Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.13 (2018)
ISSN 2280-9481

Da Venezia 2018 all’impronta sulla stagione successiva. Un piccolo bilancio critico

Roy MenariniUniversità di Bologna (Italy)

Roy Menarini is Associate Professor in University of Bologna, where he teaches Film and Cultural Industry. He has written several papers on national and International reviews, and he’s Editor-in-chief of Cinergie. He wrote over thirty books on Hollywood Cinema, European Cinema, David Lynch, James Cameron, William Friedkin, Nanni Moretti, Paul Schrader, on film parody, film and intertextuality, film criticism and film history.

Alice Autelitano

Alice Autelitano is editor for Cineteca di Bologna. She’s Ph.D. in “Film and Television History”, with a thesis on “Episode Films and Popular Movies in Italian Cinema During the 60’s”. She has written several papers on national and International reviews, and the book “Cronosismi. Il tempo nel cinema postmoderno”

Pubblicato: 2018-07-12

È probabile che gli organizzatori della 74a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia abbiano tirato un sospiro di sollievo quando la Giuria del concorso internazionale presieduta da Annette Bening ha attribuito il Leone d’Oro a La forma dell’acqua. Il film di Guillermo Del Toro, successivamente insignito dell’Oscar al Miglior Film, ha non solo confermato il buon rapporto che il direttore Alberto Barbera ha stretto con Hollywood (dopo la presenza, negli anni scorsi, di opere come Gravity, Birdman, La La Land), ma invertito il trend di Leoni d’Oro concessi a film d’autore radicali e ignorati al botteghino, oltre che lontani da ogni riconoscimento ulteriore, o da ogni percorso di rilievo nell’immaginario internazionale. Ci riferiamo a Pietà (Kim Ki-duk, 2012), Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (Roy Andersson, 2014), Ti guardo (Lorenzo Vigas, 2015), Ang babaeng humayo (Lav Diaz, 2016, nemmeno distribuito in Italia), con la parziale eccezione di Sacro GRA (Gianfranco Rosi, 2013), che almeno aveva il merito dell’orgoglio nazionale.

Proprio ragionando con il senno di poi, e dunque guardando retrospettivamente al ruolo del festival veneziano sul mercato e sulla circolazione internazionale, viene spontaneo chiedersi se l’edizione 2017 – giunta dopo un Festival di Cannes fortemente criticato in Francia e all’estero – abbia sortito ulteriori segnali di fiducia nella manifestazione, oltre al già citato Leone d’Oro. Se è vero, infatti, che il premio principale e il palmarès lasciano le tracce principali sulla memoria mediatica, è altrettanto opportuno ricordare i titoli che non hanno goduto di riconoscimenti e tuttavia si sono imposti per interesse e impatto. Non abbiamo qui l’ambizione di una ricerca sua iuxta principia riguardante i dati di riscontro economico, nazionali e internazionali, dei film presentati a Venezia e distribuiti nella stagione immediatamente successiva. Proponiamo invece un piccolo bilancio critico rapportato alla circolazione post-festival delle opere.

Venezia 2017 ha presentato alcuni titoli che si sono rivelati molto al di sotto delle aspettative critiche e di pubblico, a cominciare dal film di apertura, quel Downsizing di Alexander Payne che – pur partendo da una premessa al tempo stesso originale e debitrice di un tema centrale del rapporto tra corpo e fantascienza (il rimpicciolimento) – paga una seconda parte molto confusa e centrifuga rispetto ai suoi presupposti. L’insuccesso al botteghino statunitense ha portato in Italia alla scelta di un’“uscita tecnica” – come viene definita dai professionisti della distribuzione – quindi priva di investimenti pubblicitari e durata lo spazio di pochi giorni. Tra gli altri lavori da cui ci si aspettava certamente di più ci sono Madre! di Darren Aronofsky (che ai firmatari dell’articolo è risultato di grande interesse ma si è chiuso volontariamente nel recinto della “follia d’autore” interpretata da star) e soprattutto Suburbicon di George Clooney che ha plasticamente dimostrato perché i fratelli Coen avessero deciso di lasciare nel cassetto questa sceneggiatura. Entrambi i film (il primo in particolare) hanno ottenuto scarso seguito al box office e scarso entusiasmo da parte della critica. Decisamente più fortunata – e lungimirante – la scelta di selezionare per il concorso un underdog come Tre manifesti a Ebbing, Missouri, di Martin McDonagh, il cui successo straordinario e la cui capacità di passaparola nei mesi seguenti era difficilmente pronosticabile. Seppur influenzato con una certa evidenza dalla scrittura dei Coen (nuovamente) e dalla recente serialità americana contemporanea (Fargo, ancora universo Coen), il film è entrato di diritto tra le sorprese dell’anno, ottenendo numerosi riconoscimenti nella stagione invernale dei premi. Fuori dall’ambito statunitense, due esempi di scelte riuscite: L’insulto di Ziad Doueiri, fin tropo schematico nella sua dolente riflessione sui miti nazionalisti del Medio Oriente (ma perfetto per platee ampie anche al di fuori del circuito d’essai), e Mektoub, My love: Canto Uno, di Abdellatif Kechiche, che – seppur lontano anni luce dal clamore suscitato con La vita di Adèle – ha ritrovato lo zoccolo duro dei suoi sostenitori cinefili e ribadito la centralità dello sguardo e del corpo femminile nel suo cinema. Quanto alla pattuglia italiana, il film apparentemente più svagato e la cui dignità di presenza in concorso è stata persino messa in dubbio da una parte degli inviati (Ammore e malavita dei Manetti Bros.) si è poi rivelato il trionfatore dei David di Donatello e buon successo anche nelle sale di prima visione, trovando insomma una sua strada tutt’altro che scontata in partenza. Al cinema d’autore internazionale e più ostico apparteneva invece Hannah di Andrea Pallaoro, con una intensa Charlotte Rampling, che entra nel novero dei registi italiani cosmopoliti, interessati a una carriera fuori dalle logiche nazionali e vicini a linguaggi poco frequentati dai nostri cineasti, a costo di rischiare la nicchia (una nicchia comunque di potenzialità globale). Una famiglia di Sebastiano Riso non ha trovato invece molti riscontri (ma ha comunque causato al regista un infame pestaggio da parte di neofascisti, nei giorni dell’uscita del film a Roma, per motivi di omofobia), mentre il film americano di Paolo Virzì (Ella & John) – pur lodevolmente scritto e interpretato da mostri sacri come Helen Mirren e Donald Sutherland – si è poi rivelato assai meno apprezzato di quanto ci si aspettasse: dopo la proiezione in sala, c’era invece la sensazione che l’autore toscano avrebbe convinto il mercato statunitense con il suo road movie e invece l’operazione è caduta presto nel dimenticatoio, senza ulteriori riconoscimenti nella stagione dei premi.

Insomma, la Mostra del Cinema di Venezia 2017 ha mostrato – anche solo a una riflessione a posteriori rapida e inevitabilmente superficiale come questa – un festival molto dinamico, che fa scelte forti, vince scommesse importanti, talvolta ne fallisce altri, ma propone una vetrina decisamente variegata dal punto di vista narrativo, stilistico, produttivo e alternativo. Segnale di una strada imboccata alcuni anni fa non sempre lineare ma via via più apprezzata, e che ora può sfruttare il tracollo di appeal del Festival di Cannes.