Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.13 (2018)
ISSN 2280-9481

Berlinale 2018 – 68° Internationale Filmfestspiele Berlin. Addosso ai personaggi

Leonardo QuaresimaUniversità degli Studi di Udine (Italy)

Pubblicato: 2018-07-12

Keyword: Internationale Filmfestspiele Berlin; 2018; 68° Berlinale.

Le sezioni in concorso dei grandi festival portano spesso a imbastire accostamenti tematici, incoraggiano a disegnare tracciati unificanti tra le varie opere fondati sul contenuto delle stesse. L’operazione, motivata dalla naturale inclinazione dello spettatore a “mettere ordine”, a vincere il disagio della diversità e della frammentazione, non sempre appare del tutto motivata e persuasiva. Diverso il caso della Berlinale 2018 in cui un principio unificante si è manifestato con grande evidenza, e senza sollecitare forzature: un principio fondato peraltro su tecniche di regia, modalità di messa in scena. In un gran numero delle opere proposte, indipendentemente dalla diversità d’origine, di impostazione, o anche proprio di “genere” narrativo, indipendentemente dalla difformità del progetto e degli ancoraggi autoriali: al di là di tutto questo, ciò che risaltava era una modalità di rapporto con i personaggi e con le situazioni costruita su una prossimità fortissima della macchina da presa ai suoi oggetti, e su un’aderenza strettissima tra le evoluzioni degli stessi e le evoluzioni dell’istanza enunciativa. La camera restava addosso ai protagonisti, e le loro storie venivano raccontate a partire da un rapporto quasi simbiotico dell’apparato con le figure e le circostanze narrative. L’effetto era quello di una insistente, pervasiva centralità dei soggetti. Tecnicamente, non era propriamente o prevalentemente la forma della soggettiva ad essere attivata, ma l’effetto prodotto era quello di una ipertrofica, generalizzata soggettivizzazione, così vicina veniva portata l’esperienza dello spettatore a quella dei personaggi e delle azioni.

Da un punto di vista tecnico-stilistico, può darsi che la soluzione fosse influenzata da modalità di ripresa assai familiari e diffuse nella produzione televisiva. Ma questo è quanto si sarebbe potuto pensare alcuni anni fa. Oggi, sappiamo bene che l’utilizzazione anche cinematografica del digitale ha reso la situazione del tutto fluida e intercambiabile – e l’enorme diffusione della serialità televisiva ha contribuito a mescolare ancora più sistematicamente le carte. Del resto, quando ormai lo standard di un apparecchio TV domestico si è assestato tra i 55 e i 65 pollici, a chi più verrebbe in mente di parlare (o di praticare) una supposta specificità del piano ravvicinato in televisione?

Da un punto di vista dei modelli espressivi ed estetici, il riferimento va spontaneamente ad autori come i fratelli Dardenne, o al dogma di von Trier e Winterberg. Ma, se pure affinità e parentele possono essere istituite, si fa fatica a interpretarle in termini di vera e propria influenza.

Parlavamo di un effetto di soggettivizzazione – dell’esperienza e della relazione con lo spettatore. Il tallonamento della camera agisce proprio da iperbole in questo senso, iperbole della centralità drammaturgica di destini individuali. Lo spazio si svuota e su di esso si stagliano i soggetti che tutto risucchiano e inghiottono. Ma il soggetto non rivela risorse interiori di profondità e complessità per sostenere, secondo i canoni della grande tradizione drammatica e romanzesca, o quelli della sensibilità contemporanea, un simile ruolo. Anche le teorie del primo piano appaiono inadeguate a interpretare la situazione. Il risultato non corrisponde ai principi di funzionamento della fisionomia (Balázs) o della fotogenia (Epstein). La relazione stretta è un più di prossimità che non sfocia in capacità di dar voce a qualità interiori. La contiguità è aderenza particolareggiata e fisica. L’inseguimento, il pedinamento incessante, diviene un di più di mimesi organica. La mobilità un di più di mobilitazione cinetica dello spettatore. L’identificazione prodotta, una identificazione percettiva più e prima che emozionale.

L’elenco dei film della sezione in concorso che hanno portato alla ribalta questi principi è sorprendentemente ricco. Le scelte risaltano in Las herederas (Le eredi), film paraguayano di Marcelo Martinessi, in cui le due figure femminili, protagoniste di una vita in comune che improvvisamente si spezza per le difficoltà economiche (e conduce una delle due all’incontro con una donna più giovane, completamente diversa e alla riscoperta di sentimenti ed emozioni che sembravano sopiti), figure già confinate per gran parte nello spazio angusto di un appartamento, sono seguite da una macchina da presa costantemente incollata ai loro volti e ai loro corpi. Gli stessi principi organizzano l’impianto drammaturgico del russo Dovlatov, di Alexej German Jr., assecondati dal carattere biografico del film, in questo caso, racconto di sei giorni della vita intellettuale del giornalista e scrittore a San Pietroburgo all’inizio degli anni ’70, prima della sua emigrazione negli Stati Uniti e prima che la pubblicazione postuma delle sue opere in patria ne facesse uno degli scrittori russi più noti. Un film corale in questo caso, in cui campeggia la vasta cerchia della bohème intellettuale sovietica dell’epoca, concentrato anch’esso per lo più in spazi chiusi, ma soprattutto un film integralmente di facce, incessantemente al centro della rappresentazione: vettori naturali, certo, delle discussioni, delle declamazioni, delle aspirazioni, ma con un ruolo integralmente, morbosamente verrebbe da dire, egemonico.

Ancora le stesse modalità di rappresentazione governano il grottesco Toppen av Ingenting/The Real Estate degli svedesi Axel Petersén e Måns Månsson, sulle vicende di un’anziana, implacabile figura femminile, determinata a recuperare gli appartamenti ricevuti in eredità, lottando contro il fratellastro e suo figlio che speculano alle sue spalle. Il tono volutamente urticante, “sgradevole” della messa in scena si fonda innanzitutto sull’uso del primo piano e del dettaglio “iperrealistico” dei volti e dei corpi, illuminati da una luce livida.

In La Prière di Cédric Kahn le vicende del giovane protagonista, accolto in un centro di recupero per liberarsi dalla dipendenza dalla droga, e confrontato bruscamente con un universo che si fonda sui principi e sulle forme di esperienza di una comunità religiosa, il “tallonamento” può apparire meno radicale e sistematico (ma certamente non è restato senza conseguenze nell’assegnazione all’attore del premio per la migliore interpretazione maschile). Così come in Unsane di Steven Soderbergh, monopolizzato dalla presenza della protagonista (complici anche le modalità di ripresa che hanno portato il regista a sperimentare la realizzazione di un lungometraggio servendosi esclusivamente delle risorse tecnologiche dell’i-phone), una giovane donna che non ha superato il trauma della persecuzione di uno stalker e viene ricoverata contro la sua volontà in una clinica psichiatrica. E così ancora in Figlia mia di Laura Bispuri, dove pure la vicenda della bambina contesa tra la madre naturale, ma incapace di badare anche a se stessa, e quella adottiva è risucchiata dalla presenza scenica dei tre personaggi femminili. E infine nel rumeno Touch Me Not di Adina Pintilie, assecondato qui, dalla prossimità alle pratiche della performance art (con esiti peraltro del tutto mediocri e velleitari, quanto più la rappresentazione ambiva all’astrazione e alla ricercatezza formale: come il film sia arrivato a vincere l’Orso d’oro della manifestazione resta un enigma, sconcertante).

In altre opere, invece, la relazione ossessiva della macchina da presa con i suoi personaggi assume un ruolo sistematico e progettuale, raggiungendo risultati che hanno lasciato un segno indelebile su tutta la sezione in concorso. E’ il caso innanzitutto del norvegese Utøya 22. Juli di Erik Poppe, un film sulla strage dei giovani che partecipavano al campeggio organizzato dal movimento giovanile dei laburisti norvegesi, avvenuta nel 2011. Il partito preso del film è quello innanzitutto del rispetto dell’unità temporale: prologo a parte, la durata coincide con quella della sparatoria, 72’. Per farlo l’azione si identifica con gli spostamenti di uno dei protagonisti, una ragazza che cerca di capire cosa accade, poi si mette alla ricerca della sorella, assiste alla morte di una coetanea, si lega e si separa da altri compagni in cerca di un riparo. Quello che il film ci mostra, pur adottando i criteri della finzione, si basa sulle dichiarazioni dei superstiti (così in una didascalia finale). Il modo con cui ce lo mostra è una prospettiva costantemente focalizzata sulla giovane scelta come “testimone” (ma non attraverso una sua ininterrotta soggettiva). Le riprese restano “incollate” sulla ragazza e ci fanno ripercorrere gli eventi attraverso i suoi movimenti e i suoi gesti. Il coinvolgimento dello spettatore (“interpellato” direttamente in una telefonata iniziale, in realtà diretta alla madre) è altissimo e al tempo stesso il più discutibile e ambiguo, come sempre in operazioni in cui la finzione fa da filtro per il racconto di eventi realmente accaduti. Tanto più quando le forme della rappresentazione mobilitano lo spettatore e lo espongono all’esperienza della morte – violando (Bazin) un interdetto “ontologico” (qui non si tratta propriamente della morte reale, certo, e la situazione dominante è piuttosto quella dell’“atmosfera di morte”, di prossimità all’orrore. Nondimeno il riferimento, circostanziato, è, come si diceva, a fatti reali e il giudizio di Bazin – almeno nell’opinione di chi scrive – ha una portata che eccede i presupposti della formulazione d’origine); violando un interdetto “ontologico”, dicevo: tanto più, aggiungo, in questo caso, ove lo spettatore vive, integralmente, da una prospettiva interna le situazioni (a differenza, che so, di quanto avveniva in Elephant) e la modalità attivata rischia di trasportarci in una sorta di gioco di simulazione e in un ambito di genere horror. Cloverfield e The Blair Witch Project sono stati evocati non a caso come impianti consimili. Nulla potrebbe rendere più flagrante il carattere inaccettabile, “intollerabile”, dell’operazione.

In 3 Tage in Quiberon (Tre giorni a Quiberon) di Emily Atef sono le soluzioni stilistiche della Nouvelle Vague che vengono invece alla mente. La descrizione di un breve periodo passato da Romy Schneider in una località della Bretagna per cercare un rimedio al proprio disagio e ai propri fantasmi sfocia in una sorta di documentario del suo volto, dei suoi gesti, della continua, improvvisa, mutevolezza dell’umore. La regista non è Jean-Luc Godard, l’interprete (Marie Bäumer: vicina al modello in modo sorprendente e quasi inquietante) non è Anna Karina, ma questo è l’universo di riferimenti che sembra guidare l’operazione. Poi l’intimità della camera con il suo personaggio resta, come negli altri casi, al di qua di un’effettiva capacità di approfondimento. La condivisione dell’ipercinetismo o della depressione della protagonista non ci consente di penetrare nella personalità dell’attrice. L’adesione, ancora una volta, è fenomenologica, nulla ci porta al di là della superficie – che fatica però a diventare anche profondità.

E la disposizione fenomenologica è direttamente chiamata in causa da Mein Bruder heißt Robert und ist ein Idiot (Mio fratello si chiama Robert ed è un idiota) di Philip Gröning, racconto di 48 ore trascorse da una adolescente e dal fratello gemello, tra la preparazione di un esame di filosofia per la maturità (da cui le citazioni di Heidegger), la noia e il velleitarismo, e infine la violenza e il sadismo. I riferimenti, tutti hanno visto, si muovono tra Malick e Haneke, la vicinanza ossessiva, morbosa della macchina da presa ai due personaggi (“L’immagine ha una psicologia ed è ciononostante corpo”, “anche il corpo è un paesaggio”, nelle dichiarazioni del regista1 – ma verrebbe voglia di suggerirgli una bibliografia…); la vicinanza, pur alternata con aperture e “totali”, non ne porta alla luce che il vuoto, in un disegno di cui (riferimenti cinematografici a parte), si perdono motivazioni e intenzioni. Ma il vuoto morale prima di essere dei personaggi è qui innanzitutto dell’opera. Fino a suscitare l’intollerabilità e il rifiuto più radicali: l’atto liberatorio ed estremo di togliere la parola al film – lasciare la sala (esperienza che chi scrive ha condiviso con altri spettatori, che pubblicamente, nelle loro cronache, hanno poi esternato la loro scelta, sottolineando più o meno esplicitamente il carattere di insubordinazione della stessa2).

Lo si diceva, la soluzione del “tallonamento”, dell’adesione sistematica e generalizzata ai volti e ai corpi, si applicava ad opere diverse, e di per sé non si faceva veicolo di un orientamento determinato. Il procedimento sembra vivere come di vita propria, indifferente rispetto a modelli di indagine, modalità di trattamento della materia drammatica, contesti culturali. Forse anche per questo la procedura in questione ci offre innumerevoli motivi di riflessione – ben al di là dell’orizzonte della sezione di un festival.


  1. Busche, Andreas. “Ein Gespräch mit Regisseur Philip Gröning”. Der Tagesspiegel, 22 febbraio 2018.

  2. Martenstein, Harald. “Die Siebte”. Der Tagesspiegel, 22 febbraio 2018; Wahl, Torsten. “Das lange Warten”. Berliner Zeitung, 22 febbraio 2018.