L’espressione che dà il titolo a questo intervento nasce per designare un attore senza fascino e senza qualità artistiche al quale quindi non viene assegnata alcuna parte nella distribuzione dei ruoli. La frase – che suona bene, con quella accattivante rima interna arte/parte – diviene poi una metafora per alludere a una persona che non ha titoli per stare nel posto in cui si trova, e infine una frase fatta, un sintagma rigido per indicare un qualsiasi poveraccio senza qualità e senza funzioni, appunto “senza arte né parte”. Come insegnano i linguisti e i semiologi, è sempre molto interessante, e a volte sorprendentemente affascinante, far compiere alle metafore il percorso inverso, togliendo loro le incrostazioni dell’uso per recuperarne il significato letterale. Per una volta dunque vorrei intendere quell’espressione alla lettera, riportandola al suo ambito specifico. Perché voglio proprio parlare di attori, e proprio di quelli che istituzionalmente, programmaticamente non hanno e non devono avere “arte”, ossia una consapevole capacità recitativa, una tecnica in grado di dominare i propri strumenti espressivi, e nemmeno una “parte”, ossia un compito definito nell’intreccio drammaturgico in cui si trovano impegnati. O ai quali è proprio assegnato il compito di non avere parte. Naturalmente il livello di discorso a cui mi pongo è molto generale, a volte anche grossolano e magari forzoso.
Credo utile, tuttavia, provare a svolgere alcune considerazioni generali, che mi paiono utili a un inquadramento teorico di una delle dimensioni possibili del rapporto tra attori di teatro e attori di cinema e poi di televisione. Analizzerò, a seguire, i diversi percorsi svolti dall’attore teatrale e da quello cinematografico-televisivo, a partire dalla svolta naturalistica fino ad arrivare ai giorni nostri. Tali percorsi si snodano non tanto secondo la figura più scontata del passaggio di consegne tra arte “vecchia” e arte “nuova”, quanto secondo una dialettica dei reciproci influssi, come vedremo nei paragrafi a seguire.
Nel corso della sua storia l’attore ha sempre dovuto misurarsi con una “forma” che, pur scontando diversità anche radicali, presupponeva sempre i medesimi strumenti espressivi: l’occupazione dello spazio scenico, il corpo, la voce, i moti dell’anima, la capacità di emozionare e di affascinare, ma sempre in un rapporto diretto con lo spettatore, in presenza l’uno all’altro. Tutto si doveva giocare sul filo di questa fascinazione fisica ed emotiva, stemperata nella distanza ma esaltata nell’amplificazione dei gesti, delle espressioni mimiche, dei volumi della voce. È lì, in quel contesto, che nasce quella nozione di “teatralità” che si è poi andata sedimentando nel linguaggio comune, quello nel quale i termini specifici diventano metafora o stereotipo, secondo cui è “teatrale” appunto un gesto amplificato e artificiale e “fare l’attore” o “recitare” diventa un’accusa di insincerità e drammatizzazione eccessiva della situazione e del comportamento.
L’attore del Novecento ha invece dovuto misurarsi da un lato con parametri culturali ed estetici differenti, che vedremo, e dall’altro con l’avvento di strumenti di comunicazione diversi dal teatro o comunque dallo spettacolo dal vivo, come il cinema e poi la televisione, che hanno introdotto elementi di radicale rottura con la tradizione precedente. Soprattutto hanno spezzato il filo diretto di comunicazione in praesentia tra attore e spettatore, ma hanno nel contempo consentito una visione molto più ravvicinata e particolareggiata, sia pure virtuale, mediata dallo strumento tecnico. Tutto questo ha naturalmente imposto la ricerca di tecniche recitative diverse e specifiche, adatte a questi strumenti. Perché la vicinanza, per quanto virtuale, permette e alla fine richiede un gesto molto meno “teatrale”, una dizione meno declamatoria, una postura meno plastica. A un gesto colto nel dettaglio si chiede più misura e quotidianità che geometria e amplificazione, da un volto da osservare in primo piano si pretendono accenni di passioni e piccoli trasalimenti e non strabuzzare di occhi e grimaces espressioniste.
In questo contesto insomma, per riprendere la terminologia da cui siamo partiti, si chiede all’attore meno “arte”, ossia una dose meno massiccia di quegli strumenti espressivi che ne avevano caratterizzato l’attività nelle epoche precedenti. E basta pensare a quanto sono ingombranti le tecniche specificamente teatrali (soprattutto mimiche, gestuali e posturali) che gli attori di teatro travasano nel cinema, nei suoi primi decenni di vita. Pose statuarie, gesti “melodrammatici”, espressioni caricate, trucco marcato sono strumenti forse indispensabili quando lo spettatore è a decine di metri di distanza, mentre risultano contraddittori quando lo spettatore virtuale sta a un metro. O ancor di più e più propriamente: quegli strumenti sono appropriati quando la finalità della recitazione è quella di addensare pathos ed espressività, e stridenti invece quando l’intenzione comunicativa va nella direzione della trasparenza tra rappresentazione e realtà rappresentata, e dunque di una recitazione senza “arte” che si avvicini il più possibile alla quotidianità.
Perché non bisogna sopravvalutare il dato tecnico, che è comunque anche una conseguenza di un contesto culturale più generale. Voglio dire che questi nuovi codici interpretativi non discendono tanto da una specifica “forma” del nuovo strumento di comunicazione quanto piuttosto da presupposti estetici e ideologici che il cinema condivide e in certo senso viene a potenziare. E infatti anche la recitazione teatrale, e non solo per questa contiguità col cinema, in quello snodo cruciale tra fine Ottocento e inizi Novecento, accede generalmente a parametri stilistici che vanno nella direzione della quotidianità, all’inseguimento di un mito della trasparenza destinato a ridimensionare quando non addirittura ad annullare la “teatralità” della recitazione. Ricordo, giusto solo per esemplificare, la nota polemica del 1902 tra Salvini e Zacconi sul finale della Morte civile di Giacometti, quando Zacconi oppone ad una recitazione tradizionale che istituisce a propria guida il parametro gratificante del “bello” una tipologia nuova di recitazione, di scuola realista, che vuole adeguarsi solamente al parametro del “vero”.1 Salvini potrà continuare a morire, sulla scena, come meglio crede, dunque costruire il suo gesto con tutta l’“arte” necessaria a renderlo bello, conclude Zacconi, mentre io non posso che morire come “devo”, ossia come mi impone l’adesione alla realtà: il mio gesto sarà meno esteticamente gradevole ma certamente sarà più vicino a quelli della quotidianità. Naturalmente anche questo nuovo stile richiede “arte”, ossia tecnica, solo che non la ostenta e anzi la nasconde il più possibile, per cui la più grande abilità per un attore di teatro, in questa prospettiva estetica, sarà quella di nascondere la teatralità.
È certamente in quel contesto che muta di segno l’“idea di teatro” della cultura corrente, per cui l’idea che il teatro sia il luogo della artificialità e dell’amplificazione vira fin quasi al suo opposto, verso l’idea che il teatro sia invece il luogo della più assoluta adesione alla quotidianità. Il dispositivo concettuale è in fondo elementare: se il teatro non deve più essere il luogo in cui si manifesta l’“arte”, nell’accezione che abbiamo sin qui utilizzato, ma solo lo strumento attraverso cui traguardare, con la massima trasparenza possibile, la vita quotidiana colta in alcuni suoi momenti esemplari, allora è evidente che l’agire dell’attore è il mezzo espressivo e comunicativo che più di ogni altro è in grado di svolgere questo compito. Per rappresentare corpi azioni spazi gesti e passioni della realtà, un letterato deve usare parole su un foglio di carta e un pittore linee e colori su una tela, mentre un attore usa proprio quegli stessi elementi, e rappresenta un corpo con un corpo, un gesto con un gesto, uno spazio con uno spazio, l’espressione di un sentimento con l’espressione di un sentimento, una parola con una parola.
Grande vantaggio, ma insieme anche grande limite per il teatro. Perché, come è evidente, una tale particolarità rende il teatro straordinariamente “verosimile” e “credibile” all’interno di una poetica di stampo realista o naturalista ma rende più difficoltose e meno “normali” operazioni estetiche che da tali presupposti di verosimiglianza vogliano affrancarsi. All’interno di un’estetica “naturalista” viene infatti naturale chiedersi: se un bravo attore può produrre gesti e discorsi uguali uguali a quelli della realtà, così credibili da sembrare e spesso da essere proprio “veri”, in grado pertanto di essere compresi ed apprezzati da tutti quelli che sanno leggere gesti e discorsi della vita di tutti i giorni, perché mai deve mettersi a compiere gesti “strani”, astratti, incomprensibili, urlare o bisbigliare con toni “innaturali” discorsi astrusi che nella realtà non si ascolterebbero mai?
Ecco, esposta in modo molto sintetico e un po’ paradossale, quella che potremmo chiamare la “trappola della verosimiglianza” in cui si dibatte, da quando la poetica del naturalismo si è sedimentata nel senso comune, la concezione dell’attore. Ed è questa concezione che determina l’orizzonte d’attesa dello spettatore. Del resto, basta chiedere ai normali spettatori delle nostre stagioni teatrali (evidentemente escludendo gli spettatori professionali) con quali categorie anche implicite giudichino la recitazione di un attore. Io l’ho fatto, e tante volte mi sono sentito rispondere che quell’attore era bravo perché «sembrava vero» o «non sembrava che recitasse», mentre quell’altro era un cane perché «si vedeva lontano un miglio che recitava». Risposte talmente consuete da sembrare ovvie, ma che contengono un evidente paradosso: lo stupore e il rammarico di vedere, a teatro, un attore che recita! di andare a teatro e di non trovarci la copia della realtà quotidiana, la verosimiglianza! Come se il teatro non fosse, appunto, il luogo della non-quotidianità, dell’artificio, in cui gli attori sono chiamati, proprio per contratto, a recitare.
Sul piano storiografico e critico questa situazione individua naturalmente un paradosso. Come mai – verrebbe da chiedersi –, mentre la teorizzazione novecentesca frequenta spesso parametri anti-naturalistici, lontani dalla verosimiglianza delle situazioni e dalla restituzione psicologicamente credibile del personaggio, il sistema di attese e di giudizio, implicito o esplicito, degli spettatori è spesso sostanzialmente dentro quei parametri? Dal punto di vista culturale e dei parametri di giudizio estetico, è evidente che questo orizzonte di attese dello spettatore – verosimiglianza, credibilità, ricerca della quotidianità – discende dalla straordinaria forza del modello teatrale che con approssimazione chiamiamo “naturalistico”, che si è imposto allo scadere dell’Ottocento con una condivisione e una vitalità tali da consentirgli di sopravvivere alla dissoluzione del contesto ideologico e culturale che lo aveva prodotto. Ma d’altro canto è altrettanto vero che è stata proprio l’apparizione dei nuovi strumenti di comunicazione di massa ad alimentare e anzi a irrigidire quell’orizzonte di attese. A partire appunto dal cinema, che non a caso nasce nel medesimo periodo in cui si afferma il Naturalismo, condividendone il clima culturale e i presupposti comunicativi, rafforzando di conseguenza le abitudini di fruizione del pubblico.
Se il parametro decisivo deve essere quell’“impressione di realtà” inseguita dalla cultura naturalista, già le prime pellicole dei fratelli Lumière, con gli spettatori terrorizzati dall’immagine di un treno che sembra investirli, arrivano da subito dove il teatro non è mai riuscito ad arrivare, se non parzialmente nel “realismo” cruento degli spettacoli della Roma imperiale, che prevedono reali uccisioni in scena, o in alcuni esperimenti della spettacolarità seicentesca, quando ad esempio Lorenzo Bernini inscena inondazioni di acqua vera che sembrano rovesciarsi sugli spettatori.
Da questi presupposti, è facile intendere quali siano le conseguenze per la recitazione dell’attore. L’attore di cinema infatti, nel suo filone largamente maggioritario, continua e approfondisce quel percorso “doveroso” di cui parlava Zacconi, verso una trasparenza dell’azione che annulli o almeno mascheri l’artificiosità della recitazione. Naturalmente i casi esemplari sono quelli in cui si scelgono attori non professionisti, proprio perché i professionisti porterebbero i segni della loro “arte” e dunque si perderebbe quella “naturalezza”, quella “spontaneità” anche imperfetta che è il presupposto metodologico di queste operazioni. È il caso degli attori “presi dalla strada” del Neorealismo italiano, naturalmente, o il cinema dell’inseguimento della vita di cui parla Zavattini. Ma anche gli attori professionisti, pena lo scadere in una teatralità che toglierebbe agli spettatori l’illusione della trasparenza, devono spogliarsi, al cinema, di una consapevolezza estetica troppo declamatoria. Basta pensare a tutta la scuola del cinema americano uscita dai dintorni dell’Actor’s Studio, che non a caso discende dalla teorizzazione stanislavskiana, che vorrebbe basare la recitazione su una “verità” che viene dell’attore come persona più che dalla tecnica dell’attore come professionista. Oppure pensiamo alla metamorfosi di un attore come Vittorio Gassman, che a teatro è declamatorio e iper-codificato mentre al cinema vira nella direzione della leggerezza e della quotidianità. Ma in fondo, anche tanti straordinari volti del cinema muto sovietico sono espressivi proprio per la loro “autenticità”, perché si lasciano leggere nella trasparenza di un rimando ad una verità che non il prodotto dell’“arte”. L’“arte” sta intorno a loro, in quei film fantastici, ma loro, quei volti, sono senza “arte”.
Questo percorso dell’attore verso la trasparenza e la perdita dell’“arte” subisce un’ulteriore accelerazione con l’avvento della televisione. Perché anche la televisione, almeno nel suo impulso originario, si inserisce in quel percorso di restituzione della realtà quotidiana e di “impressione di realtà” da cui era partito il cinema nel clima della cultura naturalista. Anzi, il compito della televisione è, o dovrebbe essere, addirittura quello di “catturare” la realtà nel suo farsi e di trasmetterla, in tempo reale, senza manipolazioni e interventi di ricostruzione, a spettatori anche lontanissimi. Ancora più reale, soprattutto ancora più trasparente del cinema. Naturalmente sappiamo benissimo che la televisione si è poi allontanata da questo impulso originario, ed è anzi diventata uno dei luoghi principali della manipolazione. Ma tutto questo appartiene ad un’analisi sociologica e ideologica dell’evoluzione del mezzo televisivo e della sua utilizzazione che qui non ci compete.
Quello che ai nostri fini è utile sottolineare è invece che, indipendentemente da ogni modificazione di linguaggi e di funzione sociale, questa aura originaria di autenticità documentaria, di realtà colta in flagrante, non ha mai abbandonato del tutto la televisione. Al di fuori delle situazioni, peraltro ormai numerosissime, in cui la televisione abdica al proprio linguaggio e alla propria funzione per assumere quello del teatro (sceneggiati televisivi, riprese di spettacoli teatrali o musicali, cabaret, sketch) o molto più frequentemente del cinema (film, telefilm, soap opera, cartoni animati, serie, comunque tutto quello che ricade sotto la generica definizione di fiction), il presupposto per lo spettatore è che chi appare in video “non reciti” ma sia sempre “se stesso”, sia che si tratti del giornalista che legge le notizie del telegiornale o di una velina, del protagonista di un fatto di cronaca che viene intervistato o del presentatore di un varietà del sabato sera. Questa “percezione di realtà” si è poi non poco accentuata, negli ultimi tempi, col fenomeno invadente dei programmi fatti non più dai professionisti della televisione ma dalle “persone comuni”, quelle che partecipano ai quiz o ai giochi, che vengono a raccontare i fatti loro, soprattutto che partecipano ai cosiddetti reality show. Tralasciamo anche in questo caso il dato, pur fondamentale, che in questi programmi c’è quasi sempre una sceneggiatura, ci sono percorsi e intrecci prestabiliti, e che comunque chi vi partecipa è chiamato, quantomeno, a “recitare” la parte di se stesso. Ancora una volta ci interessa la percezione dello spettatore, che vede, o crede di vedere, un evento che diverte, affascina o commuove attraverso “attori” che “non recitano” ma sono persone “vere”, “reali”.
Qui l’“arte” è sparita del tutto, o almeno deve tendenzialmente sparire. Perché a fare spettacolo, a creare interesse, sono proprio le defaillances, gli imbarazzi, le ingenuità, l’impressione di realtà che viene da una trasparenza totale tra “attore” e “personaggio”. L’attore “è” il personaggio, ma perché questo meccanismo comunicativo funzioni è necessario che l’“attore” sia il più possibile deprivato di tecnica specifica, di quell’“arte” che lo ricondurrebbe nell’universo della finzione e dell’artificialità. Niente “arte” dunque, ma anche niente “parte”. Ossia nessun ruolo da sostenere, perché (sempre in apparenza e nella percezione dello spettatore) non c’è drammaturgia, non c’è intreccio preordinato, c’è solo la mitica “realtà”, la mitica “verità” che si produce lì, sotto i nostri occhi. Eccolo, l’attore senza arte né parte, che è il prodotto ultimo di un percorso di sottrazione di teatralità, all’inseguimento del mito della trasparenza tra attore e personaggio, tra evento spettacolare e realtà quotidiana, iniziato proprio negli anni in cui il teatro cedeva parte delle sue funzioni storiche al cinema.
Certo, il cinema avrebbe potuto essere, e solo in parte è stato ed è, anche altro, avrebbe cioè potuto intraprendere una strada differente da quella della riproduzione della realtà. Se è vero, come si dice, che il cinema aveva di fronte una “linea Lumière” e una “linea Méliès”, è indubbio che ha prevalentemente scelto la linea Lumière. Ma l’ha scelta sotto la spinta di un generale clima culturale, quello stesso del teatro “naturalista”, di cui condivide i presupposti ideologici. Anzi, li condivide ancor più di quanto non possa fare il teatro. Come scrive Vladimir Majakovskij nei brevi articoli del 1913 in cui indaga il rapporto tra il teatro e il nascente cinematografo, se il teatro continuerà sulla strada della rappresentazione realistica della realtà, non potrà che soccombere nei confronti del cinema, che, pur non possedendo potenzialità artistiche,2 offre comunque possibilità molto maggiori in quella direzione, visto che in “una tela di dieci metri può dare l’oceano in grandezza”naturale" e l’intero traffico di una città“.3 E anche Charles Dullin, per fare solo un altro esempio, in un intervento dl 1927, scrive che”il cinema, con la sua verità, ha condannato il naturalismo" a teatro.4
Sia detto en passant perché non è questo il nostro tema, ma è da lì, anche da lì, dalla consapevolezza che il compito di rappresentare fedelmente la realtà può meglio svolgerlo il cinema, che parte il distacco del teatro contemporaneo dai paradigmi della verosimiglianza e della rappresentazione della quotidianità. E contestualmente è da lì, anche da lì, che nasce la scissione tra le teorie dei teatranti e l’orizzonte di attesa degli spettatori, che proprio il successo del nuovo strumento cinematografico contribuisce a rafforzare e ad esaltare. Perché l’attore teatrale, nella cultura del Novecento, sembra sostanzialmente abbandonare il valore della “naturalità” a vantaggio semmai del valore della “verità”, intesa in un senso molto diverso da quello della corrispondenza alla realtà quotidiana. La “verità” che ricerca il teatro contemporaneo, di cui l’attore si fa portatore e interprete, è di natura più alta o più profonda. È proprio la verità che sta sotto la crosta di “apparenza” della quotidianità.
In questo modo, la ricerca teatrale dei nostri tempi arriva a costituirsi come un luogo di “resistenza” all’appiattimento e alla omogeneizzazione culturale e alla fine sociale del vivere contemporaneo. Un luogo in cui gli attori, per fortuna, continuano ad avere sia “arte” che “parte”.
Cfr. Allegri, Luigi (2005). L’arte e il mestiere. L’attore teatrale dall’antichità ad oggi. Roma: Carocci, pp. 135-144.↩
“Può il cinematografo diventare un’arte autonoma? No, s’intende”: Majakovskij, Vladimir (1913). “La posizione del teatro odierno e del cinematografo nei confronti dell’arte”, in (1958, II ed. 1972) Opere, vol. 7, p. 346. Roma: Editori Riuniti. Evidentemente la svalutazione di Majakovskij nei confronti del cinema è legata sia alla condizione ancora embrionale del cinema sia, soprattutto, al desiderio di arrivare per questa via – con l’equiparazione del teatro “realistico” alla documentarietà fotografica del cinema – alla definizione di un nuovo teatro svincolato dai parametri del naturalismo: “Il teatro di ieri non può reggere alla concorrenza del cinematografo perché, ricalcandolo lo stesso momento di vita, risulta molto più debole. E, quando sarà nato il teatro dell’avvenire, il cinematografo contribuirà ancora a far mutare parere sulla regia e sulla scenografia, non entrando con esse in concorrenza, perché sono un’arte che studia fenomeni di tutt’altro ordine”. Oggi, col senno di poi, sappiamo che Majakovskij sbagliava, ma qui interessava fotografare il sentire di quei primi anni del Novecento.↩
Majakovskij, Vladimir (1913). “Il cinematografo distrugge il «teatro»: è questo il sintomo della rinascita dell’arte teatrale”, in Opere, Cit., pp. 343-344.↩
Dullin, Charles (1927), “Agli amici dell’Atelier. Conversazione sulla condizione del teatro”, in Seragnoli, Daniele (2005). La ricerca degli dei. Pedagogia di attore e professione di teatro. Pisa: ETS, p. 234.↩