1 Prima di Fendi Studios: la moda tra immagine in movimento e spazi museali
Fin dalle proprie origini, il mondo del cinema e dei media ha dato vita a una collaborazione indissolubile con la moda tout court, oltre che con le sue grandi firme (Munich 2011, Bartlett et al. 2013, Hancock et al. 2013). Accanto a un imperante legame tra logiche del fashion e istanze divistiche (Church Gibson 2011, Agnis 2014, Warner 2014), diverse sono le risultanti di questo connubio, che hanno concesso a entrambi i micro-cosmi di mutare e arricchirsi vicendevolmente: se da un lato il grande schermo ha infatti influenzato innumerevoli collezioni da passerella (Butchart 2016), dall’altro abiti e costumi di scena sono spesso apparsi fondamentali in particolari pellicole (Sheridan 2010, Geczy e Karaminas 2015, Laverty, 2016), come riflessi di una collettività in divenire (Tu 2009, Tolini Finamore 2013, Paulicelli 2016, Paulicelli et al. 2017) e di una individualità di genere (Bruzzi 1997, Gilligan 2016). L’unione di due realtà all’apparenza così diverse ma strettamente interconnesse ha però condotto solo in tempi recenti a nuove declinazioni che, a partire dalla rilocazione (Casetti 2008) del cinema nei musei e dal doppio sguardo (Senaldi 2008) che il primo scambia con l’arte contemporanea, hanno permesso di ripensare nella propria essenza il rapporto tra la concretezza degli abiti di alta moda e la fuggevolezza delle immagini filmiche. Forse più del circoscritto spazio della sala, gli ambienti tradizionalmente deputati all’arte si configurano pertanto quali spazi privilegiati di un nuovo modo di concepire l’immagine in movimento alla luce del suo connubio con l’universo del costume, non facendo venir meno la virtualità che gli è propria ma riscoprendone anche un’istanza tangibile e, in determinate occasioni, interattiva.
Negli ultimi anni, gli spazi museali italiani hanno più volte ragionato sul raffronto tra cinema e moda (Riegels Melchior e Svensson 2014, Marchetti e Segre Reinach 2017), dando vita in molti casi a esperienze differenti, di volta in volta legate maggiormente a uno dei due poli: se nel 2015 il MAXXI di Roma ha ad esempio proposto cicli di proiezioni cinematografiche, il Museo del Tessuto di Prato ha esposto nel 2018 i costumi di scena di Marie Antoinette (Id., 2006) di Sofia Coppola,1 mentre il Paci Contemporary di Brescia ha ragionato all’imbrunire del 2017 sulla fotografia divistica e sul suo rapporto con le dinamiche del costume.2
Un ruolo chiave per il ripensamento dell’immagine in movimento è tuttavia giocato da un’altra iniziativa della capitale, organizzata nel Palazzo della Civiltà Italiana tra ottobre 2017 e luglio 2018. Inaugurata in concomitanza con la dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, la mostra Fendi Studios3 – curata dalla direttrice creativa Silvia Venturini Fendi – si è prefissata lo scopo di ricostruire in alcune tappe la lunga collaborazione che l’omonimo marchio creato da Edoardo Fendi e Adele Casagrande ha intrattenuto e intrattiene ad oggi con il mondo del cinema. Non limitandosi a esporre abiti, la mostra offre anche un campionario variegato di proiezioni che, grazie a schermi e display interattivi, permettono di ridefinire l’idea di immagine in movimento. Concentrandosi primariamente proprio su quest’ultimo elemento, il presente intervento mira pertanto a indagare la particolare mostra romana, nella quale il ricorso all’immagine filmica si articola seguendo tre soluzioni differenti: mentre la prima sfrutta il cinema come mero supporto didascalico, la seconda e la terza chiamano direttamente in causa lo spettatore, in modi tuttavia opposti. In conclusione, focalizzandosi nuovamente sulla suddetta esposizione ma valicandone i confini, si analizzerà anche un nuovo processo di ripensamento che già da tempo sta rimodellando lo statuto stesso di immagine in movimento, rilocata a livello amatoriale su note piattaforme social come Instagram o Twitter.
2 Fendi Studios: l’immagine in movimento tra accompagnamento, dislocazione e immersione
Prima di procedere allo studio della mostra vera e propria, appare significativo soffermarsi seppur brevemente sul video inaugurale che, come una velata dichiarazione di intenti, palesa il legame tra fruizione tattico-visiva e pianificazione museale proprio dell’intero progetto. Posto al di fuori dell’edificio, a lato dei cancelli e della scritta Fendi, il monitor introduce il visitatore all’interno delle sale: la prima immagine, che mostra una porta che si apre, lascia infatti spazio a un susseguirsi repentino di sequenze che, grazie a carrelli verticali e orizzontali, offrono una summa iconografica di quanto si vedrà nell’esposizione vera e propria. L’idea di riassumere l’intera operazione e di rilocarla (Casetti 2008) in un contributo introduttivo palesa fin da subito l’importanza che la pratica video, intesa come esperienza concreta e avvolgente, guadagna in questa sede: quasi andando a formare una controparte ugualmente significativa e ineludibile, l’immagine in movimento getta le basi di quello che sarà il percorso museale, dando alla mostra un doppio statuto di concretezza e virtualità, coerentemente equilibrate l’una con l’altra.
L’ibridismo tra moda e cinema, da cui scaturisce la duplice esperienza appena rintracciata, trova tuttavia solo all’interno dello spazio museale la sua risultante più fortunata. Rispetto alla struttura della mostra, è anzitutto necessario premettere che l’esposizione si compone di quattro sale, collegate da due corridoi ugualmente popolati da opere video; ogni ambiente è composto da una serie di costumi di scena esposti su manichini, i quali vengono accostati a numerosi schermi e proiezioni. Come si è detto, tre sono le tipologie di immagini in movimento, in costante dialogo tra loro, che possono essere rintracciate e, seppur in modo a tratti arbitrario, delineate secondo parametri differenti.
Il primo modello, estremamente diffuso e puntualmente ricorrente, ripensa il materiale cinematografico come mero supporto alla controparte tangibile dei costumi di scena. Svincolato dalla visione canonica della sala, il film si disloca attraverso molteplici schermi che, assumendo le logiche del display, rendono accessibile l’immagine in movimento, mettendola a disposizione di chi la vuole guardare (Casetti 2015: 261). Per questioni di fruibilità del percorso, il film non è naturalmente restituito nella sua interezza: in un’esplicita gerarchia imposta tra moda e cinema, la prima detta infatti la scelta della sequenza, che viene estrapolata a seconda dell’abito esposto. I piccoli monitor, pur essendo parte integrante della visione tout court, mostrano esclusivamente l’estratto di pochi secondi in cui compare l’indumento, chiudendosi con brevi titoli di coda dove si elencano – nell’ordine – il regista, il costume designer, l’attrice o l’attore che indossa il capo e i premi vinti dalla pellicola in questione. Nonostante la primaria importanza del vestito firmato Fendi sia incontestabile, è comunque innegabile che la subordinazione dell’immagine in movimento sia velatamente ridiscussa: se da un lato il display si limita ad accompagnare la visione, dall’altro la comprensione del fine ultimo – appunto il connubio tra le due realtà creative – apparirebbe monco senza di esso. Notando inoltre la posizione più alta del video rispetto al manichino, l’impatto visivo suggerisce un primato creativo e ideologico dell’immagine che, nel suo costante loop, si pone come origine delle singole opere, permettendo solo in un secondo momento agli abiti e agli accessori di restituirsi in quanto oggetti tangibili. Relegata almeno all’apparenza a un compito di mero accompagnamento, la sequenza cinematografica si trasforma in realtà nel vero punto di partenza che permette di nobilitare ed elevare l’abito esposto al rango di opera concepibile per uno spazio museale. In questo costante cortocircuito, si fanno dunque spazio estratti e costumi dei lungometraggi più disparati, che oscillano temporalmente da Mai dire mai (Never Say Never Again, 1983) di Irvin Kershner a Grand Budapest Hotel (Id., 2014) di Wes Anderson, a cui si aggiungono anche accessori della nota serie televisiva Sex and the City (Id., 1998-2004).
Il secondo prototipo dell’immagine in movimento è sicuramente complesso e degno di un’analisi più approfondita, operata su tutti e quattro i casi nei quali viene proposto. In linea generale, tale categoria presenta due caratteristiche comuni e fondamentali. Non rifacendosi direttamente a pellicole cinematografiche, essa ragiona anzitutto sul connubio tra moda e cinema in modo differente, creando spesso un disequilibrio tra le due istanze e valorizzando la seconda a discapito della prima, spesso praticamente assente. Per riprendere la terminologia proposta da Francesco Casetti (2015: 295), lo spettatore è inoltre mediatizzato, ovvero al di là dei confini canonici della visione, diventando in questo caso egli stesso parte della proiezione sullo schermo. Rovesciando il precedente schema gerarchico e favorendo una presenza quasi assoluta del video, il visitatore è chiamato direttamente a interagire con l’istanza cinematografica, confrontandosi con proiezioni installative e diventando parte integrante dell’immagine in movimento. Se in precedenza la struttura espositiva suggeriva l’idea della fuoriuscita dell’abito dal film, ora l’operazione è opposta, finalizzata al coinvolgimento fisico e virtuale dello spettatore nel film tradizionalmente inteso.
La prima installazione interattiva si ha nella sala inaugurale, al cui centro è posta la macchina – un’Alfa Romeo Spider 600 – guidata da Dustin Hoffman ne Il laureato (The Graduate, 1967) di Mike Nichols. Dando vita a un’operazione meno complessa delle successive, il pubblico è invitato a sedersi nel veicolo, così da potersi vedere proiettato su uno schermo che, grazie al green screen, fa sembrare che il conducente stia guidando per le strade dell’EUR di Roma. In una sorta di happening liberato da qualsiasi scopo artistico o concettuale, l’iniziativa offre la più basilare forma di interazione attiva con l’immagine sullo schermo, rendendo il visitatore parte del fluire filmico.
Se l’intimità tra soggetto e spettacolo è in quest’ultimo frangente confermata e mantenuta, più complesso è invece il confronto che si crea nella seconda istallazione, dislocata nel corridoio che congiunge la prima e la seconda sala. Organizzata su tre schermi, essa pone il visitatore al centro di una proiezione. Il soggetto è infatti posizionato tra due monitor, uno di grandezza medio-piccola e uno verticalmente molto ampio; egli appare contemporaneamente visibile su entrambi gli schermi, vedendo la propria immagine in movimento moltiplicata un numero quasi infinito di volte grazie alla tecnica della mise en abyme (Werner 2009). Invitato a posizionarsi con il volto rivolto al display più imponente e con le spalle verso la videocamera posta al di sopra di quello più piccolo, il soggetto si ammira in un primo momento esclusivamente di schiena, sacrificando la visione del volto tipica del riflesso nello specchio. In un passaggio successivo, lo spettatore può comunque vedersi anche di fronte: allontanandosi dal dispositivo di ripresa e spostandosi verso il terzo schermo inserito su una parete laterale, può assistere a una versione in differita della proiezione appena conclusa, non ammirandosi più di spalle ma normalmente in viso. Se la visione tradizionale appare in crisi già nel primo passaggio per via del rovesciamento tra frontalità e posteriorità del corpo ripreso (e pseudo-riflesso), anche l’apparente restaurazione delle logiche tradizionali dell’atto del guardare lo schermo non è in realtà pienamente compiuta: il terzo monitor è infatti il più piccolo, tanto da passare spesso inosservato, e presenta una fallace proiezione-specchio, contemporaneamente evocata ma inattuabile per via dell’assenza della sincronia che gli dovrebbe essere connaturata. Avvicinandosi a molte esperienze video-installative (Senaldi 2008: 15-48, 155-166), l’operazione mira a dis-identificare lo spettatore, ponendolo al centro di una serie di frammenti di un sé impossibile da ricostruire completamente. La differenza tra le due opere indagate è dunque a questo punto palese: se la prima utilizza l’immagine in movimento in senso tradizionale e intrinsecamente consolatorio, la seconda mira invece allo straniamento, possibile grazie a una frammentazione sia del punto di vista spettatoriale sia dell’immagine oggetto di visione.
In una sorta di continuità ideologica, la terza installazione ragiona sulle medesime dinamiche. Posizionata al centro della sala immediatamente successiva, essa si compone di una versione in miniatura del Palazzo della Civiltà Italiana, di cui sono riproposte tuttavia solo due facciate. La prima vede l’alternarsi di finestre contenenti piccoli specchi distorcenti ad altre che proiettano le sequenze dei film proposti nella mostra; la seconda, nuovamente poggiata su una proiezione, restituisce invece l’immagine del visitatore che, ponendosi chiaramente in linea con una videocamera posizionata ad hoc, può vedere se stesso nelle piccole finestre mutare la propria dimensione o moltiplicarsi svariate volte. Riprendendo quanto già detto, l’installazione gioca nuovamente sull’idea di alienazione, frammentando anche in questo caso chi guarda. Nella prima facciata, lo spettatore si vede riflesso in innumerevoli specchi, non trovando tuttavia una vera completezza a causa, da un lato, della deformazione operata dal supporto stesso e, dall’altro, degli intramezzi video che ne rompono i lineamenti. Analogamente, la seconda facciata mette in scena una decostruzione, data dal costante movimento dell’unica immagina proiettata: ciò che il soggetto vede è pertanto una costante mutazione del proprio riflesso virtuale, che appare in certi casi unico ed enorme mentre in altri piccolo e molteplice.
Rispettando la medesima simmetria proposta tra le ultime due operazioni analizzate, la quarta installazione sembra invece porsi in congiunzione alla prima, non mirando allo straniamento ma alla completezza figurativa. Il secondo corridoio, posto tra la seconda e la terza sala, appare totalmente ricoperto da specchi, solo raramente puntellati da schermi che mostrano una sequenza con Gwyneth Paltrow de I Tenenbaum (The Royal Tenenbaums, 2004) di Wes Anderson. Diventando il soggetto di un’immersione totale, lo spettatore si confronta quindi pienamente con l’immagine dislocata di se stesso, riuscendo anche a ottenere un completo controllo del movimento che vuole dare ad essa. Nelle logiche espositive, il corridoio serve per portare il visitatore verso la pelliccia che Gwyneth Paltrow indossa nel film di Anderson, ma in un discorso più ampio tale scenografia permette a chi guarda di ritrovare la propria completezza, non più grazie al prodotto cinematografico ma comunque per merito di un’immagine in movimento ugualmente dinamica e perfino maggiormente concreta.
La terza tipologia di immagine in movimento è debitrice della concezione classica di fruizione filmica. La quarta e conclusiva stanza della mostra è infatti una piccola sala cinematografica che, pur offrendo un design architettonico ricercato e ovviamente firmato Fendi, preserva le logiche tipiche dello spazio generalmente deputato alla visione di lungometraggi. Nonostante la stanza sia parzialmente illuminata da lampade, sul grande schermo è mostrato in loop un cortometraggio di dieci minuti realizzato in occasione della mostra sulla storia del marchio tenutasi al Teatro Manzoni di Milano durante la settimana della moda del 2013.4 L’opera, intitolata Making Dreams: Fendi and the Cinema (2013) e diretta da Patrick Kinmonth e Antonio Monfreda, è in realtà un omaggio al cinema, ai suoi costumi e alla sua capacità di creare mondi sempre diversi e unici. La scelta di riproporre tale operazione alla fine del percorso espositivo sembra ricomporre quanto in precedenza frammentato: se l’immagine in movimento nel primo caso è stata sfruttata per ripensare il canonico scorrere filmico e nel secondo per decostruire anche solo temporaneamente l’istanza spettatoriale, adesso è evocata per rifondare l’idea di cinema tradizionalmente concepito e fruito. Sebbene l’impostazione generale della sala e le sue luminarie non producano totalmente l’effetto cinema teorizzato da Baudry (1978), la disposizione dello schermo e delle poltrone riscoprono chiaramente logiche di visione che, sempre estremamente diffuse, si riconducono in prima istanza al cinema tradizionalmente inteso. Ad avvalorare ulteriormente quanto affermato, non mancano inoltre delle vere e proprie proiezioni dei film presenti nella mostra, le quali, nella fascia serale, accolgono gratuitamente il pubblico interessato.
3 Oltre Fendi Studios: l’immagine in movimento e il connected museum
Indagati i diversi utilizzi dell’immagine in movimento nel percorso espositivo, un appunto conclusivo deve essere proposto in relazione a un’altra tipologia di supporto visivo, estraneo – almeno fisicamente – allo spazio museale dei Fendi Studios. Più di altre mostre coeve, l’operazione curata dal direttore creativo Silvia Venturini Fendi ha reso l’immagine social, che sia essa fissa o in movimento, un carattere ineludibile dell’intera esposizione. Adottando delle logiche tipiche di quel connected museum (Drotner e Schrøder 2013) ampiamente diffuso a partire dal nuovo millennio, il ricorso ai social – attraverso l’utilizzo di un hashtag creato per l’occasione – ha trasformato e sfruttato lo scatto fotografico o il video amatoriale in modi che travalicano la semplice pubblicità. Rifuggendo qualsiasi intento didattico che alcuni studiosi trovano nelle nuove pratiche di cultura digitalizzata (Drotner et al. 2008, Issa et al. 2016), Fendi Studios ricorre all’immagine quale modus operandi attraverso cui innalzare l’esposizione stessa a status symbol: attingendo da un’idea di compartecipazione in differita (Kelly e Russo 2008), il soggetto riesce infatti con la condivisione di un’immagine da esso stesso prodotta ad auto-determinare la propria identità (Rounds 2006), divenendo di conseguenza culturalmente attivo anche al di fuori dello spazio dell’esposizione.
In un’assolutamente ponderata pianificazione museale e post-museale, l’immagine in movimento proposta prima, durante e dopo la mostra Fendi Studios muta dunque i propri caratteri a seconda dei casi e degli scopi. Intrecciandosi in un confronto non sempre paritario con il mondo della fashion, essa ripensa il cinema, l’arte e la moda stessa, aprendosi a declinazioni non solo preimpostate ma anche amatoriali e imprevedibili. In una sorta di grande bacino in costante evoluzione, l’immagine in movimento si trasforma pertanto in un momento di condivisione e interazione, capace di far dialogare nuovi e attivi visitatori con lo spazio museale ampiamente inteso.
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Marie Antoinette. I costumi di una regina da Oscar (a cura di Filippo Guarini, Daniela Degl’Innocenti e Alessandra Cinti, Museo del Tessuto, Prato, 11 febbraio 2018-10 giugno 2018).↩
Moda & Cinema (a cura di Giampaolo Paci, Monica Banfi e Federica Manfredini, Paci Contemporary, Brescia, 28 ottobre 2017-31 gennaio 2018). Il catalogo è disponibile esclusivamente online (Paci Contemporary 2017).↩
Fendi Studios (a cura di Silvia Venturini Fendi, Palazzo della Civiltà Italiana, Roma, 27 ottobre 2017-8 luglio 2018).↩
Making Dreams – Fendi and the Cinema (a cura di Patrick Kinmoth e Antonio Monfreda, Teatro Manzoni, Milano, 21 settembre-6 ottobre 2013).↩