Un uomo giace inquieto su un letto, in una camera d’albergo: la 1018a. Uno schermo televisivo trasmette le immagini in bianco e nero di un incontro di boxe, che un altro ospite della stanza, in canottiera, guarda, fumando compassato. Il primo uomo spegne il televisore, e si dedica alla lettura della Sacra bibbia, e in particolar modo del libro della Rivelazione: “Il terzo angelo suonò, e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia. E colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. Il nome della stella è Assenzio [wormwood]. E un terzo delle acque si mutò in assenzio. E molti uomini morirono per quelle acque, perché erano divenute amare.” Mentre l’uomo legge, l’immagine si duplica, associando alla sua rappresentazione quella di illustrazioni naïf del passaggio delle sacre scritture; poi si triplica, avvicendando a questi ultimi filmati amatoriali, o didattici, che raffigurano operazioni bellico-scientifiche. La manopola della porta della stanza ruota. L’uomo si alza dal giaciglio, pone il suo occhio allo spioncino, e la sua soggettiva riporta un uomo di spalle, immerso fino alla vita nelle acque oscure di uno stagno. Infine, l’uomo apre la porta, supera la soglia e accede al corridoio dell’hotel, esce dal fuori campo alla destra dello spettatore, lasciando lo schermo vuoto; rientra poco dopo, inaspettatamente, dal fuori campo sinistro.
Questo l’incipit di Wormwood, miniserie in sei episodi prodotta da Netflix, e diretta da Errol Morris, celebrato documentarista statunitense, già premio Oscar per il miglior documentario per The Fog of War (The Fog of War: la guerra secondo Robert McNamara, 2003), nonché produttore insieme a Werner Herzog di uno degli esiti più complessi e perturbanti del documentarismo contemporaneo: The Act of Killing (L’atto di uccidere, Joshua Oppenheimer, 2012). Wormwood è stato presentato a un manipolo di assidui spettatori durante la 74° edizione della Mostra Internazionale di Venezia, e almeno tre domande sorgono subito spontanee. In prima istanza, di cosa parla questo oggetto così anomalo, in cui la più ovvia associazione di due immagini, la soggettiva, è invece sconcertante? In secondo luogo, come mai la quarantennale carriera di Morris, interamente identificata con il documentario creativo, ma dalle rilevanti ricadute sociopolitiche, trova applicazione in una produzione Netflix che alterna ampie sequenze finzionali, con interpreti appariscenti (Peter Sarsgaard, Tim Blake Nelson, Bob Balaban, tra gli altri), a interviste e materiali di archivio? Infine, per quale ragione un prodotto seriale per il web viene programmato da uno dei principali festival cinematografici del mondo, ancorché nella sezione Fuori Concorso? Andiamo con ordine.
Wormwood è innanzitutto il tentativo di ricostruire cosa avvenne la notte del 28 novembre 1953 all’Hotel Statler di New York, tra le 2.30 e le 2.35, quando Frank Olson, un biologo impiegato in un laboratorio dell’esercito degli Stati Uniti a Frederick, in Maryland, precipitò dalla sua stanza, posta al tredicesimo piano, trovando la morte. Il decesso fu inizialmente rubricato come suicidio, motivato dalla depressione della vittima. Tuttavia, nel 1976, venne alla luce un programma segreto, il MK-Ultra, cui partecipava anche la CIA: il programma prevedeva lo studio degli effetti delle sostanze psicotrope, e segnatamente degli allucinogeni. Olsen ne sarebbe stato vittima inconsapevole, e il suo suicidio causato dal disorientamento indotto dall’LSD. La famiglia nel 1976 ottenne le scuse ufficiali dell’amministrazione Ford, e un rimborso economico. Ma se questa verità non fosse stata altro che un’ennesima rappresentazione per distogliere l’attenzione da motivazioni e meccaniche ancora più oscure e complesse? Attraverso il contributo centrale di Eric Olson, figlio maggiore della vittima, documentazione desecretata, filmati di archivio, fotografie, indagini giornalistiche, coprotagonisti della vicenda, filmati amatoriali e scientifici, e una ricostruzione d’epoca più vicina a Mad Men (2008-2015) che a Standard Operating Procedure (Standard Operating Procedure-La verità dell’orrore, Errol Morris, 2008), si dipana dinanzi ai nostri occhi un’indagine sulla memoria, e sulle forme dell’oblio che l’avvelenamento delle fonti citato dalle Sacre scritture produce.
Morris è stato fin dai suoi primi lungometraggi una figura cardine nella formazione di una nuova forma di cinema documentario, quello che Stella Bruzzi ha definito “documentario performativo”: un’opera fondata sulla consapevolezza che, sebbene basato su un dato di realtà preesistente, essa non possa esistere se non attraverso una azione cosciente che la realizzi. Il documentario performativo, pertanto, esibisce la propria costruzione, è spesso caratterizzato da valori visivi e sonori artificiosi, rivela la presenza del cineasta, o pone al proprio cuore un personaggio costantemente in bilico tra quotidianità e messa in scena di sé (Bruzzi 2006: 185-218). Non a caso, ripetutamente il cinema di Morris, e segnatamente uno dei suoi esiti più celebri, The Thin Blue Line (La sottile linea blu, 1989), è stato associato al cinema noir. Ma, soprattutto, regolarmente al centro delle sue opere sono collocati soggetti incerti tra la propria esistenza e la sua messinscena. Che siano ex-segretari della difesa come Robert McNamara o Donald Rumsfeld in The Unknown Known (2013), boia squilibrati come Leuchter in Mr. Death: The Rise and Fall of Fred A. Leuchter Jr. (1999), straordinari scienziati quali Stephen J. Hawkins in A Brief History of Time (Dal Big Bang ai buchi neri, 1991), o anonimi cacciatori di calamari giganti, addetti alle pulizie sulle scene del crimine, o ideologi della criogenesi nella straordinaria serie televisiva First Person (2000), al centro dei film di Morris è sempre un personaggio ordinariamente straordinario. È così anche in questo caso: Eric Olson, PhD in psicologia ad Harvard, è una figura eccezionale, nella sua creatività e nella sua ossessiva ricerca della verità sulla scomparsa del genitore. Al fondo di questo progetto è l’idea della costruzione, non della ricostruzione. Nelle parole del regista: “A good performance doesn’t come from imitating something external to yourself, even if it’s your own performance on some other occasion. It comes from something inside, of bringing something inside of yourself forward” (Zoller Seitz 2017).
Questo aspetto costruttivo richiama l’attenzione su due altri elementi: da un lato, la natura compositiva della rappresentazione documentaria; dall’altro, la radicale ibridazione di finzione e documentario. Eric Olson, oltre che ossessionato dalla morte violenta del padre, è uno specialista del metodo del collage nella indagine psicologica. L’idea di comporre una verità contingente dalla collazione di differenti frammenti è un metodo particolarmente congeniale a Morris. Per la maniera in cui articola la messinscena, e per le convinzioni che dimostra nella fondazione della conoscenza. Infatti, il film allinea sezioni di documenti, sequenze tratte da Super8 della famiglia Olson, brani estrapolati da documentari sulla guerra biologica, sul conflitto in Corea, sui laboratori dell’eserciti statunitense, interviste e materiali televisivi. È la vertiginosa associazione di materiali a produrre un sembiante di verità, e fornire un’alternativa al modello egemonico della narrazione.
There is a problem in all filmmaking and it’s a problem of exposition, especially in a story like this where there is a such a huge deposit of expository material: how do you handle it? Do you handle it through narration? The tricky business is when exposition is folded into drama it becomes intolerable. (Aftab 2017)
Già la prima sequenza di Wormwood lavora ad associare le immagini secondo una logica che privilegia la comparazione, anziché la consecuzione narrativa: lo split-screen, o la soggettiva impossibile sopra descritte. Ora, secondo Morris la conoscenza si produce combinando due immagini, spesso a partire da una convinzione, giusta o errata che sia. Uno dei suoi testi più affascinanti decostruisce la conoscenza proposta da Susan Sontag sulle fotografie scattate da Roger Fenton durante la Guerra in Crimea:1 la combinazione di due immagini produce senso; ma spesso la loro consecuzione origina in una persuasione che le precede (Morris 2011: 3-71). Il lavoro del documentarista si fonda su due presupposti: da un lato, l’individuazione del grumo di verità; dall’altro, la comprensione e ricostruzione delle conoscenze prodotte su di esso, e stratificatesi nel tempo. Morris non è infatti un nominalista radicale, o un postmodernista convinto, come alcuni studiosi propongono;2 da qualche parte, esiste una verità indipendente dalle nostre persuasioni e dai discorsi che produciamo.3 Tuttavia, ripercorrere le tortuose vicende che hanno formato, veicolato, e inventato la verità non solo è un’impresa etica, ma è spesso il lato più spassoso del lavoro documentario – “Often the most interesting part of a story is the cover-up” (Guerrasio 2017).
Wormwood sceglie di indagare, per il tramite di uno straordinario personaggio, un nucleo di verità sepolto da migliaia di discorsi, documenti, immagini, molte delle quali allucinate e allucinatorie. Anche per questo alcune di esse ritornano ossessivamente. E per farlo associa liberamente inchiesta, intervista e una finzione sfavillante, degna di un film hollywoodiano degli anni Cinquanta.
Ci sarebbe ora da risolvere il terzo quesito: perché includere nella programmazione di un evento festivaliero dedicato al cinema una produzione seriale Netflix, destinata alla trasmissione on line? Forse, le righe che avete scorso più o meno distrattamente non sono state persuasive, perché le molte buone ragioni vi sono già riposte. Possiamo allora riprendere le parole di Morris: talvolta, più che la verità di per sé, e una verità fissa e immutabile, è la storia costruitavi la parte più interessante; più che la certezza di una ricostruzione, è la esecuzione di quella verità a essere cruciale. E dalle associazioni imprevedibili di immagini scaturisce una verità inedita e più aderente. Magari, il lavoro di un festival è proprio in questo…
Bibliografia
Aftab, Kaleem (2017). “Wormwood’s Errol Morris: This Time I Didn’t Use My Interview Machine, the Interrotron.” Independent (9 dicembre 2017). URL: http://www.independent.co.uk/arts-entertainment/tv/features/errol-morris-wormwood-the-thin-blue-line-mk-ultra-cia-the-fog-of-war-a8097041.html (ultimo accesso: 30 dicembre 2017)
Bruzzi, Stella (2006). New Documentary. London-New York: Routeledge.
Guerrasio, Jeson (2017). “Errol Morris talks about teaming up with Netflix to delve into the LSD-laced mystery of a CIA scientist's death”, Business Insider (15 dicembre 2017). URL: http://www.businessinsider.com/errol-morris-interview-about-netflix-true-crime-series-wormwood-2017-12?IR=T (ultimo accesso: 30 dicembre 2017).
Morris, Errol (2011). “Which Came First? The Chicken or the Egg?”, in Believing Is Seeing. Observations on the Mistery of Photography, 3-71. New York: The Penguin Press.
Zoller Seitz, Matt (2017). “Errol Morris on Wormwood, Fake News and Why He Hates the Word ‘Reenactment’”, Vulture (15 dicembre 2017); URL: http://www.vulture.com/2017/12/errol-morris-wormwood-interview.html (ultimo accesso: 30 dicembre 2017).
Sontag, Susan (2006). Davanti al dolore degli altri. Milano: Mondadori.↩
Williams, Linda (1993). “Mirrors without Memories: Truth, History, and the New Documentary”, The Film Quarterly, xlvi (3): 9-21.↩
Plantinga, Carl (2009). “The Philosophy of Errol Morris. Ten Lessons.” in Three Documentary Filmmakers. Errol Morris, Ross McElwee, Jean Rouch, edited by William Rothman, 43-59. New York: SUNY.↩