“Siamo la generazione del Piano B. Lavorare in questo paese è così deprimente che quando allo schifo per il tuo lavoro si aggiunge quello per la città, inizi a elaborare il tuo Piano B. A vent’anni era il chiringuito sulla spiaggia. A quaranta quasi sempre è un agriturismo”.
L’enunciazione di tipo collettivo pronunciata da Diego in Noi e la Giulia rimanda in prima battuta a un assunto generazionale, delineando un profilo sociologico: quello di giovani adulti che, arrivati (già arrivati) a un punto morto della propria esistenza, sentono l’esigenza di un nuovo inizio. Condizione ossimorica e paradossale, quasi tragica: si è da poco entrati nella vita adulta e già si intona this is the end.
Non si tratta però ‘solo’ di ricominciare: si tratta, più profondamente, di agire, di far valere le proprie capacità di incidere sul mondo e soprattutto di agire in condizioni di insicurezza: già una volta, già prima, infatti, si è agito, ed è andata male. Ed è qui che il cinema, nell’epoca della sua ridefinizione (Casetti 2015), è chiamato in causa, più di altre forme di comunicazione: l’arte per antonomasia dell’azione e del movimento è sollecitata in prima battuta a confrontarsi con un universo di soggetti che decidono, più o meno forzatamente, di agire. La questione di fondo riguarda quindi non solo rappresentare determinate questioni (in sé certamente non irrilevanti: per esempio il fatto che la necessità di nuovo inizio sia legata ai risultati deficitari dell’esperienza lavorativa) ma raccogliere una sfida: raccontare l’azione nell’epoca della difficoltà/impossibilità dell’azione (infatti un’azione considerata come Piano B indica già una sua problematicità, la sua natura estrema, una provenienza fallimentare). Inoltre, la contemporaneità è il tempo della realtà divorata dall’immaginario, della paralisi dell’agency risucchiata dalle promesse e dai desideri della spettacolarizzazione e dell’infinito intrattenimento: assolutamente paradigmatica la vicenda di Luciano, il pescivendolo di Reality, che dismette la sua vita per inseguire un’ipotetica partecipazione al Grande Fratello: Luciano cade in una totale e patologica sindrome di ipnosi, in un incantamento videocratico e in un’esistenza derealizzata. Non è un caso che uno dei film più celebrati di questi anni, La grande bellezza, abbia come protagonista un ormai maturo flaneur, Jep Gambardella, un vero campione dell’inazione dedito a una vita piacevolmente inconcludente ed elegantemente vuota (Caliandro 2014). I personaggi del film di Sorrentino vivono “nel vuoto di lavoro, nell’assenza di un fare utile, di uno scopo da coronare, di un traguardo da raggiungere” (Villa 2014: 373). La grande bellezza mette in scena una vita che è diventata una serie di rituali, un catalogo di situazioni imbalsamate: il funerale di Andrea, nonché la scelta del vestito per il funerale e il prontuario delle frasi di circostanza; la seduta dal chirurgo plastico; le feste e le performances artistiche: la vita diviene rito e l’agency si blocca, anzi non può mai decollare, soffocata da esistenze vuote e tutt’al più adatte a presenziare a situazioni di pura natura formale.
L’enunciazione collettiva prima richiamata assume allora un valore di indicazione cinematografica: essere la generazione Piano B vuol dire che esiste un’area significativa del cinema contemporaneo che si confronta con la sfida rappresentata dall’azione – nell’epoca della sua potenziale scomparsa – sia come necessità esistenziale sia come risorsa, ‘rischio’ narratologico. Un film come The Place sembra tematizzare questo aspetto: anche nello spazio minimo del tavolino del bar si tratta di decidere se e come agire (e di conseguenza, a voler adottare una lente metacinematografica, quale film fare: i personaggi sono potenzialmente generi).
Conviene a questo proposito notare come il concetto di agency presenti una doppia articolazione: da un lato richiama l’orizzonte propriamente detto all’aspetto pragmatico dell’intenzionalità umana, dall’altro indica invece un’azione puramente pensata e declinata come progetto e intenzione desiderativa. La dicotomia appare particolarmente proficua nel perimetro della narrazione filmica perché in entrambe le varianti – fattiva o immaginaria – rilancia da un lato l’orizzonte operativo dei personaggi e dall’altro la stessa intensità della diegesi cinematografica.
Si può quindi riconvertire sulle specificità proprie del cinema un complesso dibattito filosofico che ha attraversato tutto il Novecento è ad oggi al centro degli studi. Forse non casualmente si può notare uno sviluppo della riflessione che va dall’idea di agency-azione all’idea di agency-desiderio. Sul primo versante, Hannah Arendt ha concepito l’azione come natalità, come concretizzazione attraverso l’impegno attivo della capacità di produrre il nuovo, che definisce l’uomo stesso (Arendt 1994). La metafora della natalità sostiene l’idea dell’azione come nascita: “il cominciamento inerente alla nascita può farsi riconoscere nel mondo solo perché il nuovo venuto possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire” (Arendt 1994: 8). Si tratta di una riflessione che oggi si concentra sul concetto di agency (Balibar - Laugier 2014: 17-24). L’agency presuppone più che un’azione raggiunta, un’intenzionalità d’azione, in cui il soggetto deve tenere presente non solo la sua volontà ma una serie di fattori esterni che lo possono condizionare (Laugier 2004: 96 e passim). In tal senso l’agency sembra abbandonare l’idea di un soggetto intrinsecamente forte che si pone a monte e come garante dell’azione a vantaggio di un’idea di volontarietà nella quale il soggetto si costruisce mentre agisce all’interno di una rete di relazioni. In questa direzione si muove per esempio Judith Butler, per la quale l’agency si configura come una prestazione performativa che presuppone comunque una “assunzione di responsabilità, anche etica e politica, nei riguardi dell’azione” (Tiberi 2013: 129). Nel pensiero di Butler, l’agency “designa una concezione dell’agire come inscindibile dalle condizioni (culturali, politiche, socioeconomiche) in seno alle quali emerge, dalle quali è indotto, e dalle quali può essere supportato o ostacolato. Si tratta di un agire strutturato da ciò da cui il soggetto è agito; al contempo, costituisce una forma di agire in grado di mutare questa stessa strutturazione” (Zappino 2017: 41-42 [corsivo nostro]). Alcuni studiosi vedono nella crisi sociale e politica dell’agency, nella diminuzione della capacità di azione nel perimetro pubblico la dismissione della stessa idea di uomo: “il proprio del genere umano, il suo ìdìon, ciò che lo caratterizza, ciò che lo determina al punto di entrare nella sua definizione, è la possibilità di realizzare e trascendere sé stesso nella prassi” (Giglioli 2015: 4). Le società attuali sono caratterizzate da un tendenziale incremento dell’anomia e da una crescente precarizzazione dell’esistenza (Giglioli 2015: 63-64). Anche recenti analisi delle strutture semiotiche del cinema contemporaneo e delle serie tv hanno sottolineato proprio una mancanza di compiutezza dei destini rappresentati (Di Chio 2011: 218-219): tale fragilità epistemologica si riverbera in costruzioni narrative direzionate non verso un futuro da costruire bensì verso il passato che renda conto e spieghi la storia pregressa di un personaggio: un meccanismo “che ben si sposa con l’indebolimento del ruolo trasformativo dell’azione: l’eroe non deve davvero cambiare se stesso e il mondo, ma solo scoprire la sua vocazione, rispondere alla chiamata, rivelare a sé e agli altri quello che è sempre stato” (Di Chio 2011: 212 [corsivo nostro]).
Ma agency vuol dire anche operatività espropriata, a vantaggio di una sua riconversione nei regimi della pura virtualità (il caso sopra menzionato di Reality). Molto utili in proposito queste considerazioni:
Chi agisce? Sempre più diffusa è l’impressione che ad agire siano i sistemi, o che i singoli siano “agiti” dai sistemi: che l’azione non stia (più?) propriamente in capo agli individui, né ad organizzazioni di media grandezza. Saremmo dunque un’epoca espropriata di azione? Possiamo dire propriamente di agire, quando saliamo o scendiamo dalla metropolitana, portiamo i bimbi all’asilo, ci rechiamo al lavoro, andiamo via per il week end? O questa azione dipende piuttosto dai sistemi coinvolti? Se ad agire sono i sistemi, non sorprende che l’azione degli individui appaia velleitaria. In particolare, l’agire cade in discredito là dove intenda superare una barriera di legittimità, che tende ormai a ripresentarsi come una barriera naturale, come se le persone appartenessero a caste gerarchicamente ordinate e incomunicanti tra loro. Ciascun teatro dell’azione appare separato dagli altri, di ordine di grandezza superiore o inferiore. È possibile agire nel proprio teatro, non in quello degli altri: che ognuno resti al proprio posto – è il discorso del Capo. Nello stesso tempo, la diffusione delle informazioni rende ciascuno capace di formarsi una propria opinione e, dunque, (potenzialmente) capace di agire su teatri differenti da quelli assegnati. Si determina così un crescente divide tra capacità di agire ed azione, tra costituzione reale e costituzione immaginaria della propria sfera di azione: la prima si comprime (se non in assoluto, perlomeno in un senso relativo), la seconda si espande. Sempre di più, l’azione diventa fantasmatica, solamente rappresentata (E. Guglielminetti, L. Regina 2016: 12).
Del pregnante discorso si sottolinea qui un dato, vale a dire il riferimento alla dimensione immaginaria dell’azione; essa certamente costituisce un deficit (la mancanza di un progetto concreto e di un obiettivo raggiunto); tuttavia, rappresenta nello stesso tempo un’occasione: le risorse ideative di una iperattività mentale e sognante innescano e rilanciano – laddove non sbocchino nella paralisi di Reality – il desiderio, almeno potenziale, di fare. Tra azione realizzata e azione sognata, tra potenza e atto, tra volontà e desiderio – con tendenziale prevaricazione dei secondi termini delle coppie concettuali o esiti fallimentari dei primi – si muove non poco cinema contemporaneo, come chiamato in causa in riferimento a un suo indicatore fondamentale, l’azione; ci si soffermerà qui su quello italiano considerato in alcune pellicole paradigmatiche centrate su un tema la cui rilevanza è data dal suo ripresentarsi costantemente, in modi e forme diverse ma che ruotano attorno proprio a tale ‘nervo scoperto’.
1 Il dispositivo avventuroso
Si farà riferimento a un dispositivo, a un palinsesto, perché il nesso tra Piano B e rilancio dell’azione riguarda non un genere codificato bensì strategie di discorso (anche se il dialogo con i generi forti della cinematografia nazionale non è perduto: Smetto quando voglio è stato letto come un aggiornamento della commedia all’italiana) (Minuz 2016: 204); tale impostazione permette inoltre di non ancorare i titoli qui analizzati a un unico registro comico, dominante ma non certo esclusivo. Si sceglie così di fare riferimento a un immaginario focalizzato sull’avventura, dispositivo narrativo che rilancia l’agency narratologica perché implica l’azzardo e il movimento, lo scontro con il caso e l’imprevisto, una condotta di vita liquida e in trasformazione. Si potrebbe anche utilizzare il concetto di cinema dell’intensità, vale a dire una narrazione cinematografica votata al dinamismo, alla trasformabilità, alla mutazione (Bertetto 2016: 441), che fa propria la teoresi del flusso e della differenza di origine deleuziana, connessa all’idea di azione come divenire (Bertetto 2016: 442-445).
Il dispositivo avventuroso in prima battuta si addice ad adulti-bambini che stentano ad approdare a una forma di maturità, esistenziale, familiare, relazionale, professionale e che necessitano di dispostivi di fuga e di sogno (non come forma di creazione ma come pratica deresponsabilizzante). Ne’ La mossa del pinguino affiora così la sindrome di Peter Pan che attanaglia l’adulto, il ‘grande’ rimasto appunto bambino; Bruno ne ha piena consapevolezza e lo rivela in un dialogo con il figlio: “Hai presente quando mamma dice che non ha un marito ma ha due figli? […] Si trattava di crescere, di diventare grande. Solo che mi sa che papà non ci vuole diventare grande”. Del resto il film presenta un personaggio che da un lato ha un disperato bisogno di lavoro, ma dall’altro è il primo a boicottare quelli che trova: non è un caso che la pesante stone – la boccia usata nel curling, che improvvidamente Bruno si porta sul posto di lavoro, un museo – gli ‘sfugga’ e distrugga una teca di vetro. Quindi non sono tanto i deficit del mercato del lavoro a essere messi qui in luce quanto il desiderio di fuga e la scelta di una vita perennemente liquida da parte del protagonista.
La gioventù diviene è del resto appannaggio anche di uomini e donne mature, se non anziane. Essere Forever young è la mission esistenziale di una serie di personaggi ormai sulla cinquantina che non desistono da costumi e stili di vita giovanilistici, in sé naturalmente non esclusivi solo dei giovani – lo sport, l’alimentazione ‘sana’, le relazioni sentimentali – ma vissuti con piglio estremo e una baldanza innaturale (e una certa dissimulata fatica). Non a caso il manager radiofonico non smaltisce del tutto la nostalgia per la relazione con la coetanea fisioterapista, fatta di dischi anni 80, tenerezza e pasta fatta in casa (immaginario a dir poco regressivo).
Il rifiuto dell’adultità si ibrida con una ipertrofia dell’immaginazione, vale a dire un’agency liquida (Bauman 2008), attratta da obiettivi sempre diversi, così libera da non ancorarsi mai a un approdo stabile. Bruno è un perenne sognatore, come lo è Claudio in Che vuoi che sia (personaggi interpretati da una significativa attorialità del presente, Edoardo Leo, la cui figura è stata recentemente analizzata in riferimento a possibili modelli) (Sollazzo 2017).
Le parole di Bruno rappresentano inoltre una conferma della problematicità, narrata con evidenza dal cinema italiano contemporaneo, del percorso di formazione del soggetto (Galimberti 2016: 174-187).1 Recenti analisi hanno peraltro sottolineato la crisi del soggetto nel cinema globale del nuovo millennio, soprattutto in relazione a disturbi della personalità (Marineo 2014: 95-101): non sarebbe del tutto implausibile vedere l’infantilismo come un disturbo della personalità simile, pur in una versione soft, a quelli mnemonico-mentali rappresentati a partire da una pellicola come Memento (nonché considerare la stessa criticità dell’agency una variante di questo paradigma).
Avventura vuol dire anche scommessa e azzardo. Una scommessa è riportare a nuovo splendore il vecchio agriturismo in Noi e la Giulia; implementare e vendere la sostanza psicotropa in Smetto quando voglio; sfidare il popolo di Internet in Che vuoi che sia; partecipare alle Olimpiadi per La mossa del pinguino. Sono scommesse perché portate avanti da non specialisti e da non professionisti: ne’ La mossa del pinguino per esempio i quattro sono totalmente sprovveduti, non conoscono le regole del curling, non hanno mai visto l’attrezzatura necessaria: si tratta quindi di una scommessa esistenziale tanto improvvisata quanto totale, che parte da zero, senza basi: la vita diventa giocarsi tutto in pochi attimi, dopo una preparazione puramente volontaristica, travolgendo le poche fondamentali sicurezze accumulate fino a quel momento come la moglie e il figlio (Bruno per affittare l’attrezzatura usa i risparmi destinati al figlio e affidatigli dalla moglie per pagare l’affitto di una nuova casa). E naturalmente è altamente simbolica la metafora del gioco, una delle prerogative identitarie dell’umanità-bambina (del resto nel finale del film si vede Bruno alle prese con una nuova sfida sportiva: il tree-climbing).
Spesso il Piano B è pressoché casuale, ‘capita’: è una variante antropologica dell’imprevisto naturale, non a caso preso come modello delle recenti epistemologie (Virilio 2002). Il futuro diviene un incidente (o una Grande Scommessa, per citare il titolo del film di Adam McKay).2 Tale dimensione aleatoria del Piano B è visibile in non poche altre pellicole. In Che vuoi che sia l’alternativa di vita nasce dalla rabbia e dalla delusione ed è concepita in modo estemporaneo da un semi-ubriaco. Anna e Claudio sono una coppia di trentenni milanesi: lei insegna, lui è un ingegnere informatico disoccupato; il loro tenore di vita prevede un budget ridotto all’osso e nessuna concessione extra. In questa situazione un figlio è una vera e propria utopia. Claudio è però un campione di ipertrofia dell’agency come immaginazione: l’ultima trovata è lanciare sul web un sito di valutazione delle prestazioni di professionisti quali idraulici o elettricisti. Il progetto dovrebbe essere finanziato da una campagna di crowdfunding: ma l’idea non decolla presso il popolo della Rete. Deluso, Claudio posta in stato di ebrezza un video in cui insulta tutti i fruitori del web accusandoli di essere interessati solo ai video porno e in cui afferma che se lo scopo della raccolta fondi fosse stato vedere lui e la compagna in un atto sessuale il crowdfunding avrebbe avuto ben altro successo. Detto fatto: la provocazione diviene realtà e in brevissimo tempo Anna e Claudio divengono stelle della Rete e icone pubblicitarie. La campagna fondi tocca rapidamente i 250.000 euro, per riscuotere i quali, però, i coniugi dovranno avere un rapporto sessuale in streaming davanti a una webcam (forse con sottile nervatura anche qui metacinematografica: Anna e Claudio devono diventare ‘attori’, spunto per un’interpretazione del film come descrizione di un’attorialità socialmente diffusa).
Tale antimodello decisionale è strettamente legato a Internet (e al sesso). La rappresentazione della Rete nel film è duplice: da un lato essa offre, tramite un solo video di pochi minuti girato per strada, la possibilità di un nuovo inizio; dall’altro chiede però di vendersi: il rifiuto finale di Anna di mostrare la propria intimità ratifica il rifiuto di questa logica, decisione alla quale la donna sacrifica pure il suo rapporto con Claudio, convinto invece ad andare fino in fondo.
Il film ha un certo quoziente di cinismo: per due laureati, tra l’altro in discipline scientifiche, quelle che potrebbero sulla carta rappresentare una ‘sicurezza’ di successo socio-economico - matematica per lei, ingegneria per lui - le potenzialità di agency sono in ultima analisi legati sostanzialmente a una ‘scopata’ (un esempio di quella riduzione dell’orizzonte d’attesa culturale generato dalle nuove tecnologie: Mantellini 2018). Non rimane allora che affidarsi alla morale iper-tradizionale di Massimo, il padre di Claudio: i figli si sono sempre fatti e cresciuti anche nelle difficoltà. E tale filosofia viene infine accettata: nel film si parla spesso di nuove tecnologie, ma a vincere è un antichissimo buon senso, che oltretutto – e non certo è un dato secondario – proviene dal Padre.
Per il soggetto, per l’adulto-bambino che si lancia nell’avventura, la soluzione ai suoi problemi può arrivare addirittura per via magica. In Noi e la Giulia non sono poche le difficoltà: ma la nuova comunità agrituristica riesce rocambolescamente a superare i problemi; altrettanto casualmente l’agriturismo ha successo: infatti la macchina – la Giulia – che i protagonisti hanno la necessità di occultare viene seppellita sottoterra ma la sua radio entra sorprendentemente in funzione assorbendo le sollecitazioni del terreno: una soluzione magica, non dettata da programma imprenditoriale, bensì fortuita. La nuova vita è comunque precaria, perché il successo è effimero (legato alle emissioni musicali della macchina seppellita) e quindi il destino di border-line sociali dei protagonisti rimane sostanzialmente invariato anche nella nuova situazione.
Riassume la fenomenologia qui delineata un film come Smetto quando voglio (2014). Alcuni aspiranti ricercatori universitari mettono in comune le loro competenze chimico-biologiche e creano una nuova droga che per un vuoto legislativo risulta legale. La molecola psicotropa è trovata dal neurobiologo Pietro specializzato in neuroscienze computazionali e dinamica molecolare (ma costretto a dare ripetizioni) e dal chimico Alberto (diventato lavapiatti), coadiuvati da altri ex-studiosi che versano nella medesima situazione. L’attività di produttori-spacciatori di stupefacenti si rivela business vincente: gli ex-ricercatori ben presto divengono dei piccoli nababbi e abbracciano sconsideratamente uno stile di vita molto dispendioso (tra l’altro senza alcun rapporto con la formazione culturale di partenza, visto che il loro immaginario di ricchezza è colonizzato dal Sistema: abiti, macchine e naturalmente donne, vale a dire escort slave). La loro ‘attività’ attira però l’attenzione della vera e propria criminalità (capeggiata da un ex ingegnere navale): il progetto certamente porta con sé ab origine, visto il tipo di sostanza commerciata, tale deriva delinquenziale, però è significativo che la nuova vita si scontri con i perimetri del malaffare, un elemento che inquina – al di là del fatto etico e legale – la concreta realizzabilità del progetto. Il Piano B presenta quindi varie problematiche: una tipologia di prodotto a rischio (e simbolicamente connotato: l’agency diviene una sorta di allucinazione), un successo non gestito, interlocutori pericolosi, senza contare che la nuova vita è tenuta nascosta ai propri partner. In fondo il titolo stesso allude a questa situazione: smettere quando si vuole indica che la strada intrapresa è precaria e momentanea, una ‘scorciatoia’, che peraltro, gestita da soggetti deficitari, finisce per prendere loro la mano. Smettere: l’agency contiene in sé paradossalmente la propria negazione. Risulta allora interessante notare come nel finale del film, l’obiettivo del protagonista sia assai ridimensionato: finito in carcere, il suo proposito è quello di rimanervi organizzando una rissa con altri detenuti. Il carcere diviene così luogo di mera sopravvivenza; si tratta della sconfitta di qualsiasi programma articolato di vita a vantaggio di una più prosaica necessità di ricavare il massimo da ciò che è capitato. Nessun futuro da costruire, quindi, ma salvare il salvabile.
La fenomenologia del Piano B evidenzia complessivamente nei casi di studio esaminati una serie di criticità che minano l’agency e trasformano la volontà in velleità: la perduta centralità di una sfera attiva e costruttiva per eccellenza, il lavoro, che diviene frustrazione o mera attività di sussistenza (se svolto) oppure approdo mancato; la preminenza del caso o di decisioni estemporanee per cui l’intenzionalità, pur presente, non sfocia in situazioni definite e durature; il concepire l’azione all’interno di un gruppo, quasi che il singolo fosse consapevole a priori della propria inadeguatezza personale; l’inettitudine dei protagonisti sia nello svolgimento della propria professione sia nell’attuazione della progettualità alternativa, di cui oltretutto non si sa gestire il successo; infine, last but not least, la pericolosa contiguità del Piano B con la deriva illegale-criminale, che rimanda a una più generale incapacità, voluta, di pensare eticamente il proprio operato. Sono situazioni iconiche al tempo dell’Adulto-Bambino e della vita come Gioco (Baricco 2018), con la sua micidiale concentrazione di occasioni e imprevisti. E tuttavia, la zona grigia tra azione e sogno consente al cinema di rilanciare la propria agency.
2 Lo Spazio
L'Avventura necessita anche di spazio e del suo correlativo oggettivo, il viaggio. Tale declinazione del dispositivo avventuroso è alla base del picaresco La pazza gioia. Le due donne protagoniste, Donatella e Beatrice, sono in qualche modo due adulte sui generis, a partire dalla marchiatura sociale di ‘pazze’; la loro però non è una pazzia biologico-neurologica, bensì l’esaurimento nervoso dovuto a forti delusioni esistenziali, che assumono in Donatella tono autodistruttivo-mortuario e in Beatrice euforico-istrionico. Queste due Thelma e Louise toscane (come alcune sequenze sottolineano chiaramente) in realtà non hanno un Piano B: la loro fuga dal centro di recupero le proietta nel mondo che le ha schiacciate e defenestrate e negli ambienti in cui si illudevano di avere un posto, l’alta borghesia per Beatrice (che di cognome fa Morandini Valdirana: sarebbe infatti contessa); la discoteca per Donatella. Per loro si tratterà di fare i conti con i loro mariti, compagni, mamme, padri variamente deficitari, assenti, inaffidabili, irresponsabili e fedifraghi, di ritornare come due revenant nei luoghi in cui si è consumato la loro espulsione sociale; del resto l’Italia della Pazza gioia è un’Italia malevola e farisaica, ipocrita, abbruttita e neanche troppo scopertamente forcaiola.
A questo si aggiunge in Donatella il tentativo di riallacciare in qualche modo il rapporto con il figlio che le è stato tolto dopo il suo tentativo di suicidio-omicidio commesso proprio con il bambino (entrambi erano stati malamente rifiutati dal compagno e padre naturale). La missione delle due donne è quindi rimettere a posto, con molta difficoltà, qualche coccio di un’esistenza distrutta, senza un’esplicita vendetta. A tutto questo Beatrice e Donatella oppongono un’opzione libertaria ma senza sbocco; progetti per il futuro, costruzione di una nuova vita, planning identitario ed economico sono quindi fuori dalla loro agenda: del resto la chiusura introversa e a tratti disperata di Donatella e la espansività estemporanea e senza filtri di Beatrice, situazioni emotive uguali e contrarie, mal si adattano a una progettualità pragmatica; le due donne peraltro non rappresentano nemmeno una coppia di fatto, elemento che poteva costituire un primo gradino di costruzione socio-esistenziale, perché la loro amicizia non ha alcuna connotazione sentimentale. Delle fenomenologie di piani B permane però anche qui un tratto ricorrente, quello della deriva delinquenziale: le due protagoniste, fuggite senza soldi, rubano appena ne hanno l’occasione, soldi e addirittura una macchina. Ancora una volta il cedimento all’azzardo, all’occasione improvvisa, alla scommessa, alla vita alla giornata che sa di ultima spiaggia. Significativo poi che Beatrice perda al gioco i quasi mille euro rubati alla mamma di Donatella: si tratta certo di un retaggio residuale della sua condizione di ‘nobile’ (lo sprezzo e lo sperpero dei soldi) ma anche di una condotta irresponsabile e assolutamente poco lungimirante e conservativa.
Al Piano B come dispositivo avventuroso, declinato come ‘scommessa’ delinquenziale e combinato con il cronotopo del viaggio possono essere riportate pellicole come La Santa e Caffè. In Caffè (2016) Renzo, poco più di vent’anni e una grande passione per il caffè, perde il lavoro come barista. Il ragazzo parte allora per Trieste dove spera di trovare lavoro; viene ospitato da un amico, Stefano, in un appartamento-comune in cui vive pure una famiglia di extracomunitari. Frequenta questo eterogeneo gruppo a convivenza allargata Enrico, uomo di mezza età che lavora come addetto alla sicurezza in un’azienda locale. Precariato, assenza di prospettive, lavori saltuari e di pura manovalanza esasperano la forte insoddisfazione che tutti i personaggi provano, siano essi italiani o extracomunitari, giovani o maturi, e che rasenta la vera e propria disperazione. Ancora una volta l’unica via d’uscita, l’unico Piano B che sembra in grado, agli occhi di questi losers, di ribaltare la situazione è quello di compiere una rapina: rubare un carico di caffè pregiatissimo. Enrico vive il furto del caffè – caffè ‘da ricchi’ – come una prosecuzione delle lotte antisistema degli anni Settanta e contagia il suo più giovane interlocutore: “Questa è la svolta nostra, hai capito, la svolta” esclama l’uomo rivolgendosi a Renzo convincendolo di fatto alla rapina. Già precedentemente Enrico aveva affermato: “La ricchezza nasce da un abuso. Se qualcuno ha più di te è perché te l’ha levato”. Ma queste nostalgie ideologiche, unico residuo di un’agency concepita anche socialmente, laddove quella presente nelle pellicole contemporanee ha soprattutto valenza soggettiva-privata, non appartiene alle nuove generazioni, vale a dire forniscono una patina ‘culturale’ a una più semplicemente brutale mancanza di futuro (il primo Piano B di Renzo, trovare lavoro a Trieste, si è del resto rivelato improduttivo). Ci si trova così di fronte al ‘colpo’ improvvisato da dilettanti semi-disperati e che fallirà, con conseguenze drammatiche: la banda viene scoperta in flagrante e in uno scontro a fuoco con i vigilantes Enrico viene ucciso e gli altri arrestati, mentre Renzo riesce a fuggire.
Un apologo amarissimo di questo discorso è La Santa (2014). Il film vede protagonisti quattro uomini (anzi due uomini e due ragazzi), quattro ‘soliti ignoti,’ per riprendere il celeberrimo titolo di Monicelli, che arrivano in un paesino pugliese per rubare la statua di una santa – santa Vittoria – da una chiesa, perché ritenuta di valore. Ancora una volta, questi ladri appaiono improvvisati e votati alla sconfitta: sia i ‘grandi’, trenta-quarantenni, già segnati dalla vita, sia i ventenni, fragili e superficiali e la cui prova iniziatica per diventare uomini, pur in questa variante criminale, fallirà tragicamente. Alcuni elementi simbolici sembrano già a priori disinnescare le potenzialità dell’agency: una volpe morta sul ciglio della strada nelle primissime inquadrature e lo stesso dialogo la sera prima del colpo sui film di zombi (esseri vivi ma in realtà morti: proprio come i componenti della banda). La vicenda esaspera le premesse infauste (il nome beffardo della santa viene tra l’altro confermato dal fatto che la sua statua è falsa): appena effettuato il colpo, il paese in brevissimo tempo si mobilita chiudendo tutte le vie d’uscita: la strada senza uscita diviene esplicita metafora di un’agency implosa che si converte in spazialità disforica. La banda, che significativamente non possiede nemmeno un Piano B per la fuga, è in trappola e gli abitanti del borgo danno loro la caccia per ammazzarli; il film proietta lo spettatore in una zona d’Italia barbara, senza legge e senza Stato, retta da un codice di vendetta atroce e ancestrale: uno ad uno i quattro verranno trucidati.
Nei film qui analizzati si vede all’opera il tentativo di modificare la propria vita secondo un progetto per molti aspetti improvvisato e affrontato in modo avventuroso. Si tratta di una sorta di wishful thinking, di un’agency che si affida all’estro e a una certa, anche pericolosa, inventiva: una risposta creativamente volontaristica a vite bloccate, un azzardo e una scommessa sul proprio futuro. Si tratta di un atteggiamento per certi versi figlio di un pensiero irrazionalistico (Bodei 2013: 159-190) che presenta a chi si trova bloccato in vite rinviate un bivio esistenziale (Bodei 2013: 188): da un lato una valutazione realistico-pessimistica della situazione che genera sfiducia e inibisce l’azione3 e dall’altro, come nei casi qui considerati, una proliferazione di utopie e sogni compensatori e maldestri, solo illusoriamente gratificanti. L’agency, pur rilanciata, diviene una pratica fantasmagorica e nichilista.
Piace allora chiudere il presente intervento con un film in cui il nuovo inizio assume i connotati di una discesa in un regno a suo modo atemporale, in cui la Storia e l’Azione sono inglobati in un perimetro chiuso e in un certo senso anestetizzate. La particolarità di In Grazia di Dio (2014) consiste infatti nel declinare il tema del Nuovo Inizio in una chiave ‘mitica’. La protagonista femminile, Adele, è proprietaria, con il fratello Vito, di una piccola azienda pugliese di capi d’abbigliamento che non riesce a fronteggiare la nuova concorrenza ed è costretta a chiudere. Si tratta di una svolta radicale: Adele, sua figlia, sua sorella e la madre vendono il loro appartamento e si trasferiscono in una masseria in campagna. Le donne intraprendono una piccola attività agricola in uno spazio abitativo-lavorativo che si configura come vero e proprio hortus conclusus; tale dimensione protetta assume i tratti di un regno del Femminile, di un regno del Sacro matriarcale in cui i traumi – lo stupro della figlia – vengono assorbiti e superati. Del resto dal perimetro maschile non arrivano soluzioni, anzi. Vito, infatti, alla ricerca disperata di soldi, accetta da Crocefisso, ex-marito nullafacente di Adele, di partecipare a un losco commercio via mare: ma l’impresa si rivela un disastro e i due uomini finiscono in carcere. Viene così ancora una volta ratificata la sterilità di un’agency che, oltre ad essere di stampo criminale, risulta improvvisata, maldestra e dannosa per i suoi stessi esecutori.
La nuova esistenza, il Piano B, si radica in una zona sacrale di rinascita; la nuova realtà è assoluta, cioè in qualche modo sciolta da rapporti con il mondo esterno, sempre minaccioso: Adele rigetta le offerte di potenziali compratori della masseria perché la nuova ubicazione si identifica con il nuovo stile di vita, perché da lì è in qualche modo ora impossibile uscire. Insomma, la salvezza esiste a patto di tenere il mondo a distanza, rispondendo alle sue offese con un incremento della forza centripeta della ‘cura’, della medicazione, con un’agency che in qualche modo implode su se stessa. Ma in questo modo dalla Storia si passa nel Mito (Villa 2014: 398) e quindi la componente bucolica del film non solo rimanda all’idea di sacralità (Villa 2014: 399) ma assume una marcata valenza difensivo-regressiva. Si configura in questa prospettiva una linea cinematografica, che trova in Lazzaro felice una delle sue ultime e più interessanti manifestazioni, che in ultima analisi defenestra l’agency, anche nella sua componente più velleitaria, a vantaggio di una ‘purezza’ che concepisce il rapporto con la realtà non più in modo dialettico ma nei termini di una Alterità assoluta.
Bibliografia
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Galimberti, Massimo (2016). Il romanzo di formazione, in Romanzo popolare. Narrazione, pubblico e storie del cinema italiano negli anni duemila, a cura di Pedro Armocida - Laura Buffoni. Venezia: Marsilio.
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Villa, Federica (2014). Fatica, in Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, a cura di R. De Gaetano, vol. I. Milano-Udine: Mimesis.
Virilio, Paul (2002[2002]). L’incidente del futuro. Milano: Cortina.
L’articolo evidenzia la presenza di una “generazione di adulti incapaci di crescere, con lo sguardo sempre rivolto indietro. Che si tratti di grandi rimpatriate tra amici (Da zero a dieci), o del gruppo di pazienti di uno psicanalista (Ma che colpa abbiamo noi, Confusi e felici), di fidanzati che non vogliono diventare mariti (Immaturi) o che temono di essere padri (Ultimo bacio, Immaturi) […] la condizione pare essere sempre la stessa. Sono film” che esprimono “un sentimento generale di inadeguatezza e la voglia continua di cambiare per non accettare la propria maturità” (Galimberti 2016: 177-178).↩
Titolo originale: The Big Short.↩
L’inibizione dell’agency è visibile in una linea cinematografica contemporanea di personaggi sprovvisti di Piano B: si pensi, solo per fare un esempio, a Sole cuore amore (2017).↩