L’Internationale Kurzfilmtage di Oberhausen (Germania) è giunto quest’anno alla 64. edizione confermando, oltre alla gloriosa longevità, anche la propria solidità e importanza tra i festival di settore. Per cinque giorni (3-8 maggio 2018) la cittadina si è trasformata in un effervescente centro di convergenza internazionale di critici, studiosi, professional e aficionados delle forme audiovisive brevi, tutti attratti da una programmazione serratissima che tradizionalmente presenta vari concorsi: l’attesissima competizione internazionale, il concorso dei corti tedeschi, quello dei film prodotti nella regione ospitante, il concorso di film dedicati ai bambini e ai giovani e, infine, una competizione di video musicali prodotti in Germania. Il già fitto calendario, come sempre, è stato impreziosito da programmi tematici, profili, focus e dibattiti.
Partecipare al Kurzfilmtage significa accettare una piacevole sfida: non solo perché per trarne il massimo è necessario essere abili prestigiatori nella gestione del debordante programma, ma anche perché il festival impone, anno dopo anno, continue riflessioni sul concetto di cortometraggio, al di là dell’indicazione di durata. In tal senso, se parte dei film studies stanno provando a definire quali e quante siano le mutazioni che hanno sottoposto il cinema a una revisione del suo statuto identitario, a mio avviso è proprio osservando le forme brevi che possiamo ritrovare il senso di quella globalizzazione mediatica e di fusione linguistica già avviata dal confronto del cinema con la televisione e con la sperimentazione elettronica in video, e poi sancita definitivamente dal digital turn.
Tra i cinquantatré lavori presentati all’interno della selezione internazionale, ma lo stesso registro si applica a tutto il festival, formati e generi convivono pacificamente: dall’uso della pellicola all’immagine di sintesi, dalle fiction alle narrazioni più sperimentali, dai documentari in forma breve ai ritratti, dai saggi di denuncia alle poesie audiovisive, dai film fotografici alle fanta-visioni e molto altro. Può essere disorientante l’effetto di queste visioni scoordinate, ma a Oberhausen ostinatamente e naturalmente si mostra l’eterogeneità de “l’altro cinema”, quello che storicamente ha acquisito l’etichetta di “sperimentale”, un cinema di opposizione, differente, indipendente: un cinema d’arte più che di spettacolo.
Non a caso il primo premio della giuria internazionale è andato a Stains and Scratches di Deimantas Narkevičius (Lituania, 2017, 7’51“), una proiezione in 3D del montaggio di alcune immagini d’archivio di uno spettacolo dell’inizio degli anni ’70. La visione stereoscopica ha proposto un’esperienza tattile della pellicola, mettendo in risalto la grana e le imperfezioni, ma di fatto ha aggiunto anche un carattere installativo all’opera, coinvolgendo gli spettatori in modo fisicamente partecipativo. Uno sguardo differente è stato anche quello proposto da The Hymns of Moscovy di Dimitri Venkov (Russia, 2017, 14’24”), grazie a uno spettacolare itinerario attraverso le strade della città di Mosca in una visione ribaltata: qui le variazioni elettroniche dell’inizio nazionale accompagnano le immagini insieme all’idea che l’evoluzione delle ideologie sia verificabile anche attraverso un’attenzione alle trasformazioni dell’estetica urbana.
Lo sviluppo di una visione problematizzante del reale ha spesso trovato corrispondenza con una riflessione critica della dimensione politica e sociale dei paesi di provenienza degli artisti: è questo il caso di The Lost Head & The Bird di Sohrab Hura (India 2018, 10’12“), un lavoro a matrice fotografica che ha presentato scorci contradditori dell’India contemporanea, disorientante e perturbante; mentre è con un linguaggio più poetico e visionario che Kiri Dalena in From the Dark Depths (Filippine, 2017, 27’01”) ha rievocato la rivoluzione filippina attraverso un mix di azioni performative, immagini di repertorio, visioni contemporanee, interrogandosi sulla dimensione odierna.
E poi tanti i racconti di umanità varia: storie di madri, di bambini, di giovani, di rapporti interpersonali. Che si tratti di animazioni o di fiction, il senso è quello del recupero e della valorizzazione dei legami, tra sentimenti di amore, indulgenza e perdita. Profondamente diversi e toccanti il documentario etnografico A film for Ehuana di Louise Botkay (Brasile, 2018, 26’) che mostra la vita della tribù amazzonica Yanomami e Hiatus di Vivian Ostrovsky (USA, 2018, 6’20"), basato su un’intervista alla scrittrice Clarice Lispector: se nel primo lavoro (anch’esso premiato) prevale la forza di una vita naturale e incontaminata che si rispecchia in una sorta di purezza fotografica, la struttura stratificata del secondo mostra la complessità di una riflessione personale e amara del vivere, il vuoto interiore, il bisogno di silenzio.
Attraverso una giostra di linguaggi ed estetiche che ben rappresentano l’eterogeneità audiovisiva contemporanea, a Oberhausen l’universo “corto” restituisce la complessità mondo: agli spettatori il compito di decifrarlo, comprenderlo e, forse, provare a mutarlo.