce il breve monologo di Sam che chiude la prima stagione della serie.
Bibliografia
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Bucaria, Chiara; Barra, Luca (2016). Taboo Comedy. Television and Controversial Humour. London: Palgrave Macmillan.
Camaiti Hostert, Anna (2017), Trump non è una fiction. La nuova America raccontata attraverso le serie televisive. Milano-Udine: Mimesis.
Cardini, Daniela (2017), Long Tv. Le serie televisive viste da vicino. Milano: Unicopli.
Eugeni, Ruggero (2015). La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni. Brescia: La Scuola.
Formenti, Cristina (2013). Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario. Milano-Udine: Mimesis.
Fox, Jesse David (2018). “How Funny Does Comedy Need to Be?”, Vulture. https://www.vulture.com/2018/09/post-comedy-how-funny-does-comedy-need-to-be.html (ultimo accesso 15-11-18)
Kilgore, Deborah (2001). “Critical and Postmodern Perspectives on Adult Learning”, New Directions for Adult and Continuing Education, 89: 53-62. https://doi.org/10.1002/ace.8
Miller, Cynthia (2012). Too bold for the box office: The Mockumentary from Big Screen to Small. Lanham: Scarecrow Press.
Mittell, Jason (2015). Complex tv. The Poetics of Contemporary Television Storytelling. New York: New York University Press.
Peacock, Steven; Jacobs, Jason (2013). Television Aesthetics and Style. New York and London: Bloomsbury.
Pescatore, Guglielmo (ed. 2018). Ecosistemi narrativi. Dal fumetto alle serie tv. Roma: Carocci.
Zecca, Federico (2012). Il cinema della convergenza. Industria, racconto, pubblico. Milano-Udine: Mimesis.
Walsh, Jill (2017). Adolescents and their Social Media Narratives: a Digital Coming of Age. Abingdon and New York: Routledge.
La nuova serialità, come è noto, è definita tale rispetto alle precedenti epoche della televisione americana: la cosiddetta prima Golden Age, sviluppatasi a partire dal secondo dopoguerra fino agli anni Sessanta, e una seconda Golden Age, che inizia a emergere negli anni Ottanta per poi affermarsi in modo preponderante nei vent’anni successivi. La nuova serialità degli anni Zero, quindi, prende le mosse dai cambiamenti e dalle innovazioni emersi già a partire dagli anni Ottanta, e riguarda oggi prodotti narrativi sempre più complessi ed espansi nel tempo, la cui esperienza di fruizione è estremamente pervasiva.↩
Per le questioni relative alle distinzioni tra pubblico, utenti e spettatori della serialità si rimanda ai cap. 9 e 10 del testo di G. Pescatore (a cura di), Ecosistemi narrativi. Dal fumetto alle serie tv, Roma, Carocci, 2018.↩
A questo proposito si rinvia a diversi recenti articoli comparsi su Vulture.com, dedicati all’evoluzione della commedia sul piccolo e grande schermo e all’avvento e alle caratteristiche della cosiddetta “Post-Comedy”.↩
Neologismo che nasce, come è noto, dall’unione dei due termini anglofoni “mock”, che rimanda nello stesso tempo all’aspetto falso e parodistico, e “documentary”. ↩
Il first person shot può essere considerato come un’evoluzione della soggettiva, che Eugeni definisce una “iper-soggettiva”.↩
Cfr. Anderson, Benedict (1991). Imagined Communities, London- New York: Verso.↩