Letture se ne facevano insieme molte a quel tempo;
ma era la musica il nostro miglior diletto,
e il più amato, quello che sapeva ogni volta
far vibrare nuove corde nei nostri cuori,
e ci rivelava a vicenda
— (Tolstoj 1859: 73).
1 La Sonata di Tolstoj
È il 16 dicembre del 1890 e Sof’ja Tolstaja, tra le pagine del suo diario, annota per la prima volta il lavoro di trascrizione dell’opera La Sonata a Kreutzer. Il romanzo breve, scritto da Tolstoj nel 1889, racconta, come è noto, la storia di un amore malato e di una gelosia sfrenata che trova l’innaturale conclusione in un omicidio.
Pozdnysev, il protagonista, è su un treno in corsa nella campagna russa, in silenzio nella penombra del suo posto; è primavera da pochi giorni. Gli altri passeggeri sono impegnati in un’accesa discussione circa l’amore e il matrimonio, quando all’improvviso l’uomo si presenta come colui “al quale è accaduto […] l’episodio di aver ucciso la moglie” (Tolstoj 1891: 63). Comincia così un viaggio a ritroso tra i ricordi ancora vividi del dramma che il personaggio ha vissuto.
Sonata è un romanzo di passioni, di desideri complessi e delle difficoltà che ne derivano. Sentimenti contrastanti che in qualche maniera erano vivi nell’animo di Tolstoj e che egli ha voluto riportare nella sua opera.
Il romanzo incontra serie difficoltà a partire dalla sua prima pubblicazione. A causa dei temi trattati non fu ben visto dall’opinione pubblica: fu la moglie Sof’ja a intercedere proprio presso lo Zar, a farsi da garante, e a spingere affinché l’opera venisse pubblicata. Un’operazione, questa, non priva di crucci e ripensamenti in Tolstaja, giacché il romanzo non era stato in alcun modo di suo gradimento. Anzi, era stato per lei fonte di numerose preoccupazioni e di situazioni pubbliche sgradevoli: era difatti diffusa l’idea che il personaggio della moglie in Sonata fosse totalmente ispirato a Sof’ja. L’esito positivo presso lo Zar era stato però vissuto da parte di lei come una vittoria personale e come una rivalsa nei confronti di tutti coloro che la vedevano come una vittima (Tolstaja 2013: 120-140).1
Da molti considerato quasi un libro autobiografico, in Sonata Tolstoj propone un’analisi sulla donna, sul matrimonio e sull’arte che già aveva affrontato in opere precedenti. Invero i temi della felicità familiare, dell’atteggiamento morale nei rapporti tra uomini e donne, e poi quello della sessualità coniugale percorrono l’intera opera dello scrittore. Già attraverso La felicità domestica vengono ad esempio evidenziati i divergenti intenti che possono intercorrere all’interno di una coppia sposata – in questo romanzo dati dalla notevole differenza di età tra i due protagonisti – così come la diversità spesso inconciliabile delle aspettative. L’autore mette in discussione i modi che si hanno di vivere i sentimenti all’interno della coppia e la gelosia che può sentire un marito nei confronti della propria moglie (Tolstoj 1859: 40-93). A ben vedere in Sonata sono proprio la figura della donna e della sua temuta emancipazione a minare la posizione dell’uomo/marito. La morte della moglie arriva come unica soluzione pensata da parte del marito per fronteggiare questo affronto alla propria virilità.
Il romanzo inserisce, inoltre, il riferimento alla questione della musica – e più in generale dell’arte – come principale fonte di emozioni forti e incontenibili. La musica, tra tutte le arti, è quella che più riesce a commuovere lo scrittore russo e le tracce di questo sentire sono ravvisabili in diverse sue opere. Il primo riferimento al potere della musica appare tra le pagine di Infanzia e successivamente in Sonata. Soprattutto nel corso del secondo viene espressa “in forma estrema l’ansia di Tolstoj per il potere che ha l’arte di turbare l’uomo quando invece dovrebbe edificarlo” (Gifford 2003: 79). La musica di Beethoven, però, non appare da subito all’interno della narrazione, ma solo dalla terza redazione, e viene utilizzata come espediente per dare vita a un “attacco contro la musica” perché “l’arte è dannosa e pericolosa, quindi va controllata” (Tolstoj 1891: 21).
2 La Sonata secondo Rosaleva
Sonata a Kreutzer, diretto da Gabriella Rosaleva nel 1985,2 nasce da un desiderio di Cesare Dapino, direttore della Terza Rete Rai di Torino. Dopo aver letto l’opera di Tolstoj, individua in Rosaleva la regista maggiormente adatta alla realizzazione della pellicola. L’autrice accetta la proposta, mossa in modo particolare dall’affinità che sente con i temi trattati nel romanzo.3
Si tratta di un film per la televisione prodotto dalla RAI, in collaborazione con la Radiotelevisione della Svizzera italiana. Sonata si inserisce in quel percorso di transizione che ha attraversato la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, un periodo di convergenza e collaborazione tra cinema e televisione. In questa fase il rapporto tra un’istituzione e l’altra si è fatto più fluido e l’intervento diretto della televisione nella produzione cinematografica è tutt’altro che inconsueta (Monteleone 1992; Micciché 1998; Zagarrio 2004). La sceneggiatura, a cura di Rosaleva in collaborazione con Paola di Monreale, porta con sé il tentativo di muoversi in libertà senza però venir meno all’idea di totale rispetto nei confronti del racconto e dello scrittore russo. Il ruolo del protagonista viene affidato a Maurizio Donadoni, che collabora con la regista anche in Spartaco (1985), episodio del film collettivo che prende il titolo di Prima del futuro.4 La moglie, invece, viene interpretata da Daniela Morelli. Non è la prima volta che Morelli e Rosaleva si incontrano sul set; le due hanno infatti già lavorato insieme in numerose occasioni (Cutzu 2016a). Ed è proprio in virtù di questo sodalizio artistico che la regista sceglie di affidare un ruolo così importante proprio a Morelli, sebbene l’età dell’attrice e del personaggio femminile nato dalla penna di Tolstoj non coincidano in quanto la prima è visibilmente più adulta rispetto alla fanciulla immaginata dall’autore russo. Tra gli altri protagonisti è presente Mauro Lo Guercio, musicista e docente di violino presso il conservatorio di Milano, a cui viene affidato il ruolo di Miša Truchacevskij.5
Per quanto riguarda invece il percorso cinematografico di Rosaleva, Sonata arriva dopo un periodo già particolarmente denso di risultati. L’autrice ha mostrato il suo modo di fare cinema con una prima serie di cortometraggi, una trilogia in Super8 che ha decretato l’inizio della sua carriera; documentari per la televisione, come Egizi – Uomini del passato futuro (1984), viaggio all’interno del Museo Egizio di Torino, e La vocazione (1983), dedicato alla teologa Adriana Zarri. Ma, soprattutto, arriva dopo il grande successo di Processo a Caterina Ross (1982) (Cutzu 2016b). Sin dal suo esordio con la trilogia in Super8,6 la regista ha abituato il suo pubblico a un cinema sperimentale, ricercato, senza il timore di osare. Da un punto di vista sia formale che contenutistico, Sonata a Kreutzer ben si inserisce nell’itinerario cinematografico di Rosaleva.
Le tematiche affrontate da Tolstoj nel suo romanzo sono chiare fin da principio e la postfazione che inserisce aiuta a dissipare definitivamente ogni dubbio. La musica e l’arte, la gelosia nelle relazioni, il contrasto dei sentimenti, sono gli argomenti che vengono sviscerati e che Rosaleva sente molto vicini al suo modo di leggere il mondo.
Particolarmente interessante è il rapporto con la musica, che sembra avvicinare la regista e lo scrittore: per entrambi è un potente veicolo di emozioni e sensazioni e, di conseguenza, va utilizzata con parsimonia così da evitare un effetto negativo sull’ascoltatore. Per Tolstoj si traduce nel non riuscire a trattenere l’eccitazione che ne deriva, per Rosaleva si tratta di controllare un elemento significativo all’interno della narrazione che potrebbe sminuire o porre in secondo piano la composizione delle immagini. La regista non ha mai fatto mistero della sua attenzione per gli inserti sonori che sono, in generale nella sua produzione, sempre attenti ed equilibrati (Cutzu 2015). In Sonata la scelta è radicale, ma appare quasi scontata: l’unica musica che udiamo è quella suonata dai personaggi, dunque nessuna musica di commento ma soltanto suoni diegetici.
Un altro motivo ricorrente nel narrare della regista è quello dell’interrogatorio. Se in Processo raggiunge la sua massima espressione, in altre opere di Rosaleva è possibile ravvisare la stessa tipologia di approccio ai personaggi. Ad esempio, nel documentario La vocazione, l’autrice intervista Adriana Zarri e altre suore novizie indagando nel loro vissuto attraverso una sequela serrata di domande più o meno intime. In Viaggio a Stoccolma,7 del 2017, i personaggi dei romanzi di Grazia Deledda interpellano la loro autrice per meglio comprendere le ragioni della loro storia e dei loro percorsi. In Sonata, al posto del dialogo fra gli interlocutori, sceglie una formula per così dire di implicita interlocuzione inserendo un’intera confessione del protagonista. Il suo incessante raccontarsi, però, sembra rispondere al nostro desiderio di curiosità domandato tacitamente nel momento in cui abbiamo deciso di confrontarci con la storia.
Per Rosaleva questo è stato il primo – ma non l’ultimo – film tratto da un romanzo e, nell’adattarlo allo schermo, intraprende una strada già in parte sperimentata nel suo lavoro precedente, Processo a Caterina Ross.
Se in Processo sceglie di riprendere esattamente le parole della sentenza e degli atti del procedimento giudiziario, in Sonata l’intento è ugualmente quello di variare il meno possibile il testo di partenza. Il tentativo di mettere in atto una fedeltà assoluta al racconto non le impedisce comunque di restare soprattutto fedele al proprio immaginario cinematografico.
In un articolo apparso su Stampa Sera, Donata Gianeri riporta una dichiarazione della regista:
Se scelgo un testo è perché ho deciso di rispettarlo sino in fondo. Diciamo che sono fedelissima al testo, ma infedelissima all’immagine filmica. Il mio linguaggio non è certo la letteratura di Tolstoj: Tolstoj è vissuto nell’800 e scriveva, io vivo alla fine del ’900 e filmo. […] A questo punto diciamo che se in questo film il testo è quello di Tolstoj, l’immagine spetta a me, è mia. (Gianeri 1985: 26)
Un approccio chiaro e sicuro che svela la necessità di Rosaleva di trovare un equilibrio tra l’immaginario di Tolstoj e la sua estetica cinematografica. Un atteggiamento che già altri registi prima di lei hanno adottato durante il confronto con grandi scrittori. Basti ricordare, tra i numerosi esempi possibili, Robert Bresson, autore che in altre occasioni ha ispirato Gabriella Rosaleva, e la sua realizzazione di Il diario di un curato di campagna (Journal d’un curé de campagne, 1951), nel quale sceglie di seguire il romanzo di partenza pagina per pagina, senza saccheggiarlo (Bazin 1973: 120) e senza utilizzarlo strumentalmente.
Tolte le differenze facilmente riscontrabili tra un testo letterario e un’opera cinematografica dovute al passaggio da un medium all’altro (Manzoli 2003; Hutcheon 2006; Zecca 2013), la questione della fedeltà, in questo caso specifico, coincide con il tentativo di ricostruire l’universo letterario ricorrendo il più possibile alle stesse parole di Tolstoj.
L’operazione intentata dall’autrice però si è presentata di difficile realizzazione e l’analisi di seguito proposta tenta di illustrare i punti di maggior contatto ma anche le diverse e significative discrepanze tra le due opere.
3 Dentro il film
Dopo i titoli di testa, composti da semplici scritte nere su un fondo bianco, il film si apre nella sala d’attesa di una stazione dove sono presenti cinque persone; un uomo e l’unica donna discutono fra loro del ruolo dei coniugi all’interno del matrimonio, dei sentimenti e del tradimento. Nel corso della conversazione intervengono anche gli altri due viaggiatori; solo un uomo rimane in silenzio, in disparte. La donna e due degli uomini, poco dopo, lasciano la sala. Rimangono così solo in due. A quel punto, il più taciturno si presenta e lo fa con le stesse parole di Tolstoj “Sono Vasja Pozdnysev, l’uomo che ha ucciso la moglie”. Da questo momento, Pozdnysev comincia a raccontare la sua storia allo sconosciuto, ammettendo di avere una forte esigenza di parlare. Parte da lontano, dai ricordi della giovinezza, fino ad arrivare al matrimonio e al viaggio di nozze. A questo punto chiede al suo interlocutore la cortesia di poter abbassare la luce; mentre si avvicina alla lampada, il gesto dà il via a un flashback: vediamo Pozdnysev e sua moglie molto vicini e intimi, nel tentativo di un approccio sessuale animalesco e quasi violento. Il racconto dell’uomo prosegue, si sofferma sulle difficoltà che il matrimonio ha portato con sé, sul cambiamento della moglie, sull’arrivo dei figli.
La sequenza iniziale, se non per la brevissima interruzione del flashback, appare piuttosto lunga rispetto alle altre sequenze del film – circa venti minuti – ma risulta necessaria per costruire le basi del racconto e per dare una prima dimostrazione della variazione dei tempi che la regista ha messo in atto.
Le prime pagine del romanzo vengono ampiamente riportate all’interno del film; gli unici cambiamenti sono necessari a favorire l’incontro tra i vari personaggi sulla scena. Ne è un esempio la scelta di cambiare l’ambientazione: il romanzo di Tolstoj, infatti, si svolge interamente all’interno della carrozza di un treno in corsa. Il racconto di Pozdnysev scorre con la stessa irrefrenabile determinazione del mezzo, “avanza incessantemente, come un treno a ‘cremagliera’” (Truffaut 1977: 62). Le pause sono sporadiche e brevi, non c’è tempo per le interruzioni. L’unico interesse del protagonista è quello di raccontarsi a uno sconosciuto incontrato per caso. In questa prospettiva, il romanzo non è altro che la confessione di una colpa, la condivisione del senso di disprezzo verso se stesso e verso chi non lo ha giudicato colpevole di omicidio. In Rosaleva, però, il treno non appare: il vagone è sostituito dalla sala d’attesa di una stazione. Questa scelta, legata a questioni prettamente produttive,8 toglie al film quella coincidenza tra luogo e storia narrata, annullando il senso di un destino ineluttabilmente tracciato.
Le parole di Vasja scorrono incessanti dalla sua entrata in scena. Dopo la breve e incisiva presentazione, il racconto subisce una prima condensazione: in Tolstoj possiamo trovare dettagliate descrizioni della futura moglie, della fase del corteggiamento e del fidanzamento mentre nel film si arriva direttamente al racconto del matrimonio.
In questo senso, il brevissimo flashback intermedio ha il compito di sottolineare e rendere per immagini il discorso sulla carnalità dei rapporti e il disgusto verso il “vizio” che sente Pozdnysev. “Ero un tremendo porco e immaginavo di essere un angelo” (Tolstoj 1891: 99) sono le parole che pronuncia poco prima.
In questi primi venti minuti di pellicola, Rosaleva mette in scena quasi metà del romanzo. Ciò lascia presagire una possibile dilatazione nel raccontare altri episodi ritenuti evidentemente più significativi dalla regista.
Nei successivi otto minuti circa, Rosaleva ricostruisce due episodi – di sua invenzione – immaginati in fase di adattamento. Sono scene di vita coniugale che hanno il compito di riassumere ciò che nel libro viene ampiamente spiegato. Nel corso del primo episodio Lisa è seduta su una poltrona, mentre legge un romanzo di Guy De Maupassant; il marito si avvicina lentamente, le accarezza le spalle, chiacchierano della notte appena trascorsa. Il dialogo tra i due non è chiaro, alludono a qualche incomprensione che intercorre tra loro e che sta logorando Lisa. Il suo malessere si chiarisce quando comincia a elencare i suoi desideri: “ho bisogno di allegria, di chiacchiere vuote. Ho bisogno di piacere, voglio che si dica che sono ancora bella […] non voglio che si dica di me che sono sempre malata. […] Mi è tornato il desiderio di suonare di nuovo”. La risposta di Pozdnysev a questi desideri è un tentativo di mettere un freno alle passioni, paragonandole alla lussuria e alla carnalità dei sentimenti. Nel secondo episodio, invece, vediamo Pozdnysev risalire una scalinata di marmo dove incrocia Lisa insieme ai bambini; stanno uscendo per una passeggiata, lei indossa un bellissimo cappotto e ha il viso truccato: questa cura per l’aspetto esteriore viene letta dal marito come uno spiccato desiderio di apparire, di piacere ad altri uomini, di assecondare quelle pulsioni carnali che si era prodigato a condannare nella scena precedente.
Nonostante le differenze messe in evidenza fin qui, i due racconti procedono di pari passo. A questo punto, incontriamo finalmente il violinista, ovvero il terzo protagonista della vicenda. Miša Truchacevskij fa il suo ingresso nella casa di Pozdnysev e i due chiacchierano amabilmente. Parlano del loro presente e ricordano con nostalgia il passato: Lisa entra in scena, si presenta al musicista e scambiano qualche parola. Miša sta per andarsene ma Vasja lo invita a cena. Marito e moglie sono eccitati dall’arrivo di una nuova figura nella loro quotidianità. Questa sequenza, all’interno del romanzo, occupa poco più di una pagina di testo, mentre nel film occupa ben dieci minuti. Una differenza molto marcata, ma giustificata da una serie di scelte che Rosaleva mette in atto per compiere la sua trasposizione in bilico fra fedeltà assoluta e assoluta libertà. Per la pellicola è un primo punto di svolta della narrazione.
Tra le aggiunte macroscopiche presenti in questa sequenza spicca innanzitutto il rapporto tra Pozdnysev e il violinista. Nel romanzo il musicista viene presentato con un certo fastidio,9 difatti il protagonista è irrequieto mentre ne parla; nella pellicola, invece, nel descriverlo mantiene sempre una certa calma: non si scompone e, al contrario, è molto deciso, tanto da sporgersi in avanti, emergere dall’ombra e guardare negli occhi l’altro viaggiatore che continua ad ascoltarlo in religioso silenzio.
L’atteggiamento spavaldo del personaggio emerge quando il violinista entra per la prima volta in scena. Nel momento in cui si incontrano, Rosaleva ci lascia intuire che i due si conoscevano da tempo e li riprende mentre conversano a lungo davanti al camino. “Che piacere vederti dopo tanto tempo!” sono le parole che pronuncia Miša al suo arrivo a casa di Vasja. Si abbracciano, sorridono, ricordano il tempo passato e nominano alcune conoscenze comuni; si percepisce un leggero imbarazzo tra loro. Tutti aspetti che nel romanzo, al contrario, non appaiono.
La vera invenzione di Rosaleva, però, arriva poco dopo, quanto i due uomini si spostano al pianoforte posto nella sala. A questo punto Miša suona, Vasja lo osserva, cominciano a declamare una poesia, pronunciando un verso a testa:
La vodka versata
la coppa spezzata
la pioggia venuta
la notte perduta
la neve caduta
l’angelo smarrito
smarrito
nel mio cuore
incantato
nel mio cuore truccato
col rosso belletto del primo balletto
l’orchestra ha suonato
l’angelo è caduto
innamorato.10
Si sorridono spesso, si scambiano sguardi complici. Poi d’improvviso entra Lisa: la musica cessa, i due uomini la osservano. Ora sono tutti e tre sulla scena, Vasja presenta Lisa a Miša, chiacchierano un po’. Più tardi il violinista lascia i due coniugi con la promessa di tornare da loro con nuovi spartiti musicali per piano e violino. Lisa e Vasja rimangono soli ora, sono felici e complici, ridacchiano. Vasja le parla della sua idea della musica, della forza che porta con sé, della sua capacità di conturbare gli animi. La sequenza si chiude con uno scambio nel quale Rosaleva sceglie di affidarsi non alle parole di Tolstoj romanziere, ma al diario personale dello scrittore:
Puttaniere non è una parola offensiva, è uno stato (lo stesso si può dire per la donna), uno stato d’inquietudine, di curiosità e di bisogno di novità, soddisfatto dall'unione per il piacere non con una ma con molte. Come l’alcoolismo. Si può astenersi, ma l’alcoolizzato resta alcoolizzato, il puttaniere puttaniere: al primo venir meno del controllo, ricade. Io sono un puttaniere. (Tolstoj 1980: 313)
Questa sequenza si presenta carica di spunti rilevanti. La lettura comparata di Sonata, dei diari di Tolstoj e di quelli di Sofja Tolstaja durante la scrittura del film e lo studio che lo ha preceduto emerge quale linea guida per la stesura della sceneggiatura e dei dialoghi in essa contenuti. Discutendo con Rosaleva (Cutzu 2015) delle scelte operate in quel contesto, l’autrice ha sottolineato quanto le interessasse il riferimento alla possibilità che Tolstoj fosse omosessuale. La regista pensava ad alcuni passaggi dei diari, come quello in cui lo scrittore russo il 29 novembre scrive:
Non sono mai stato innamorato di donne. […] Di uomini mi sono innamorato molto spesso: il primo amore furono i due Puškin, il secondo Saburov; il terzo, Zybin e Djakov; il quarto Obolenskij, Blosfeld, Islavin; poi Gotier e molti altri. Di tutti questi uomini ho seguitato a amare solamente Djakov. […] Io mi sono innamorato di uomini prima di aver conoscenza della possibilità della pederastia; ma anche conoscendola, non mi è mai venuto in mente il pensiero della possibilità di una relazione. L’esempio più strano di una simpatia in qualche modo insolita è Gotier. Con lui non c’è stato assolutamente alcun rapporto, oltre che per l'acquisto di libri. Sentivo una vampa di calore quando lui entrava nella stanza (Tolstoj 1980: 52)
Si tratta di un elemento che ha segnato profondamente l’immaginario di Rosaleva, tanto da condurla a considerare l’omicidio contenuto in Sonata come un gesto di rabbia e gelosia nei confronti non tanto della moglie quanto del violinista. Posizione, questa, molto simile a quella espressa da Doris Lessing che sottolinea nell’introduzione ai diari di Sofja Tolstaja: “una volta Tolstoj disse di essersi innamorato più degli uomini che delle donne. La Sonata a Kreutzer […] mi sembra una classica descrizione dell’omosessualità maschile” (Tolstaja 2013: 7).
Rosaleva, lasciatasi fortemente ispirare dalla possibilità che Pozdnysev in realtà fosse innamorato del violinista, inserisce altri velati riferimenti a questa passione fantasma in alcune sequenze successive.
Penso ad esempio a quando Miša, come promesso, torna a casa dei coniugi con nuove partiture musicali. Lui suona il violino mentre Lisa lo accompagna al pianoforte; Vasja è sempre sulla scena, tra loro, che li ascolta e li osserva. Una volta terminato il duetto, Lisa lascia la stanza e i due uomini rimangono soli, uno di fronte all’altro. Mentre dialogano, Miša pulisce l’archetto del violino con un fazzoletto, Vasja glielo prende dalle mani, lo annusa con delicatezza e poi glielo restituisce. La sequenza si chiude dunque con pochi gesti, semplici, che arrivano in un momento in cui noi spettatori dovremmo sentire una forte intesa tra il violinista e la moglie. Ci troviamo, invece, smarriti davanti al delicato imbarazzo che pervade i due uomini, come se loro condividessero e fossero legati da un segreto che a noi non è dato conoscere ma solo intuire.
La pellicola prosegue tenendo il passo del romanzo, ma è necessario fare una precisazione: questa fase della storia, in cui i tre protagonisti iniziano a tessere una rete di conoscenza e ambiguità, in Tolstoj trova spazio all’interno di uno stesso capitolo composto da poche pagine. Rosaleva, invece, opta per una fortissima dilatazione del racconto e impiega quasi un terzo dell’intera durata del film per concederci la possibilità di soffermarci su dettagli che lei ritiene importanti e che fanno chiaramente riferimento all’ambiguità del groviglio relazionale fra i due uomini: dettagli che affondano evidentemente le radici nello studio preparatorio, in particolare nei testi diaristici.
Il momento più pregnante dell’intera vicenda è finalmente alle porte, il punto di rottura della narrazione è infatti ravvisabile nel concerto. La scena si apre con Pozdnysev che accoglie gli invitati, e l’unica persona con cui lo vediamo scambiare due parole è il violinista. Dopo il suo arrivo, la macchina da presa si sposta nella sala dove si terrà il concerto. Fra il pubblico, in prima fila, è seduto un uomo con una folta barba bianca: è Tolstoj. A confermare l’omaggio della regista allo scrittore è il gesto che compie Pozdnysev: si inchina al suo cospetto, gli stringe la mano e pronuncia le seguenti parole: "Grande romanzo". L’ultima a entrare in sala è proprio Lisa e a questo punto il concerto può finalmente avere inizio: le note della Sonata a Kreutzer di Beethoven risuonano ora nella stanza. La macchina da presa si aggira tra i presenti alternando lunghi primi piani di Lisa, Miša e Vasja che enfatizzano i loro sguardi. Di quest’ultimo ci restituisce peraltro un primissimo piano dal quale traspare il suo godimento nell’ascoltare la musica. Così, turbato, l’uomo lascia la stanza e, mentre il concerto prosegue, si rinfresca il viso come se dovesse calmare i sensi dopo essersi lasciato trasportare dal piacere. Vasja rientra in sala e il concerto poco dopo si conclude: tutti applaudono, l’unico che rimane impassibile è proprio lui. Successivamente gli invitati si dirigono verso l’uscita; quando il padrone di casa congeda Miša gli dice che avrebbe piacere di organizzare un’altra serata così bella e che di lì a poco sarebbe dovuto partire.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a diversi riferimenti e contenuti generati dall’approccio della regista che, nel rivendicare una pedissequa fedeltà alla lettera, trova ampi spazi di autonomia. Se da una parte Pozdnysev deve aver colto un’intesa tra la moglie e il violinista, dall’altra tutta la sequenza è percorsa da una sottesa ambiguità che lega i due uomini, confermando e intensificando quella più esplicita emersa durante le sequenze descritte sopra. La scena segna inoltre un evidente punto di rottura in quanto, per la prima volta, notiamo emergere in Pozdnysev il desiderio di porre fine alla sintonia che lega la donna al musicista.
Durante il concerto due elementi spiccano su tutti; per primo il gesto di Vasja di lasciare la sala, ormai in preda a pulsioni percepite come negative, e dirigersi verso il bagno per rinfrescarsi il volto. Un atto semplice ma denso di significati e stratificazioni: il Vasja del film ha la necessità di raffreddare quell’agitazione interiore che il Vasja del romanzo esprime con parole che tradiscono un’esaltazione febbrile e che rimandano a quel disprezzo che lo stesso scrittore russo prova nei confronti dell’arte:
È una cosa spaventosa quella sonata. […] E in generale è una cosa spaventosa la musica. Ma che roba è? Io non riesco a capire. Cos’è la musica? E perché fa l’effetto che fa? Dicono che la musica costituisca una forma di elevazione dell’anima: è assurdo, falso! Agisce, agisce terribilmente; lo dico per quanto mi riguarda, ma non certo come elevazione dell’anima! Agisce non come forma di elevazione o di svilimento, ma come forma di eccitazione dell’anima. La musica mi costringe a dimenticare me stesso, la mia situazione reale, mi trasporta in un’altra situazione che non è la mia: sotto l’effetto della musica mi sembra di sentire ciò che propriamente non sento, di comprendere ciò che non comprendo, mi sembra di potere ciò che non posso. (Tolstoj 1891: 199)
Il secondo elemento significativo è la presenza di Tolstoj nella diegesi, una scelta registica che sembra creare un corto circuito proprio rispetto al discorso sull’arte. Inserire lo scrittore come personaggio secondario del suo stesso romanzo – o meglio come figura fantasmatica – appare più come elemento metaletterario e metacinematografico che come mero omaggio da parte di Rosaleva. Tolstoj, l’autore vero che si vede ringraziato per la sua opera, diviene elemento stesso della storia; una storia che, agli occhi della regista e di molti altri lettori nel corso del tempo, risuona di forti tensioni autobiografiche. Lo scrittore diviene spettatore della sua arte e, su un altro livello, spettatore di se stesso. Ancora più interessante si mostra la scelta di inserire questo scambio proprio durante la scena dell’esecuzione musicale: Tolstoj si trova 'costretto' ad ammirare dal vivo un concerto, un’espressione artistica da lui spesso criticata, e quindi è, volente o meno, in balia di quei sentimenti che poi riscontreremo in Vasja. Inoltre, ultimo elemento ma non per questo meno rilevante, la Sonata di Beethoven – e nello specifico la melodia del violino – viene eseguita da un vero musicista, quindi viene meno la finzione data dall’interpretazione dell’attore e il concerto è reso ancor più reale e conturbante.
Il ventiquattresimo capitolo del romanzo comincia con il racconto del viaggio che Pozdnysev aveva preannunciato di dover affrontare e si sofferma su una lettera ricevuta dal protagonista durante il terzo giorno trascorso lontano da casa. Rosaleva sceglie di mettere in scena il viaggio sfruttando e ampliando il particolare della lettera: la sequenza è breve, sentiamo la voce di Lisa che legge la missiva da lei scritta mentre sullo schermo scorrono inquadrature di paesaggi innevati. Si tratta di un immaginario evocativo per la regista, che troverà riscontro, molti anni più tardi, in Viaggio a Stoccolma (Cutzu 2016b).
Le parole contenute nella missiva innescano in Pozdnysev la convinzione che la moglie lo abbia certamente tradito: “Forse tutto era accaduto”, afferma il protagonista. Forse è proprio qui che si originano i pensieri che successivamente condurranno Pozdnysev a compiere l’omicidio. Tra le pagine del romanzo sentiamo la rabbia crescere durante il tragitto di rientro, il pensiero del tradimento diventa sempre più greve e invadente con l’avvicinarsi alla meta. Rosaleva sceglie, però, di non mettere in scena queste pagine, segnate da un’enfasi febbrile e da un ritmo serrato che non trovano riscontro nella pellicola. Il protagonista del film è arrabbiato ma mostra una compostezza gelida e imperturbabile. Ancora una volta, la scelta di non far apparire il treno come luogo dell’azione crea una significativa discrepanza tra i due testi. Nel romanzo, infatti, il mezzo si fa portatore di immagini e sensazioni che innescano una svolta decisiva nel corso del racconto: non si può dimenticare il mutamento profondo che investe il protagonista nel passaggio dal placido e sereno tratto percorso in carrozza allo sferragliante ed eccitante tragitto coperto col treno. Si tratta in un certo senso di un viaggio nel viaggio, di un cambiamento di velocità, di paesaggi e di visioni che risveglia e incrudelisce in Pozdnysev il desiderio di vendetta (Tolstoj 1891: 213).
La Sonata di Rosaleva, a questo punto, prosegue in modo più asciutto per poi ricongiungersi alle vicende del romanzo: Pozdnysev è tornato a casa in anticipo e si è accomodato vicino al camino. Non è sereno, sente che sotto lo stesso tetto, con la moglie, c’è qualcuno di indesiderato. Quando spalanca la porta della sala da pranzo trova Lisa e Miša seduti al tavolo. Accecato dalla rabbia, caccia di casa il violinista e successivamente colpisce a morte la moglie.
La scena è quasi silenziosa, i dialoghi sono ridotti al minimo, aleggia una strana calma. Le urla e i gesti maldestri del romanzo vengono meno. Così come scompare la sofferenza della moglie e il primo sommesso tentativo di Vasja di trovare perdono per quanto accaduto; “Ti odio!” sono le ultime parole che Tolstoj e Rosaleva lasciano pronunciare a Lisa prima di morire.
A pochi minuti dal termine della pellicola è possibile scorgere un’ultima sensibile differenza che riguarda il personaggio principale. Pozdnysev, concludendo la sua confessione, afferma: “Chi non ha provato questo dolore non può capire”. Mentre il Vasja di Tolstoj preferisce urlare quest’ultima frase per liberarsi ulteriormente la coscienza, il personaggio di Rosaleva, in linea con il carattere calmo e distaccato, le bisbiglia in maniera quasi impercettibile.
L’interlocutore, che fino a quel momento è rimasto in silenzio ad ascoltare, ora si alza, prende i suoi bagagli e, seguitando a tacere, tocca la spalla di Pozdnysev e se ne va.
4 Conclusioni
La descrizione di queste particolari sequenze intende dimostrare quanto il concetto di “fedeltà” inteso dalla regista si dispieghi in una zona ibrida e contraddittoria, dove vicinanza e distanza dal romanzo di partenza divengono reciprocamente abissali. Numerosi e significativi sono i cambiamenti che Rosaleva ha apportato pur mantenendo salda l’intenzione di non tradire l’immaginario di Tolstoj e, al contempo, rimanendo fedele a se stessa e alla propria idea di cinema. Questa sorta di “fedeltà a doppio fondo” è stata messa in risalto fin dalle prime critiche al film, come testimonia un articolo apparso su La Repubblica il 17 agosto 1985, in occasione della presentazione al Festival di Locarno:
Il film rimane letteralmente fedele al testo solo nella parte iniziale, nella sala d’aspetto, e ne ricostruisce il nucleo narrativo in forma drammatica e dialogata e su un altro livello di fedeltà, ricorrendo cioè ai diari di Tolstoi e della moglie per sottolineare il carattere ampiamente autobiografico del racconto. (Farassino 1985: 15)
Queste poche frasi sottolineano un aspetto importante del lavoro che Rosaleva ha svolto in fase di adattamento: nel tentare di rimanere il più fedele possibile non tanto al romanzo ma soprattutto al sentire di Tolstoj, si è misurata con la lettura congiunta dei diari personali sia dell’autore sia di sua moglie. La scelta di prendere in esame tre testi differenti per la stesura della sceneggiatura è probabilmente dovuta al fatto che, per lungo tempo, come si è già accennato, il romanzo è stato considerato autobiografico. I diari dei coniugi Tolstoj, in parte, sembrano avvalorare questa tesi in quanto, spesso, riportano episodi analoghi a quelli descritti tra le pagine di Sonata. Questo approccio ha permesso alla regista di trovare una nuova chiave di lettura della storia, consentendole a tratti, pur nella perfetta adesione al romanzo di partenza, di approssimarsi alla vita dell’autore.
L’accuratezza con cui ha svolto il lavoro di studio preparatorio e la successiva resa per immagini inseriscono la pellicola all’interno di un discorso soggettivo molto più ampio. La struttura di Sonata, infatti, richiama su più fronti, come già evidenziato, Processo a Caterina Ross: anche qui ci troviamo a interrogare il protagonista del film, senza vedere, quasi mai, il volto di colui che pone le domande e incita allo svelamento dei torbidi gesti compiuti. Lo stesso indagare sulla vita privata di Tolstoj – ammesso che i diari personali riportino davvero episodi della sua vita e non siano anch’essi frutto della sua fantasia di scrittore – rappresenta in realtà il desiderio di interrogarlo. In altri termini, ben oltre la necessità di uno studio e di un preliminare avvicinamento all’opera da trasporre, ciò che Rosaleva davvero ci offre è un’indagine sullo scrittore attraverso la sua arte, ed è la pellicola a restituirne le conclusioni. A noi resta l’arduo compito di capire da che parte schierarci, di leggere il film utilizzando le diverse chiavi di lettura che ci vengono concesse.
Gli elementi tratti da quella che dovrebbe essere la realtà ci propongono quindi una determinata lettura sia del testo filmico sia del romanzo di Tolstoj; essi vengono filtrati dallo sguardo della regista che ce li restituisce attraverso le parole, i gesti e un uso preciso della macchina da presa.
Bibliografia
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Cutzu, Luisa (2015). Gabriella Rosaleva, regista del passato futuro. Tesi di laurea. Sassari: Università degli Studi di Sassari.
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Farassino, Alberto (17 Agosto 1985). “Storia incestuosa sulle Alpi della Svizzera”. In La Repubblica.
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Tolstoj, Lev (1980 [1928-58]). I diari. Milano: Longanesi & C.
Tolstaja, Sof’ja (2013 [1978]). I diari. 1862 – 1910. Milano: Baldini & Castoldi.
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Dal gennaio del 1891, fino al 3 giugno, Sof’ja annota le sensazioni e i disagi legati al racconto. In data 15 maggio, quando Sonata riceve il permesso di venire pubblicato, esprime tutta la sua gioia per essere riuscita a ottenere con lo zar “quello che nessun altro avrebbe potuto ottenere” (Tolstaja 2013: 137).↩
In Italia, ad oggi, si contano, oltre al film di Rosaleva, altre due trasposizioni di Sonata a Kreutzer. La prima, del 1948, è Amanti senza amore, diretta da Gianni Franciolini e liberamente ispirata al testo di Tolstoj. Non ha ricevuto una buona accoglienza né da parte del pubblico né da parte della critica, nonostante la presenza di importanti firme tra gli sceneggiatori e di attori molto popolari come Clara Calamai e Roldano Lupi. Il secondo film, Quale amore, per la regia di Maurizio Sciarra, viene realizzato nel 2006 e interpretato da Giorgio Pasotti e Vanessa Incontrada.↩
Queste informazioni così puntuali, arrivano direttamente dalla regista e sono emerse durante le numerose interviste sul film – e più in generale sul suo lavoro – che mi ha concesso durante la stesura della tesi di laurea. Per questo, mi permetto di rimandare al mio lavoro (Cutzu, 2015).↩
Gli altri due episodi che compongono la trilogia sono Seneca, diretto da Ettore Pasculli, e Caligola, diretto da Fabrizio Caleffi.↩
La scelta di utilizzare un vero violinista anziché un attore, viene chiarita durante un’intervista fatta a Cesare Dapino e apparsa su Stampa Sera in occasione dell’uscita del film: “Il problema era di trovare uno che sapesse interpretare bene La Sonata a Kreutzer – dice Cesare Dapino – tenendo conto che non potevamo aspirare ad Accardo o a Ughi, e inoltre che doveva essere fisicamente adatto alla parte. Da precedenti esperienze abbiamo imparato che un attore che finge di suonare il violino, mentre mandi la registrazione di un altro, è deprimente. Meglio un bravo violinista che non sappia recitare: tanto, viene doppiato” (Gianeri 1985: 26). Il doppiaggio di Mauro Lo Guercio è a cura di Danilo de Girolamo.↩
La trilogia in Super8 è composta da Cornelia, L’isola Virginia e La borsetta scarlatta. Questi lavori vengono visti da Adriano Aprà che, colpito, invita la cineasta al festival di Salsomaggiore durante l'edizione del 1982, il Salso Film & TV Festival. La proiezione della trilogia sancisce, in un certo senso, l’avvio della carriera di Rosaleva.↩
Viaggio a Stoccolma è stato diretto da Gabriella Rosaleva nel 2017, prodotto dall’Università di Sassari in collaborazione con la Regione Autonoma della Sardegna. Per un’analisi più approfondita sulla genesi del film si rimanda a Cutzu 2016b.↩
Il film è stato interamente girato a Palazzo Barolo a Torino.↩
“‘Sì, signore, comparve quell'uomo’. Si confuse e fece udire un paio di volte col naso quel suo particolare suono. Vedevo che per lui era una tortura nominare quell'uomo, ricordarlo, parlarne. Ma si fece forza e, come travolgendo l'ostacolo che lo impacciava, continuò deciso: ‘Era uno spregevole individuo; per lo meno ai miei occhi, secondo il mio apprezzamento. E non perché in seguito abbia acquistato importanza nella mia vita, ma perché effettivamente lo era’” (Tolstoj 1891: 163).↩
La poesia è frutto della fantasia di Gabriella Rosaleva.↩