1 Introduzione
Società nasce a Firenze, come periodico trimestrale, nel primo semestre del 1945 quando, sollecitati da Romano Bilenchi, si incontrarono lo storico d’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, il filosofo Cesare Luporini e, poco più tardi, lo studioso dei movimenti religiosi e riformatori Delio Cantimori: questi sono considerati i fondatori della rivista (Gori 1981: 17). Ad essi si affiancarono, successivamente, Arturo Massolo, Vito Pandolfi, Mario Luzi, Fedele D’Amico, Giuseppe Berti, Vezio Crisafulli, Giovanni Pieraccini, Cesare Dami, Augusto Livi, Gianfranco Piazzesi, Marta Chiesi e Maria Bianca Gallinaro.
Nonostante la maggior parte del comitato di redazione sia composto da membri legati al Partito Comunista Italiano, è doveroso sottolineare che essi non vi abbiamo sempre occupato le fila. Si tratta, infatti, di anni decisivi per il partito, cui obiettivo è costituire un centro di attrazione per intellettuali che provengano da esperienze esterne, in modo da allargare il proprio consenso. Se Rinascita risulta essere il periodico di diretta emanazione del PCI, dunque che incarna sotto ogni aspetto l’ideologia comunista, per Società gli obiettivi sono diversi: rimanere nell’alveo delle pubblicazioni comuniste, ma non realizzare un periodico controllato direttamente dal partito (Luporini 1980: 6; Ajello 1979: 66). Le ragioni di questa volontà sono chiaramente espresse nell’editoriale del primo (doppio) numero del 1945:
Nel complesso la stampa politica periodica di partito o ispirata ad un partito, non si può definire certo troppo brillante. Si nota in generale la mancanza di un vero e profondo accurato esame della situazione italiana […]. Nell’enorme congerie di carta stampata attualmente in Italia l’amore per l’astrattezza, che nasconde un’incapacità reale alla concretezza, domina incontrastato ([Luporini] 1-2 1945: 355).1
Partendo da queste considerazioni possiamo spostare l’attenzione a quello che i “societari” intendevano proporre attraverso una nuova pubblicazione, ben espresso da Cesare Luporini:
Che cosa intendevamo fare? […] Non una rivista strettamente di partito (né il partito lo avrebbe accettato), bensì orientata in un senso molto vicino ad esso, alla sua politica, e che fosse un centro di raccolta e di studi di intellettuali. […] Una rivista di grande amalgama culturale. Non una rivista “letteraria”, e neppure una rivista scientifica e accademica, ma che tuttavia avesse una tenuta di livello critico-scientifico. Oggi direi una rivista di formazione. Ma senza preoccupazioni divulgative, come avrà Il Politecnico, per intendersi. Una rivista di analisi e insieme di documentazione (Luporini [1980] 1993: 9).
E ancora:
Volevamo fare tre cose simultaneamente: 1°- indagare sul presente in Italia e fuori, contribuire a conoscerlo e farlo conoscere nei punti e campi più decisivi (compresi quello del diritto, dello Stato, e dell’economia, soprattutto in senso pratico). 2°- Rivisitare criticamente il passato storico, culturale, letterario, filosofico, religioso, insomma il passato sia reale sia ideologico, anche qui scegliendo punti decisivi e significativi, in cui erano le radici, soprattutto quelle nascoste e da riscoprire, del nostro presente. O valori da rivalorizzare. 3°- Controllare criticamente la produzione culturale in corso (libri, riviste, teatro, cinema, musica, ecc.), soprattutto, ma non soltanto italiana, in tutti quegli aspetti che, positivamente o negativamente, potevano incidere sulla formazione media della gente (Luporini [1980] 1993: 15).
Da tali obiettivi, tra il 1945 e il 1946 Società tentò di mettere in luce come le esperienze politico-intellettuali di quel periodo fossero caratterizzate da una sostanziale mancanza di concretezza, ma se dovessimo guardare al risultato complessivo raggiunto si evidenzia una totale mancanza di interscambio fra i diversi ambiti che la componevano risultando frammentaria. Questo limite era ben noto ai redattori della rivista, tanto che l’editoriale che aprì la “Nuova serie”, nata nel 1947, evidenziò la volontà di abbandonare ogni velleità antologica,2 ma nonostante le premesse questo non avvenne mai.
Il periodo compreso tra il 1945 e il 1947 non vede alcuna pubblicazione riguardante il settore cinematografico a favore di un interesse verso una cultura intesa in senso ampio. Questa era caratteristica comune alle pubblicazioni di area comunista, infatti, come ricorda Brunetta, “in questi primi anni non c’è una presa di posizione ufficiale sui problemi dell’industria cinematografica; lo spazio di cui godono i critici sulle pagine dei giornali e sulle riviste è limitatissimo” (Brunetta 2009: 129). Ciò è in parte da attribuire al fatto che il partito è ancora legato ad una strategia di sopravvivenza in un contesto di clandestinità, dunque impegnato nel mutare le proprie caratteristiche organizzative in modo da allineare la sua struttura all’interno di un sistema democratico. Si trattava di un lavoro complesso, nel quale “la voce degli uomini di cinema, per potersi accordare a quella più generale degli uomini di cultura, deve [ancora N.d.A.] acquisire un’autorità, una ‘legittimazione’ e, al tempo stesso, una precisa identità” (Brunetta 2009: 129). Si dovranno attendere ancora un paio di anni prima che gli uomini di cinema inizino ad affiancare critici letterari, scienziati e artisti la cui voce era già da tempo associata ad una cultura di un certo prestigio.
2 1948: Cinema, politica e Società
Tra il 5 e il 10 gennaio 1948 si tenne, a Milano, il VI Congresso del PCI, alla fine del quale venne varato uno statuto in cui si aggiunse che i membri dovessero approfondire la conoscenza del marxismo-leninismo. A partire da tale indicazione l’Unione Sovietica divenne il principale modello di riferimento del partito, il quale propose, ad esempio, corsi di formazione sugli scritti di Stalin e sulla storia del partito comunista sovietico (Gundle 1995: 96; Bellassai 2000: 72-3). Lo stesso avvenne anche in campo artistico, dove l’estetica del realismo socialista venne elevata a dottrina ufficiale del partito.
Spostandoci nel settore cinematografico, Gundle ricorda che a partire dal marzo 1948 i film sovietici vennero indicati come punto di ispirazione per i registi italiani, film che, a differenza di quelli hollywoodiani, erano presentati come un’elevata conquista umana e artistica (Gundle 1995: 123). Le elezioni del 18 aprile e la vittoria della DC, portarono alla nascita di una sorta di “coprifuoco ideologico” (Brunetta 2009: 78) che vide nel comunismo, e in tutto ciò che era suo riferimento, un nemico per i cattolici. Il cinema divenne in quel periodo uno dei terreni di guerra di PCI e DC, partiti che si identificarono nelle due potenze del dopoguerra: Unione Sovietica da un lato e Stati Uniti dall’altro, da cui vennero tratti modelli ideologici che dureranno negli anni a seguire.
L’Unione Sovietica rappresentò fonte continua di ispirazione, di incoraggiamento, e gran parte del mondo comunista, il più interessato al mondo sovietico, era impegnato nel dimostrarne la superiorità (Gundle 1995: 98) attraverso la stampa e i film di propaganda. Essa veniva descritta come un chiaro esempio di Stato in cui gli operai avevano conquistato il potere e, tra tutte, era la nazione che più si era battuta per la sconfitta del nazismo (Gundle 1995: 100). Si trattava dunque di un modello da imitare, una stella da raggiungere, tra l’altro frequentemente descritta nei resoconti di viaggio di dirigenti e militanti del PCI.
In tale ottica uno spazio della stampa, seppur ristretto, sarà riservato al cinema sovietico, soprattutto all’interno di riviste specializzate in campo cinematografico. Escludendo queste ultime, le pubblicazioni maggiormente impegnate nello studio del cinema sovietico nel secondo dopoguerra sono quelle politicamente schierate a sinistra, e tra queste spicca Società.
Il 1948 segnò altresì l’anno di morte di Ėjzenštejn, evento che portò molti critici alla stesura di articoli commemorativi. Società, mossa da tale evento, in un primo articolo relativo al cinema riporta la vita e le opere cinematografiche di Ėjzenštejn. L’articolo venne pubblicato nel primo numero del 1948, da Emilio Scarlatti, con il titolo Sergio Eisenstein. Esso appare come un articolo piuttosto generico in cui vengono analizzati gli esordi nel mondo teatrale del futuro regista, i primi passi nel cinema, i principi fondamentali delle sue opere e, solo al termine, Ivan il Terribile (Ivan Groznyy, 1944).3 Analisi anche di Ottobre (Oktjabr', 1928), La linea generale (Staroe i novoe, 1926-1929), Lampi sul Messico (Thunder over Mexico, 1933), e Alessandro Njevskji (Aleksandr Nevskij, 1938).
L’articolo di Scarlatti consente una riflessione sulla ricezione del cinema sovietico da parte della critica italiana dopo la Liberazione. Infatti, molti degli articoli scritti in occasione della scomparsa del regista sovietico appaiono piuttosto superficiali, passando semplicemente in rassegna la sua vita di regista o proponendo brevi recensioni dei suoi film. A questo proposito è doveroso citare Per un dialogo col cinema sovietico, articolo del 1954 di Massimo Mida in cui egli apprezza i tentativi di analisi dei critici del tempo nonostante le difficoltà relative alla visione di tali film:
[…] dopo la liberazione del nostro paese, è facile ritrovare in molti scritti di quel periodo, a parte le ingenuità e i giudizi un poco facili e frettolosi buttati giù con lo stato d’animo che ancora risentiva in un entusiasmo incontrollato, un interesse sincero, un desiderio autentico di comprendere, di approfondire, di esaminare con serietà una cinematografia fino a quel momento rimasta pressoché sconosciuta nel nostro paese, e attraverso il film, i tentativi di afferrare i motivi di una società nuova […] (Mida 1954: 32).
Pochi erano infatti i film sovietici giunti in Italia e coloro che si avvicinarono al cinema in quel periodo non poterono far altro che “apprendere di seconda mano” da chi li aveva visti precedentemente (Mida 1945: 127). Umberto Barbaro sarà invece piuttosto duro descrivendo una critica cinematografica inetta nella ricostruzione di uno specifico studio del cinema sovietico, comprendendo le difficoltà del pubblico “vasto” nel vedere sugli schermi tali film, ma non quelle dei critici: “Gli uomini di cultura possono e debbono superare tali difficoltà, anche materiali, con mezzi propri; e, in ultima istanza, possono anche supplire alla scarsezza di dati, colla propria acutezza e capacità di penetrazione profonda” (Barbaro 1954: 40).
Un dato che sicuramente ha influito sulla scarsa diffusione e conoscenza del cinema sovietico in Italia è dato dalla presenza incostante dell’URSS alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Infatti, nei primi due decenni della manifestazione, si registrano presenze sovietiche solo nel 1932, 1946, 1947 e 1953. Negli anni 1946-1947, tale partecipazione avvenne anche grazie al sostegno organizzativo dell’“Associazione italiana per i rapporti culturali con l’Urss”, nata nel 1944 e che contribuì alla conoscenza dell’universo sovietico, dunque anche del cinema, nell’Italia del secondo dopoguerra (Pisu 2013: 114). Un elemento significativo emerge dal confronto tra i membri dell’associazione “Italia-Urss” e quelli del comitato di redazione di Società. Analizzando i nomi presenti nell’agosto 1947, si denota infatti la presenza di Ranuccio Bianchi Bandinelli in qualità di presidente provvisorio dell’“Associazione” e direttore di Società; Giuseppe Berti, nel ruolo di segretario dell’“Italia-URSS” e membro del comitato di redazione di Società e Delio Cantimori, membro del comitato direttivo dell’“Italia –URSS” e del comitato di redazione di Società. Ciò fornisce dunque ulteriori elementi che dimostrano il forte interesse della rivista verso il mondo sovietico e soprattutto verso le cinematografie dell’Est Europa, tema dei successivi articoli di cinema nella rivista.
3 1949-1950: Mariánské Lázně, Karlovy Vary, Chaplin
Attraverso lo spoglio di Società si evidenzia che, a partire dal 1949, furono introdotti nel comitato redazionale politici di grande rilievo, tra cui Mario Alicata. Quest’ultimo, considerato il suo passato legato al cinema e il successivo ruolo politico, non può che aver giocato un ruolo essenziale nello sviluppo dell’ambito cinematografico della rivista, tanto che, a partire da quel momento, saranno coinvolti nella rivista i principali critici di sinistra dell’epoca e, in relazioni agli anni oggetto di studio di questo saggio, predomina la firma di Glauco Viazzi. Sarà proprio quest’ultimo a recarsi in Cecoslovacchia, a Mariánské Lázně, dove, il 23 luglio 1949, si inaugurò il IV Festival Cinematografico, dal titolo: “Per un uomo nuovo, per un’umanità migliore". L’uomo sarà al centro di molti articoli e dibattiti (Guerra 2015: 97-109); tra questi, il Convegno di Perugia svoltosi dal 24 al 27 settembre 1949, cercherà di rispondere al quesito: "Vivono nel cinema d’oggi i problemi dell’uomo moderno?". La somiglianza tra i due temi è molto forte e non stupisce che il relatore del Convegno di Perugia fosse proprio Umberto Barbaro, direttore della sezione cinema dell’Associazione”Italia – URSS" (Pisu 2013: 120). I due eventi non erano tra loro sconosciuti, tanto che A. M. Brousil, Rettore dell’Accademia d’arte di Praga, all’inizio del suo intervento a Perugia, portò i saluti dei lavoratori del cinema cecoslovacco e la mozione conclusiva del IV Festival internazionale del cinema di Mariánské Lázně (Brousil 1950: 69-70; Viazzi 1949: 546-47).
La manifestazione, definita anche come “la risposta dei paesi comunisti a Venezia” (Sorlin 2013: 5), rappresentò un mezzo per favorire scambi italo-cecoslovacchi, oltre che punto di incontro di intellettuali progressisti, come testimoniato, tra l’altro, dalla traduzione in ceco di molti articoli, sceneggiature e libri italiani (Pitassio 2014:10). Glauco Viazzi, con l’articolo Il cinema democratico a Mariánské Lázne, pone l’accento sulle differenze che il cinema realista incontra nei vari Stati. Il film sovietico viene così descritto come la trasposizione della realtà dell’URSS sullo schermo, una guida che avvicini lo spettatore ad esprimere le più ampie aspirazioni democratiche. Egli prosegue spiegando come nei Paesi di nuova democrazia, “il problema del realismo si pone come problema del passaggio da forme embrionali di realismo in lotta con residui formalistici e idealisti al realismo socialista, tramite il superamento e l’annullamento dei residui” (Viazzi 1949: 514), mentre nei Paesi capitalistici “marshalizzati” (Viazzi 1949: 515), tra cui l’Italia, i cineasti devono “lottare in primo luogo per la libertà d’espressione; devono lottare contro i monopoli e i trust per una produzione indipendente e democratica; devono lottare con i produttori, i noleggiatori e la censura per poter realizzare film nuovi e progressivi” (Viazzi 1949: 515).
Al Festival parteciparono diciotto Nazioni, per un totale di sessanta film. Tra questi erano in programma anche tre film italiani: Senza pietà (Alberto Lattuada, 1948), Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) e La terra trema (Luchino Visconti, 1948), ma solo il primo venne presentato ufficialmente perché a metà del Festival, “con un gesto tipicamente reazionario e scorretto, il governo italiano [ordinò N.d.A.] il ritiro dei film dal Festival, come ‘rappresaglia’ per la mancata partecipazione cecoslovacca al Festival di Venezia” (Viazzi 1949: 537; Casiraghi 1949: 3). La Cecoslovacchia, infatti, dopo aver proposto un film di Otakar Vávra al festival veneziano, ne ritirò la partecipazione.
La presenza all’interno del programma della manifestazione cecoslovacca di film italiani e la solidarietà mostrata dagli organizzatori nei confronti della mancata proiezione dei film evidenzia come i cineasti italiani erano considerati parte della stessa comunità. In particolare, riguardo al festival, nel periodo appena successivo al colpo di stato cecoslovacco del 1948, si denota l’esaltazione dei valori del socialismo, attraverso, da un lato, la promozione di film che rispondessero ai canoni artistici e sociali del “realismo socialista” prodotti all’interno del blocco sovietico e, dall’altro, il rafforzamento dei rapporti con i cineasti e gli intellettuali comunisti provenienti dall’altra parte della cortina di ferro, fra cui ebbero un ruolo primario gli esponenti italiani del neorealismo (Pisu 2016: 158). L’interesse nei confronti del neorealismo italiano, ampiamente descritto da Pitassio nell’articolo Italian Neorealim Goes East, è dimostrato anche dal fatto che, dopo il 1948, i critici cinematografici italiani che avevano dato contributo a riviste cecoslovacche, vennero sostituiti da nuove voci affiliate al Partito Comunista Italiano (Pitassio 2014: 13).
L’analisi del festival cecoslovacco proseguirà sulle pagine di Società anche l’anno successivo, il 1950, in cui, sempre Glauco Viazzi, scriverà Il festival cinematografico di Karlovy Vary.
L’articolo si apre con una descrizione relativa allo stato dell’arte cinematografica, fonte di profonde preoccupazioni e che, secondo Viazzi, sarebbe riduttiva “poiché troppo numerosi sono i fatti che invece dimostrano […] una condizione di sviluppo” (Viazzi 1950b: 709). Una critica viene lanciata nei confronti delle mostre d’arte cinematografica non più in grado di “assicurare quella pienezza di bilancio culturale ed artistico che pur dovrebbe essere la loro naturale funzione e il requisito essenziale della loro stessa esistenza” (Viazzi 1950b: 709).
[…] la Mostra di Venezia ha persistito a negare a cinematografie quali la sovietica e quelle dei paesi di democrazia popolare la possibilità di partecipazione. Ciò ha annullato le sue oggettive possibilità di presentare un panorama reale e completo della migliore produzione mondiale (Viazzi 1950b: 709).
Viazzi espone brevemente anche la situazione del cinema democratico in altri paesi: Stati Uniti, giunti a situazioni di “tipo fascista” nelle quali non ci si è limitati ad ostacolare tali film, ma si è arrivati ad imprigionare i cineasti democratici; Francia e Inghilterra, nelle quali le uniche, solide, possibilità di lavoro sono rappresentate da film a carattere “mercantile” (Viazzi 1950b: 710). Queste tendenze non fanno altro che sottolineare la divisione dell’Europa in due blocchi: il blocco sovietico, legato al Patto di Varsavia, che considera il film come un fatto artistico, culturale, profondamente partecipe delle vicende umane e sociali del popolo e il blocco occidentale, legato al Patto Atlantico, che considera invece il film come una merce pura e semplice, e si fa portavoce di posizioni ideologiche conservatrici.
Spostandoci su Rinascita, Umberto Barbaro metterà a confronto la Mostra di Venezia e Karlovy Vary, dicendo:
[…] i film dell’Unione Sovietica e dei paesi di nuova democrazia sono tutti ispirati ai principi del realismo socialista: e la prima constatazione che inducono a fare è la grande varietà di essi, per genere, per soggetto, per maniera di racconto. Di fronte alla disperante monotonia della produzione cinematografica di Hollywood, o che di Hollywood s’ispira, sta la grande varietà di questi film prodotti al di là della famosa cortina (Barbaro 1950: 52-4).
Il V Festival del cinema cecoslovacco, svoltosi dal 15 al 30 luglio 1950 a Karlovy Vary (al Grand Hotel Pupp), si presenta simile a quello svoltosi l’anno precedente nella vicina Mariánské Lázne: è aperto a tutte le cinematografie (di cui si escludono i film commerciali Casiraghi 1952: 1233) e vede nella classe operaia la vera protagonista (Casiraghi 1950: 3). Nel 1950 il motto fu: “per la pace, per un uomo nuovo, per una umanità migliore”. In tale ottica vennero presentati i film di ventidue paesi, tra cui spiccarono quelli sovietici, statunitensi, inglesi, cinesi e, naturalmente, quelli cecoslovacchi. Tra i film sovietici maggiormente apprezzati, e vincitore del Gran Premio del Festival, ricordiamo La caduta di Berlino (Padeniye Berlina I, II, Michail Čiaureli, 1949), primo film sovietico in cui Hitler viene rappresentato nella sua totalità, ma mostra anche un ottimo risultato sul fronte del colore, che gli conferisce un aspetto realistico (Jacchia 1950: 25-6).
Ampio spazio viene dato anche alle recensioni de Il complotto dei condannati (Zagovor obrečënnych, Michail Konstantinovič Kalatozov, 1950), I cosacchi del Kuban (Kubanskiie Kosaki, Ivan Pyryev, 1949), Zhukovsky (Žukovskij, Vsevolod Pudovkin- Dmitri Vasilyev, 1950), e ai film provenienti dalla Cina. Tra i film cinesi presentati, si devono ricordare Tornano a brillare le luci della città di Hsiu Ko, Figlie della Cina di Tse-Feng Ling e La vita di un poliziotto di Pechino di Shi Hwei. Infine analisi anche de Il consiglio degli dei (Der Rat der Götter, Kurt Maetzig, 1950), La tempra (Zocelení, Martin Frič, 1950) La diga (Priehrada, Paľo Bielik, 1950), L’oscurità (Temno, Jiři Weiss, 1950) e L’ultimo sparo (Poslední výstrel, Jiři Weiss, 1950) La signora Szabò (Szabóné, Felix Mariazsy, 1949), Zbojnik Matyi (Kalaman-Nadasdy-Ranody, 1950), L’ereditiera (The Heiress, William Wyler, 1949) Strana vittoria (Strange victory, Leo Hurwitz, 1947) Cristo tra i muratori (Give Us This Day, Edward Dmytryk, 1949). Quest’ultimo, a seguito delle sue idee democratiche, fu costretto al carcere e per tale ragione non poté essere presente a Karlovy Vary, se non con un messaggio firmato da lui e altri "compagni".
Al termine del Congresso dei Cineasti di Karlovy Vary, furono adottate due mozioni all’unanimità. La prima condannava il governo americano per aver messo in carcere i cineasti democratici americani, i “dieci di Hollywood”, John Howard Lawson, Dalton Trumbo, Alvah Bessie, Edward Dmytryck, Adrian Scott, Albert Maltz, Herbert Biberman, Lester Cole, Samuel Ornitz, Ring Lardner, chiedendone la scarcerazione; la seconda pose uno sguardo più ampio sul cinema, affermando l’esigenza di formare un gruppo solido e unito di lavoratori che nell’ambito cinematografico perseguissero obiettivi onesti e finalizzati alla pace.
Il 30 luglio, ci furono le premiazioni; tre i premi principali: il Gran Premio del Festival, il Premio della Pace e il Premio del Lavoro. La caduta di Berlino (Padeniye Berlina I, II, Michail Čiaureli, 1949) vinse il Gran Premio del Festival, il Premio per la Pace venne conferito al film Il complotto dei condannati (Zagovor obrečënnych, Michail Konstantinovič Kalatozov, 1950) “per aver smascherato, descrivendo la lotta vittoriosa per una democrazia popolare, le forze nemiche dell’imperialismo mondiale” (Casiraghi 1950: 3), infine, il Premio del Lavoro venne assegnato a I cosacchi del Kuban (Kubanskiie Kosaki, Ivan Pyryev, 1949) “per la grandiosa e gioiosa glorificazione del libero lavoro che produce nuove e più pure relazioni tra gli uomini, e che dona al popolo sovietico una vita bella e ricca” (Casiraghi 1950: 3).
L’interesse verso il mondo sovietico venne ribadito, sempre nel 1950, ancora una volta da Glauco Viazzi, con l’articolo Charlie Chaplin nella critica sovietica. L’articolo, dedicato a Chaplin, si propone di mettere in luce come i numerosi libri ed articoli relativi alla cinematografia chapliniana non siano da considerarsi soddisfacenti. Viazzi, in specifico riferimento ai saggi di Ėjzenštejn, Bleiman, Kosinzev e Iutkevič, racchiusi ne La figura e l’arte di Charlie Chaplin, ne evidenzierà i punti deboli. Tali saggi, che “dovrebbero rappresentare l’interpretazione marxista-leninista, sovietica, d’avanguardia” (Viazzi 1950a: 342), vanno a definire, sempre secondo Viazzi, una biografia “a-dialettica”, rendendo impossibile prevedere i successivi sviluppi dell’arte chapliniana. Tra i saggi degli autori sovietici, un risultato più soddisfacente viene rintracciato in Talento e concezione del mondo (Il cammino dell’opera creativa di Charlie Chaplin), realizzato da Aleksander Lejtes, nel quale vengono valutati aspetti positivi e negativi dell’evoluzione di Chaplin. Diversa l’opinione di Fernaldo Di Giammatteo riportata su Cinema, che vede nei saggi riportati ne La figura e l’arte di Charlie Chaplin il “primo coerente tentativo di interpretazione marxista dell’arte di Chaplin” (Di Giammatteo 1949: 308).
Ma perché tanta ammirazione, da parte della rivista, per Chaplin? Innanzitutto Charlot, differenziandosi da altri personaggi comici, quali Cretinetti o Ridolini, mette in mostra la propria visione del mondo con i suoi oggetti, animati da ‘una testarda e inflessibile volontà superiore’ a cui egli sembra essere sottomesso. Egli sogna e ci fa sognare un’umanità conciliata attraverso un mondo di cui è lui stesso sceneggiatore, regista e attore; un’umanità da cui può trovare libera ispirazione: l’ispirazione della realtà. Un motivo di critica da parte dei cattolici venne a costituirsi dal fatto che la realtà di cui parlava attraverso i suoi film non aveva un lieto fine; visione contrapposta sarà quella di Umberto Barbaro:
I film di Chaplin sono valutati come grandi opere d’arte da coloro che vogliono un mondo migliore e più felice. […] miglior ottimismo non si può chiedere né si deve attribuire all’opera di Chaplin, se non quello che nasce, per reazione, dalla rappresentazione veritiera, che egli ci dà, della spietatezza del mondo capitalistico (Barbaro 1955: 112-16).
E sarà ancora una volta una frase di Umberto Barbaro a sintetizzare i motivi di ammirazione della sinistra nei confronti di Chaplin: “Egli è dei nostri per l’inflessibilità con cui denuncia l’intollerabilità della condizione umana nella società divisa in classi” (Barbaro 1955: 116). Chaplin condivise molte idee diffuse in Russia, in Italia, e più in generale nei paesi anticapitalistici. Infatti, uno degli elementi da cui Chaplin si voleva distanziare era il capitalismo che caratterizzava Hollywood; da qui si diffuse l’idea che egli fosse comunista. In realtà il suo unico obiettivo era di essere indipendente, seguendo un proprio cammino, svincolato da tutto (Lejtes 1955: 208).
4 Conclusioni
Attraverso lo spoglio di Società si evidenzia un periodo in cui essa volse il suo sguardo quasi esclusivamente al cinema prodotto nei paesi dell’Est. La rivista, dichiarando più volte il punto di riferimento nell’ideologia marxista-leninista, rappresenta pienamente quanto la cultura italiana di sinistra fosse, sebbene con proprie specificità, devota a tale ideologia. Infatti, come mostra lo spoglio degli articoli editi tra il 1948 e 1950, decidere di trattare quasi esclusivamente il cinema sovietico, non è certo una scelta casuale, bensì legata a precise scelte che consapevolmente escludono la trattazione del cinema italiano. Nonostante gli articoli di cinema pubblicati costituiscano una minima parte di quanto presente nei vari fascicoli della rivista, si evidenzia un forte interesse nei festival cecoslovacchi che, come ricorda Pitassio, “divenne una rappresentazione rassicurante e accettabile delle attività culturali oltre la Cortina di Ferro” (Pitassio 2012). Tale elemento fornisce i presupposti per sostenere che la popolarità del cinema, in specifico riferimento agli anni in analisi, sia intesa da Società in un modo univocamente politico. Sarà con l’articolo di Umberto Barbaro Il 1913 e il cinema italiano che, sul finire del 1950, la rivista inizierà a guardare al cinema italiano e, a partire dal 1952, l’interesse si sposterà anche nei riguardi di “temi caldi” di quel periodo come, ad esempio, il caso s’agapò. Altri articoli saranno interamente dedicati al festival di Venezia, ai documentari e film sulla Resistenza, al cinema di Luchino Visconti, solo per citarne alcuni.
Nel 1954, l’ampliamento di alcune sezioni della rivista, tra cui anche quella cinematografica, consentì di passare da una pubblicazione trimestrale a bimestrale e, sempre da quell’anno, il cinema sarà presente in ogni numero. Nel 1957 Società cambierà editore (da Einaudi a Parenti di Milano) e, rinnovando la direzione si decise di inserire nel comitato di redazione Della Volpe e i suoi allievi Giulio Pietranera e Lucio Colletti (Meta 2013: 88). Sarà proprio l’ingresso di questo gruppo, nel 1961, a decretare la fine di Società, in quanto caratterizzata da posizioni sempre più radicali. Dopo diciassette di attività si spense una delle maggiori riviste del panorama marxista italiano, racchiudendo un primo periodo, ai molti sconosciuto, che attraverso l’analisi del solo cinema sovietico espresse la volontà di chiudere gli occhi sul cinema italiano e che, al tempo stesso, racchiude le speranze di un’epoca.
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Cesare Luporini, nel 1980, dichiarò di aver scritto tutti gli editoriali di Società tra il 1945 e il 1946, ad esclusione del fascicolo III del 1945. Luporini (1993). “Da «Società» alla polemica sullo storicismo”. Critica marxista. Analisi e contributi per ripensare la sinistra. 6: 16.↩
“La rivista non piaceva ‘in alto’, in particolare a Togliatti. A Togliatti non piaceva il formato della rivista, lo trovava un formato ‘non italiano’; non apprezzava l’impaginazione delle fotografie, né che ogni fascicolo della rivista si aprisse con l’editoriale Situazione. La rivista sembrava antologica e scombinata, e le sue scelte arbitrarie”. (Luporini, Cesare 1980: 17).↩
I titoli dei film sono riportati nella traduzione italiana e nella traslitterazione scientifica dal cirillico. Per quanto riguarda autori e registi citati in materiali d’archivio si tiene la grafia originale, per i restanti si utilizzerà la traslitterazione scientifica.↩