Quella che segue è una analisi dei materiali1 appartenenti al fondo Angelo Cesselon del Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma.2 Lo studio, legato ai generi cinematografici più che all’analisi stilistica, prende in esame 295 pezzi tra bozzetti e studi preparatori, di cui esiste solo una schedatura cartacea. Questo materiale non può che essere parziale illustrazione dell’opera del disegnatore, ma è oltremodo un’importante testimonianza figurativa del suo lavoro. Unendo una grande capacità di ritrattista ad un uso del colore spesso simbolico e alla sintesi del racconto in poche ed essenziali immagini, Cesselon ha saputo restituire nei suoi manifesti la forma codificata dei generi cinematografici, senza rinunciare alla propria personalità di creatore.
Da sempre l’oggetto privilegiato degli studi di storia del cinema è stato naturalmente il testo filmico, mentre la vasta produzione del paratesto è stata spesso trascurata. Si tratta di materiale nato per essere posto in secondo piano rispetto a ciò che promuoveva, difficilmente reperibile, la cui conservazione è soprattutto legata a privati collezionisti ed eredi. Se da una parte questi appassionati hanno saputo cogliere, meglio forse di chiunque altro, il valore estetico del manifesto cinematografico – un’arte messa al servizio di un’altra arte dall’“anima” commerciale come il cinema – non sempre si è potuto collocare in una corretta prospettiva storica il materiale collezionato. Quella del manifesto è certamente una delle forme di espressione tra le più popolari mai esistite, che deve essere considerato un testo autonomo rispetto al testo cinematografico cui fa riferimento, ma che può rappresentare una fonte di grande interesse per lo studio della storia del cinema. Arturo Carlo Quintavalle, che ha analizzato a fondo l’opera di Anselmo Ballester e che è fautore della più importante collezione italiana del disegnatore,3 ha affermato che «non comprendere questi fatti significa essere fuori dalla storia della cultura dell’icona» (Quintavalle 1981: XXI).
A differenza del manifesto pubblicitario, che a partire dagli anni Sessanta ha iniziato ad acquisire quel diritto di cittadinanza nella sfera dell’esteticità – sia pur in quella categoria allora chiamata “arte minore” –, più giovane è l’interesse nei confronti del manifesto cinematografico che, pur facendo propri alcuni aspetti del linguaggio cinematografico, è stato per lungo tempo considerato “il cugino meno nobile di quello pubblicitario” (Della Torre 2014: 10). È solo dopo la metà degli anni Settanta che, grazie anche all’avvio di catalogazioni di raccolte pubbliche e ad alcune mostre (quella di Pesaro nel 1976, quella organizzata a Roma nel 1979 dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e quella di Parma del 1981), inizia ad essere riconosciuto non solo il carattere artistico del cartellone cinematografico, ma soprattutto il suo diritto ad avere un posto fra i “linguaggi” autonomi dell’arte.4 A partire dai primi anni Ottanta, poi, si è cominciato ad analizzare parte del materiale appartenente a collezioni private.5 Negli anni seguenti gli studi non si sono allontanati dalla semplice opera di catalogazione, tuttavia la bibliografia sul manifesto cinematografico è aumentata grazie a cataloghi di mostre, repertori di archivi6 e, cosa nuova rispetto al periodo precedente, alle monografie su alcuni autori.7 Alle ricerche “linguistiche” si sono successivamente affiancati contributi che hanno posto l’attenzione sulla fruizione cinematografica e che hanno visto nel manifesto un mezzo capace tracciare un’immagine del suo lettore; questi testi, per lo più letterari, hanno sottolineato soprattutto la dimensione della memoria e del ricordo.8 Negli ultimi anni infine sono state percorse altre strade, che hanno approfondito aspetti fino ad allora sconosciuti del manifesto cinematografico e hanno posto le basi per nuovi ambiti di ricerca.9 Nel 2014 è stato avviato un ampio lavoro di analisi che copre tutto il periodo del muto e che si concentra soprattutto sulla ricostruzione storica dei processi di produzione del cartellone, sullo sfondo della storia del cinema, dell’arte e della pubblicità.10
Nella biografia collettiva dello spettatore novecentesco l’immagine di un manifesto cinematografico ha talvolta sostituito e costruito la memoria di un film, come una madeleine proustiana che attiva i circuiti del ricordo (Pignotti 1988: 23). Il ruolo preparatorio giocato dai manifesti è stato di fondamentale importanza, in quanto parte integrante della visione e dell’esperienza cinematografica di generazioni di spettatori (Brunetta 2002: 25). Prima ancora che si attuasse davanti allo schermo il rapporto tra corpo divistico e corpo dello spettatore, il manifesto incarnava le attese e le speranze del pubblico: “il mio occhio cercava i cartelloni piazzati da una parte, dove s’annunciava il film del prossimo programma, perché là era la promessa, l’aspettativa che m’avrebbe accompagnato” (Calvino 1974: IX). Pur nascendo intrinsecamente legato al film che doveva illustrare, il cartellone era qualcosa di diverso rispetto alla pellicola, viveva di vita propria, invadeva le strade, i muri dei palazzi, la vita quotidiana ed entrava nell’immaginario comune portando con sé una forza emotiva e passionale, nonché una carica di trasgressione e gratificazione estetica. Nei decenni centrali del secolo scorso quindi non solo i film ma anche i manifesti veicolavano modelli di comportamento, favorendo processi di identificazione. Le gigantografie divistiche, componibili come un’iconostasi lungo i grandi viali cittadini, che attiravano le folle di fedeli con la promessa di perdizione e beatitudine, bastavano a creare un caldo clima di attesa, che rispondeva al rituale festoso tipico del cinema di un tempo (Fellini 1993: 13). Il cartellone cinematografico, elemento costitutivo del paesaggio urbano novecentesco, ne ha modificato e influenzato l’iconografia, svolgendo un’importantissima funzione di raccordo tra l’immaginario cinematografico e quello cittadino.
Se, come scrive Quintavalle, il manifesto è una delle vie attraverso le quali l’arte contemporanea smette di essere un fatto d’élite per diventare più che mai popolare (Quintavalle 1981: XXII), analizzare l’opera di uno dei maggiori disegnatori del dopoguerra significa riflettere su come egli abbia influenzato l’immaginario collettivo del suo tempo. Mentre le personalità di Anselmo Ballester, Alfredo Capitani e Luigi Martinati sono state indagate ampiamente, stessa cosa non può dirsi per alcuni importanti cartellonisti italiani della cosiddetta seconda generazione, primo fra tutti Angelo Cesselon.11 La collezione di opere dell’archivio CSAC offre in questo senso una grande opportunità per l’analisi del materiale che il disegnatore ha elaborato in circa due decenni di attività, raccogliendo un numero cospicuo di bozzetti preparatori e schizzi. Lo studio approfondito dell’opera di Ballester ad opera di Quintavalle può, a pieno titolo, rappresentare un modello di riferimento per un’indagine non solo dell’opera di Cesselon, ma anche di quella degli altri cartellonisti attivi negli anni Cinquanta e Sessanta.
Forte della sua grande abilità come ritrattista – i suoi primi lavori come cartellonista risalgono infatti al 1945 –, Cesselon riuscì nel dopoguerra a rivoluzionare lo stile del cartellonismo italiano, con un linguaggio pittorico contraddistinto da una ricerca cromatica di indubbia matrice veneta. Fin da giovane, infatti, il disegnatore iniziò la sua attività seguendo il filone della pittura veneziana di fine Ottocento, caratterizzata da uno spiccato colorismo e da uno straordinario uso della luce e, allo stesso tempo, influenzata dalle contemporanee esperienze veriste che si andavano diffondendo in Italia e in Europa;12 tuttavia, si può notare che sulle sue opere pittoriche pesò anche l’influsso della tradizione cinquecentesca.13 Il trasferimento a Roma costituì sicuramente un fatto importante per la sua formazione di cartellonista, ma Cesselon si mantenne comunque sempre lontano dalla tendenza di altri disegnatori ad utilizzare spunti provenienti dal fumetto (Enrico De Seta) o da uno stile fotografico ispirato alle copertine delle riviste (Enzo e Giuliano Nistri), prediligendo una pittura più tradizionale, basata sull’espressività del ritratto e sul colore. Nonostante ciò, sotto certi aspetti, i suoi manifesti rappresentano una rottura con il passato, caratterizzato dalla tendenza – inaugurata dai padri della cartellonistica italiana – ad inserire diverse immagini che raccontavano la trama del film. A servizio della MGM, della Fox, della Paramount, dell’italiana Titanus e molte altre, Cesselon introdusse un linguaggio nuovo e dal forte impatto visivo che privilegiava la presenza di poche e grandi immagini.
Tralasciando, almeno in parte, il linguaggio pittorico utilizzato dal disegnatore, è interessante individuare i codici utilizzati in relazione non solo al film da pubblicizzare ma anche, e soprattutto, rispetto al genere cui la pellicola appartiene. Nel panorama del manifesto cinematografico italiano del secondo dopoguerra sembra infatti prevalere sullo stile del singolo autore la forma codificata del genere. (Attolini 1987: 13). La suddivisione delle storie in categorie analoghe e riconoscibili dal punto di vista degli aspetti visivi ed estetici si può rintracciare non solo nei film, ma anche nei manifesti. Nella produzione di Cesselon sono infatti simili tra loro i manifesti per il poliziesco e noir, genere abbastanza definito nei sui caratteri, dove troviamo una preminenza di tinte forti e scure come il nero, il viola, il rosso e un’allusione alla violenza, rappresentata metonimicamente da armi, pugni ed espressioni di forza.
Il film d’avventura invece difficilmente presenta colori “caratterizzanti” – che, com’è logico, variano notevolmente a seconda dell’ambientazione – ma si differenzia in base a quelle che si possono definire “sottocategorie”: se i manifesti per i film di «cappa e spada» devono il loro impatto visivo alla descrizione di tempi e luoghi “storicamente” definiti e agli eroici spadaccini in costume, l’avventuroso classico è spesso legato all’esotismo di terre lontane che ritroviamo nelle affiches sotto forma di templi, vegetazione e animali del luogo.
Per il western invece, tra i generi più caratteristici del cinema americano, Cesselon elabora soluzioni originali che rendono immediato all’osservatore il clima d’azione. Puntando su un taglio molto cinematografico, sui caratteristici costumi e sull’immagine dell’attore, il cartellonista tralascia i riferimenti al soggetto della pellicola.
Sul divo – più spesso la diva – sembra essere concentrata tutta l’attenzione nei manifesti per i film storici, il peplum in particolare. La scelta non è casuale. A metà degli anni Cinquanta, quando si hanno le maggiori produzioni di questo genere, il divismo cinematografico sta vivendo il suo periodo di massimo fulgore e nei film americani ed europei troviamo infinite declinazioni di dei ed eroi della mitologia, che rivivono nelle sembianze degli attori che li impersonano. Cesselon esalta in questo caso i volti delle dive e lo sfarzo dei costumi utilizzando i colori accesi del technicolor.
Nei manifesti per i melodrammi, invece, la mitizzazione dei rapporti sentimentali è il risultato dell’unione di tinte delicate che evocano il clima di malinconia con un’assenza assoluta del movimento (che caratterizza invece i generi d’azione) che blocca l’immagine in un istante simbolico. L’atmosfera dell’insieme risulta talvolta rarefatta. I diversi tipi di impedimento che conducono spesso ad una conclusione tragica sono lasciati quasi sempre all’immaginazione dell’osservatore, che li scoprirà guardando il film, mentre viene potenziata l’immagine degli innamorati – la coppia di divi – in primo piano.
Speculare al manifesto per il melodramma è invece quello per la commedia. Quando il film è sui toni sentimentali piuttosto che su quelli comici, Cesselon sintetizza il racconto affidandolo ad un segno realistico e mai caricaturale. I suoi lavori, spesso caratterizzati da una forte presenza del corpo femminile, rendono evidente l’apertura della commedia (poco riscontrabile negli altri generi) verso il mondo esterno, la moda e la società.
Gli esempi che seguono risalgono al periodo compreso tra il 1945 e il 1967. Questi bozzetti, prevalentemente ad immagine unica, non portano quasi mai il titolo del film, ma possono esserci d’aiuto una serie di indicazioni che l’autore segnava a matita sul verso o, meno spesso, sul recto del foglio. Si tratta talvolta di modifiche imposte dalle esigenze commerciali dell’industria cinematografica o, più spesso, dei nomi degli attori protagonisti e nascono in conformità con le regole dello star-system e con le formule comunicative stabilite dal sistema dei generi cinematografici.
1 Poliziesco e noir
L’importanza del divo è evidente nello studio a matita per un non specificato film con Anthony Quinn – ma è specificato sul verso il nome del protagonista – dove il volto dell’attore campeggia in modo eroico, quasi statuario, in mezzo a tre pugni che indicano, metaforicamente, il film d’azione. Nessun particolare della vicenda drammatica appare nel bozzetto, che è concentrato esclusivamente sul divo, sulla forza espressiva del suo volto. Stessa cosa può dirsi per lo studio di un film con Jean Gabin, dove il nome dell’attore è anche qui specificato sul verso. Cesselon affianca di nuovo al volto del protagonista il motivo delle tre mani, inserendo però questa volta anche una pistola. Al ritratto del divo viene quindi aggiunto un motivo classico che richiama il genere poliziesco, ma senza far riferimento al soggetto del film.
Sempre ascrivibile al filone del poliziesco-noir troviamo uno studio per il film Ricercato per omicidio (Cet homme est dangereux, 1953) di Jean Sacha. Per la seconda avventura cinematografica dell’agente dell’Fbi inventato da Peter Cheyney, Cesselon utilizza colori accesi e inserisce tutti gli elementi del genere – risse, pistole e belle donne – senza però svelare allo spettatore la trama del film. È curiosa la scelta di rappresentare una scena all’interno di un trapezio rosso che moltiplica, quasi fosse uno schermo nello schermo, il meccanismo della visione (lo stesso motivo geometrico viene utilizzato in altri bozzetti per film ascrivibili non solo al poliziesco, ma anche ad altri generi). Oltre alla brillantezza delle scelte cromatiche, che caratterizza tutta la sua produzione, Cesselon non svela mai all’osservatore i momenti salienti della vicenda, ma focalizza il racconto sulla figura umana e sul volto del protagonista, cogliendone tutta la forza espressiva.
2 Avventura
Il filone d’avventura è ben rappresentato dagli studi per il film di cappa e spada Il corsaro della mezza luna (1958) di Giuseppe Maria Scotese. Confrontando alcuni bozzetti a tempera possiamo notare i passaggi e le differenze tra varie versioni dello stesso soggetto. In nessuno dei quattro studi compare il titolo del film, che sarà poi aggiunto in giallo alla base di tutti i manifesti.
Nel primo esempio Cesselon colloca al centro un primo piano del protagonista, il corsaro saraceno Nadir el Krim impersonato dall’attore John Derek, inserendo alle sue spalle la figura di Angela (Ingeborg Schöner) che cerca di liberarsi dalla stretta del barone di Camerlata (Camillo Pilotto); domina la composizione la bandiera nera della mezza luna che si stacca dallo sfondo ed esce dal riquadro della rappresentazione, mentre in basso a sinistra troviamo una scena di battaglia e la sagoma del castello. In questa versione dai colori molto accessi, Cesselon inserisce elementi figurativi cardine del sottogenere (bandiere, spade, castelli), ma non dimentica di sottolineare che l’intreccio prevede anche scene romantiche (la storia d’amore tra il protagonista ed Angelica). Nel secondo studio il disegnatore elimina i riferimenti ai luoghi del racconto, collocando la vicenda in un indefinito paesaggio notturno dai toni “lunari”. In lontananza è rappresentato il duello finale tra Karim e il barone di Camerlata, mentre alle spalle del protagonista, sempre in primo piano, troviamo il volto velato di Angelica, preso dalla sequenza ambientata sul veliero. Esiste una versione definitiva, in locandina, che è il risultato della “fusione” di questi primi due studi: il ritratto di tre quarti del protagonista in primo piano (preso dal primo bozzetto) viene unito alle figure di Angelica e del barone di Camerlata del secondo bozzetto. In lontananza, il riferimento geografico è affidato alla sagoma del castello, mentre nella bandiera la luna del titolo lascia il posto ad un teschio corsaro.
Altri due studi per Il corsaro della mezza luna presentano un’impostazione del tutto diversa. Nel primo caso l’eroe, sempre in primo piano, è rappresentato nell’atto di sfoderare la spada; la grande bandiera alle sue spalle è sparita, sostituita dalla sottile sagoma nera della luna e da un grande rettangolo azzurro; sullo sfondo ritroviamo la sagoma del castello, ma mancano riferimenti alle scene di battaglia. L’ultimo bozzetto è una versione rivista e modificata del precedente: l’atteggiamento e la posizione di John Derek restano immutati, ma in lontananza, vicino al castello viene aggiunto il veliero del corsaro. Sparisce il grande rettangolo azzurro, sostituito dalla bandiera nera del pirata. Confrontando questo ultimo caso con il manifesto vero e proprio possiamo dire con molta probabilità di trovarci di fronte a quella che sarà la versione definitiva. Cesselon semplifica notevolmente il racconto, limitandosi a pochissimi elementi riconducibili al genere e compiendo un’operazione di mitizzazione del protagonista.
Per un altro film ascrivibile al genere d’avventura, Ponte di comando di Lewis Gilbert (H.M.S. Defiant, 1962), Cesselon realizza due bozzetti a matita. In entrambe le versioni troviamo l’immagine di Alec Guinness ritratto dal basso con al capo il bicorno tipico dell’epoca napoleonica. Nel primo studio i due personaggi sono disposti su una linea diagonale: il volto del capitano Crawford (Alec Guinness) è collocato in alto al centro della composizione, mentre quello del tenente Scott-Padget (Dirk Bogarde), ritratto di profilo, è in basso a destra; questa volta il titolo del film è inserito a matita in un angolo, mentre il resto del foglio è occupato dai cordami e dalle battaglie dell’avventura marinara. Nel secondo bozzetto invece il volto del capitano Crawford è collocato in basso a desta, in primo piano, affiancato dal titolo del film e messo in risalto da una soluzione originale: più in alto infatti le spade di due duellanti si incrociano creando una sorta di “cornice” attorno alla figura di Guinnes. Lo sfondo è lasciato alla rappresentazione dell’ambiente del film: il mare e il vascello inglese sul quale si svolge l’azione. Nei manifesti esistenti del film, l’unico ritratto rimasto è quello di Guinnes; in una versione affiancato da un vascello dai toni scuri, nell’altra versione, più affollata, inquadrato da una scena di scontro navale.
Per concludere con il genere avventuroso analizziamo alcuni studi a matita per il film Lord Jim (id., 1965) di Richard Brooks. Il primo bozzetto mostra il protagonista, Lord Jim (Peter O’Toole), in piedi al centro del foglio con le gambe aperte, la camicia sbottonata e la giacca sulla spalla; Cesselon colloca tutt’attorno alla sua figura gli altri personaggi della vicenda e aggiunge un primo piano del volto del divo. Nel secondo bozzetto gli elementi del racconto, i personaggi e alcuni accenni all’ambientazione esotica del film, come templi e piante tropicali fanno da sfondo alla figura di O’Toole, collocata ancora al centro della composizione ma, questa volta in scala molto più grande. In entrambe le versioni la parte inferiore del foglio (circa un terzo dello spazio complessivo) è dedicata al titolo del film. È molto probabile che Cesselon si sia ispirato ai manifesti inglesi del film, nei quali ritroviamo molti degli elementi qui analizzati.
Il terzo bozzetto presenta invece un’impostazione del tutto diversa: Lord Jim non è più rappresentato in piedi, ma impegnato in una lotta con un coltello nella mano. Anche in questa versione Cesselon inserisce alcuni elementi della vicenda. Alle spalle di Lord Jim è stato aggiunto un veliero, ma ritroviamo la sagoma del tempio orientaleggiante, qualche figura e un accenno alla vegetazione tropicale. La scena della lotta ritorna nel quarto studio per il film di Richard Brooks, dove Cesselon elimina la figura intera e la rimpiazza con un primo piano di O’Toole. Alle sue spalle il grande volto della ragazza amata, che come un primo piano cinematografico rapisce lo sguardo dell’osservatore e sembra dominare la composizione. Dei quattro studi, il terzo (che venne scelto dalla committenza) è sicuramente quello che riesce ad evocare meglio il contesto avventuroso della vicenda e allo stesso tempo riesce a non anticipare allo spettatore troppe informazioni sulla complessa trama.
3 Western
Esistono soluzioni particolari che Cesselon utilizza in comunione con i motivi classici del genere, creando talvolta delle soluzioni tutt’altro che scontate; ciò è evidente soprattutto nei manifesti dedicati al genere che più si avvicina all’avventuroso dal punto di vista strutturale, il western. Per il film Il cacciatore di fortuna (The outcast, William N. Witney, 1954) Cesselon adotta una soluzione di grande impatto visivo dividendo il racconto in due registri sovrapposti. Il film narra la vicenda di Jet Cosgrave (John Derek) che, dopo una lunga assenza al paese, torna reclamando il ranch del quale lo zio (Jim Davis) si era a suo tempo impossessato. Nella parte superiore è descritto un misterioso gioco di sguardi tra i due personaggi maschili e la donna contesa (Joan Evans). Nella parte inferiore invece è inserita una scena d’azione, con uomini impegnati in una sparatoria. Il punto di vista molto ribassato – l’osservatore sembra essere collocato ai piedi del personaggio in primo piano – e i cowboy in corsa, conferiscono alla scena un dinamismo senza eguali. È probabile che per la parte inferiore Cesselon si sia servito di un fotogramma o di una foto di scena. In questo bozzetto le figure sono disposte secondo linee diagonali, che si incrociano evidenziando i rapporti tra i personaggi. Ancora una volta poi gioca un ruolo importante la scelta del colore: non troviamo i toni caldi tipici del film western e dei suoi manifesti, ma un vortice di colori freddi (grigio, verde, beige); inoltre il rosso della camicia e il blu della bandana dello zio (Davis) sono ripetuti con un chiasmo visivo nell’abbigliamento del nipote (Derek), che porta invece una camicia blu e una bandana rossa. Questo espediente crea un contrasto cromatico dal chiaro intento simbolico. Se si confronta il bozzetto del film con uno dei manifesti in lingua originale ci si rende conto del carattere innovativo del lavoro di Cesselon e della distanza che lo separa da altri cartellonisti a lui contemporanei.
L’autore riesce a volte anche a semplificare il racconto limitandosi a pochi ed essenziali elementi. È il caso di un altro film western, L’ultimo Apache (Apache, 1954) di Robert Aldrich, in cui il grande volto rosso del pellerossa Massai (Burt Lancaster) spicca su fondo bianco. Ampio spazio è riservato al titolo che evoca l’ambiente del film attraverso lettere dell’aspetto di trochi. Trattandosi di una star internazionale non ci stupisce che il nome del protagonista sia scritto a caratteri molto grandi, ma ci colpisce invece la scelta di rappresentare solo il volto di Lancaster – che era allora in strepitosa forma fisica e nel momento più “eroico” della sua carriera –. Anche in questo caso Cesselon si serve della sua grande capacità di ritrattista e gioca sul contrasto di colori (blu per le scritte e per la gonna della ragazza, rosso per il volto di Massai) creando una composizione intensa, equilibrata e di grande impatto visivo.
Interessante è infine la soluzione adottata nel 1961 per una riedizione del film di Sergej Ejzenstejn Lampi sul Messico (Thunder Over Mexico, 1933). Il grande bozzetto (cm.70x100), dallo straordinario taglio cinematografico, mostra tre messicani in piedi appoggiati contro un imponente muro chiaro, come in una scena di fucilazione. Il punto di vista molto ribassato conferisce imponenza alle tre figure e più ancora al muro alle loro spalle – che occupa quasi la totalità dello sfondo –, mentre i colori intensi dei tre poncho restituiscono, grazie ad uno stacco netto rispetto ai toni lividi del paesaggio, il senso della separazione e della distanza degli uomini dall’ambiente che li circonda. Con una scelta cromatica che trasmette un vago senso di tristezza e di desolazione, Cesselon aggiunge un triangolo di cielo in tempesta, traducendo in immagine il titolo del film.
4 Storico
Passando al filone dei film “storici” troviamo alcuni bozzetti per i film peplum. Cesselon compie in questi casi un’operazione mitizzante nei confronti dei personaggi femminili, specie quando si tratta di star internazionali. È il caso di Elizabeth Tayolr nel colossal di Joseph L. Mankiewicz, Cleopatra (id., 1963), per il quale il disegnatore realizza un bozzetto a matita. La Taylor, dal volto inconfondibile, è ritratta in primo piano, distesa su un oggetto che non ci è dato vedere, in una posizione che ricorda molto quella del manifesto realizzato per lo stesso film da Howard Terpning, al quale Cesselon si è forse ispirato. Alle spalle di Cleopatra le figure di Giulio Cesare (Rex Harrison) e Marco Antonio (Richard Burton), sono chiaramente ispirate alla statuaria romana.
La stessa operazione di mitizzazione è compiuta per Anita Ekberg, nei panni di Zenobia regina di Palmira, nel film Nel segno di Roma (1958) di Guido Brignone. Si tratta questa volta di un bozzetto a tempera di grande formato (cm.70x100). In primo piano è occupato dalla figura a cavallo di Marco Valerio (Georges Marchal) ma alle sue spalle, il grande ritratto della diva, nella dorata armatura della scena della battaglia finale, costituisce vero centro focale della composizione. I colori che caratterizzano i due personaggi sono fortemente in contrasto, quasi a rappresentare la distanza che li separa: la chioma bionda della Ekberg, la sua pelle chiarissima, l’oro del copricapo e dell’abito stridono con i colori accesi (rosso e viola) del console romano. Non è certo casuale la scelta di rappresentare Marco Valerio in questo modo: nella vicenda il console viene fatto prima schiavo, poi è accolto alla corte di Zenobia, dove lo vediamo vestito da siriano e per qualche momento viene messa in dubbio la sua lealtà a Roma, ma alla fine il guerriero torna ad indossare gli abiti romani e salva l’esercito della città eterna da una disfatta annunciata. Il contrasto tra la fedeltà a Roma e l’amore per la regina di Palmira è ciò che tormenta il protagonista, che riuscirà alla fine della vicenda ad ottenere entrambe le cose. Nel manifesto Marco Valerio è rappresentato in tutta la sua romanità. In un primo momento il disegnatore aveva pensato di aggiungere anche una terza figura, la ballerina ed attrice cubana Chelo Alonso che nel film interpreta la serva Erica. Possiamo ipotizzare che questa scelta sia stata dettata forse più dal richiamo che la figura della bella donna semisvestita poteva rappresentare per l’osservatore, che per l’importanza rivestita dal personaggio nella storia. Tuttavia, nel bozzetto definitivo l’immagine della serva-odalisca viene effettivamente eliminata a favore di quella romanità tanto importante nel film, che ritorna sullo sfondo in una serie di insegne imperiali, aquile e sigle.
Più ricco di particolari è in vece il bozzetto per il peplum di Primo Zeglio, Io, Seramide (1962). Fulcro della rappresentazione è il grande trono riccamente decorato sul quale si erge maestosa la regina degli assiri (Yvonne Furneaux). Di fronte a lei, in ginocchio, è raffigurato Kir (John Ericson), il principe reso schiavo che verrà ucciso da Seramide. Sappiamo che il bozzetto in questione è stato poi scelto dalla committenza e utilizzato per la promozione del film, si tratta quindi di una versione quasi definitiva. Gli abiti dei due personaggi sono descritti con minuzia, mentre sul fondo sono accennati alcuni edifici della grande città di Babilonia che si sta edificando. Le tinte forti dello sfondo e del trono creano un contrasto con l’abito bianco di Seramide e ne mettono in risalto la figura. Come nel caso del film Nel segno di Roma, Cesselon media il discorso attraverso un uso particolare e fantasioso dei colori, che risulta assai più libero nel bozzetto che nel prodotto finito del manifesto. Nei lavori per questo genere di pellicole sono rari gli accenni ai luoghi in cui è ambientata la vicenda, pochi i particolari che mettano in risalto il carattere di kolossal storico del film, nessuna enfatizzazione dell’esotico, se non in alcuni casi.14 Al contrario questi esempi mostrano una predilezione per il ritratto e la connotazione – spesso psicologica – dei personaggi principali.
5 Melodramma e Commedia
È evidente che nei manifesti di Cesselon l’attore è il fulcro della composizione, anche se i nomi degli interpreti difficilmente compaiono negli studi preparatori. In taluni casi però, cioè quando si tratta di opere estremamente popolari, il disegnatore non manca di inserire altre indicazioni. Ne è un esempio il bozzetto per il film I promessi sposi (1963) di Mario Maffei. Oltre ad inserire il nome di Alessandro Manzoni, in alto sopra il titolo del film, Cesselon costruisce il racconto col chiaro intento di ricordare all’osservatore la derivazione letteraria della pellicola. Il manifesto stesso si presenta come un grande libro sulla cui copertina troviamo alcuni personaggi della storia, con Renzo e Lucia in primo piano.
Tralasciando il caso singolare de I promessi sposi, è interessante vedere come Cesselon si orienta nel caso di due generi cinematografici che si possono definire sentimentali, il melodramma e la commedia. Nello studio per il film di Tay Garnett La valle del destino (The Valley of Decision, 1945) troviamo raffigurata al centro del foglio la coppia di amanti che guarda in lontananza. La pellicola narra la tormentata storia d’amore tra una domestica (Greer Garson) e un giovane rampollo (Gregory Peck), i cui padri si odiano rispettivamente. Dalle espressioni dei due giovani capiamo che il loro amore è tormentato e non ci occorre andare molto lontano per trovare la causa della loro infelicità: alle spalle dei due amanti infatti l’autore inserisce il ritratto del vecchio padre che sembra guardarli con severità. La descrizione del paesaggio è affidata a delle cime in lontananza e alla sagoma di un albero, con una soluzione che non può non ricordare le ambientazioni del classicissimo Via col vento.
La sagoma grande e scura della pianta e la coppia di amanti ritornano, a distanza di dieci anni, nel bozzetto per un altro melodramma, questa volta di Henry King, L’amore è una cosa meravigliosa (Love Is a Many-Splendored Thing, 1955). Al centro della composizione le figure dei due giovani sembrano essere immerse nella natura circostante, che è tuttavia solamente accennata. Cesselon sfodera le sue doti di ritrattista nella parte alta del manifesto, dove colloca i volti dei due personaggi, William Holden e Jennifer Jones, inquadrati da una cornice di filo spinato, che potrebbe alludere simbolicamente al senso di prigionia e di dolore nel quale essi vivono.
Nei manifesti di Cesselon il corpo femminile è restituito in tutta la sua sensualità, ne sono un esempio alcuni studi che mostrano attrici svestite e pose provocanti.
Per il film di Claude Autant-Lara La ragazza del peccato (En cas de malheur, 1958) Cesselon adotta una soluzione decisamente innovativa, dove la chioma bionda di Brigitte Bardot esce dal riquadro del manifesto e occupa lo spazio sottostante, creando un effetto di tridimensionalità. L’originalità della composizione è data dalla disposizione dei tre personaggi principali – Bardot, Gabin, Interlenghi (è bene notare che tra i manifesti definitivi sia italiani che internazionali sono pochissimi i casi in cui sia stato inserito il personaggio interpretato da Interlenghi) – e contemporaneamente si dispongono su piani successivi: abbiamo così la chioma e il volto di Yvette (Bardot) in primo piano, il profilo di Mazetti (Interlenghi) in secondo piano e il volto cupo dell’avvocato Gobillot (Gabin) sullo sfondo. Cesselon gioca ancora una volta sul colore, passando dai toni vivaci della Bardot ad una sorta di monocromo blu del volto di Gabin, quasi a sottolineare la distanza tra la ragazza, morta troppo giovane, quando ancora era piena di bellezza e l’avvocato, un uomo quasi anziano, ormai stanco, che dopo essersi innamorato di Yvette è costretto a tornare dalla moglie. L’impostazione del manifesto potrebbe anche sottolineare lo storico confronto che si viene a creare nel film tra due miti del cinema francese: uno al tramonto (Gabin) e l’altro in ascesa (Bardot). Possiamo confrontare il bozzetto preso in esame con il manifesto vero e proprio firmato dal disegnatore: fatta eccezione per i colori, l’unica differenza del bozzetto è una piccola silhouette nera della Bardot, completamente svestita, in una posizione molto sensuale, sulla destra della scena principale. Nella versione definitiva, la grafica sintetica della silhouette lascia il posto ad una Yvette questa volta elegantemente vestita, seduta a gambe accavallate. La sagoma della Bardot, considerata forse “troppo sexy” per gli standard morali dell’epoca, potrebbe essere stata modificata con un intervento di censura. Troviamo una soluzione simile nel bozzetto per il film Lo scocciatore (Via Padova 46) del 1953, dove il corpo disteso di Arlette Poitier sembra uscire dal manifesto. Alle sue spalle la figura in monocromo dello sventurato protagonista maschile (Peppino De Filippo) ricorda quella di Jean Gabin nel manifesto sopra descritto. La chioma bionda e il corpo semi svestito dell’attrice catturano lo sguardo dell’osservatore che, come il protagonista del film, resterà forse deluso quando capirà che la vicenda avrà risvolti ben diversi da quelli previsti.
Se nei due casi precedenti il personaggio femminile è parte della composizione, ma non centro focale, nel manifesto del film di Steno Susanna tutta panna (1957) Cesselon inserisce una Marisa Allasio in ginocchio, al centro del riquadro, con le braccia raccolte dietro la testa. Il suo corpo formoso e statuario illumina la composizione, caratterizzata da un paesaggio notturno in lontananza. Alle sue spalle un quadrato verde, che sembra quasi una “finestra” che inquadra e rischiara il volto e il busto dell’attrice, ne accentua l’incarnato. Ancora una volta il contrasto dei colori (accesi e intensi per l’attrice, scuri per l’ambiente) stacca la figura centrale dal resto della composizione con un chiaro intento simbolico: l’Allassio si fa oggetto del desiderio non solo nella vicenda, ma anche per il passante che percorrendo le vie della città non può non fermarsi a contemplare il suo corpo perfetto. Come in altri manifesti dell’autore15 troviamo qui il motivo delle mani, che entrano nel disegno circondando la protagonista.
Interessante è anche uno studio per il film italo-francese La prima notte (1959) di Alberto Cavalcanti, che unisce il voyerismo alle regole dello star-system. Il bozzetto ha un’impostazione orizzontale (68x97 cm) che richiama il formato totalscope del film. Una Venezia romantica e notturna (il film si ispira infatti al romanzo Les noces venitiennes di Abel Hermant) fa da sfondo ad una scena d’amore tra Martine Carol e Philippe Nicaud. La figura intera dell’attrice, distesa su un letto in primo piano e inserita in un contesto di ricco cromatismo, domina la composizione. Oltre all’immagine della donna seminuda e provocante, Cesselon aggiunge anche un secondo elemento di persuasione e richiamo per lo spettatore: si tratta del ritratto di Vittorio De Sica, situato alle spalle della coppia di amanti. È interessante notare le differenze tra il bozzetto di Cesselon e il manifesto di Enrico De Seta per lo stesso film. De Seta opta per una soluzione originale ma certamente meno audace, che mette – è vero – in evidenza una Carol in sottoveste nera (quella di Cesselon è invece bianca), ma che punta a smorzare i toni, assicurando più spazio alla descrizione del luogo della vicenda che alla presenza femminile (inserisce infatti una grande gondola galleggiante sulle acque scure del mare veneziano).
Per la promozione del film Cesselon elaborò anche un secondo bozzetto (non presente nell’archivio CSAC), dove la procace Martine Carol, di nuovo stesa sul letto, sembra sporgersi verso lo spettatore. Alle sue spalle ritroviamo De Sica e Nicaud, ed è stato aggiunto un piccolo cofanetto con gioielli, che accenna al furto – programmato ma non riuscito – della vicenda. Pur essendo meno esplicito il riferimento all’avventura amorosa, il disegno mantiene comunque una certa audacia, specie se si pensa alle norme morali dell’epoca. Entrambi i lavori non vennero scelti dalla committenza ed è legittimo pensare che si tratti di censura, dal momento che anche il film stesso venne colpito da interventi censori.16
Stesso discorso non può essere fatto per il film L’Harem (1967) di Marco Ferreri, per il quale Cesselon sperimentò diverse soluzioni prima di arrivare a quella definitiva. A questa data il disegnatore poteva permettersi una libertà ben più ampia nel rappresentare la figura femminile rispetto a quella degli anni Cinquanta. Ne sono un esempio non solo i due studi preparatori presenti nel fondo CSAC, ma anche i manifesti definitivi del film. Carroll Baker è centro focale di tutti e quattro i lavori: nel primo bozzetto l’attrice è sulla punta dei piedi, con le gambe leggermente aperte e indossa una maglia dallo scollo molto profondo; alle sue spalle, ancora a matita, i protagonisti maschili (moderni voyeurs con i quali l’osservatore si identifica) le lanciano occhiate di approvazione; nel secondo bozzetto l’immagine della Baker, in una posizione simile a quella precedente ma con le braccia verso l’alto e vestita in modo diverso, diventa parte integrante del titolo: le sue gambe si colorano di blu trasformandosi in una grande “A”. I volti dei protagonisti maschili sono questa volta inseriti in piccoli rettangoli colorati, disseminati nello spazio bianco del manifesto quasi fossero delle fototessere che sottraggono personalità e virilità, equiparandoli ad insignificanti figurine (Cesselon utilizza l’espediente dei rettangoli-fototessere in altri suoi lavori).
Meno originali i manifesti definitivi.17 In uno di questi la Baker, stesa su un letto ed intenta ad osservare davanti a lei le fotografie dei quattro uomini, sembra stia compiendo una scelta tra prototipi maschili; il secondo manifesto invece reintroduce il tema della donna desiderata, con l’attrice semi nuda adagiata su una poltrona e coperta solo da una pelliccia bianca. I quattro uomini la circondano, osservandola come fosse una preda. Anche nel caso del film L’Harem possiamo affermare che Cesselon punta più sul richiamo costituito dall’attrice che sulla narrazione della vicenda.
Il mondo della commedia cinematografica, in particolare quella americana, è spesso un mondo elegante, che l’autore ricostruisce attraverso un gusto del colore e del costume assai attento alla moda e all’arte del tempo. L’Optical art entra infatti da protagonista nel manifesto per il film di Stanley Donen Arabesque (id., 1966), che dietro l’apparente semplicità della composizione cela invece un complesso gioco di piani sovrapposti. Una sorta di scatola prospettica bianca e nera (richiamo forse all’arte di Vasarely) cattura lo sguardo dell’osservatore e lo conduce verso il volto di Sophia Loren, che si colloca in profondità. A questo primo elemento se ne aggiungono altri due che suggeriscono il motivo avventuroso-di spionaggio del film: la mano che impugna la pistola sulla destra e i due protagonisti in corsa in primissimo piano. Cesselon sovrappone ad un fondo statico, un primo piano dinamico dove un movimento centripeto (la mano) e un movimento centrifugo (i protagonisti in corsa) sono messi in relazione tra loro: la pistola punta infatti nella direzione dei due attori. Portando alle estreme conseguenze il superamento della bidimensionalità, l’artista ha saputo creare, con questa immagine, un manifesto dal fortissimo impatto visivo.
Il cartellonista elabora per lo stesso soggetto un secondo manifesto dal taglio nettamente più classico. Nella parte superiore i grandi volti dei due protagonisti primeggiano sullo sfondo (che nella versione definitiva sarà caratterizzato da un ricco cromatismo), mentre al centro della composizione troviamo la figura di Gregory Peck in movimento, presa forse da una foto di scena. Il motivo geometrico ritorna questa volta in una grande scacchiera ai piedi di Peck, ma il riferimento all’op art sembra essere sparito. I due manifesti di questo film affrontano in modo diverso uno dei temi preferiti dell’autore, il volto umano. Se da un lato la scelta del primo piano potrebbe essere dettata dalla forza persuasiva rappresentata dalla presenza di due attori del calibro della Loren e di Peck, sappiamo anche che il primo e il primissimo piano caratterizzano fortemente tutta la produzione di Cesselon e la differenziano da quella di altri disegnatori. In questo caso poi l’originalità è tanto più evidente se si considerano i manifesti prodotti per lo stesso film negli Stati Uniti, in Francia e in Spagna, che ripropongono, in contesti cromatici diversi, la stessa immagine degli attori a figura intera, con un Gregory Peck-James Bond e una Sophia Loren-femme fatale.
Concludendo, possiamo affermare che Cesselon sembra adeguarsi ad una rappresentazione rivolta maggiormente all’effetto emotivo che il film suscita, alla sintesi del racconto in poche ed essenziali immagini e alla rappresentazione delle passioni che lo animano, piuttosto che all’astrazione simbolica del contenuto o alla narrazione del film. Un preciso sistema di scrittura, un determinato uso del colore e l’utilizzo di convenzioni di vario tipo corrispondono sempre a pellicole di un certo contenuto. Come già ribadito sopra, grazie ai suoi lavori è possibile rintracciare una visione di genere non soltanto nella messa in scena del film, ma anche nei manifesti cinematografici. Lo “schema figurativo” di ogni singolo lavoro è il risultato di un compromesso tra il linguaggio pittorico dell’autore e gli elementi inseriti a beneficio di una formula di richiamo stereotipata, riferita ai codici di genere e al divismo. Cesselon si mantiene certo entro i limiti imposti dall’industria cinematografica e, all’interno dei questi confini, riesce, nella maggior parte dei casi, ad affermare la propria identità artistica, la propria capacità di ritrattista e la propria sensibilità. Nei suoi lavori tutti gli elementi si rapportano tra di loro creando un effetto di grande dinamismo. Rispetto ad altri cartellonisti, preoccupati più di rappresentare nelle loro illustrazioni la storia ed il senso del film, Cesselon procede selezionando elementi iconografici in grado di incuriosire l’osservatore ed attirarlo in sala. Molto resta ancora da indagare per una panoramica del riflettersi della storia del cinema nell’opera di Cesselon. Il numero dei bozzetti presi in esame è certamente esiguo rispetto alla vastità del materiale che questo grande cartellonista ci ha lasciato, tuttavia possiamo affermare che nel suo caso l’informazione veicolata dal manifesto non trasgredisce quasi mai i reali contenuti del film a vantaggio di una formula di richiamo stereotipata che faccia riferimento solo ai codici imposti dal genere. La propria vocazione artistica, poi, riconosce nel volto e nel corpo del divo la più forte e suggestiva presenza del manifesto.
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Le opere citate e rappresentate in questo intervento sono proprietà del Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma. https://www.unipr.it/.↩
Il Centro Studi e Archivio della Comunicazione è stato fondato da Arturo Carlo Quintavalle nel 1968. La sua attività è volta alla costituzione di una raccolta di arte, fotografie, disegni di architettura, design, moda e grafica, all’organizzazione di numerose esposizioni e alla pubblicazione dei cataloghi. Dal 2007 ha sede presso l’Abbazia di Valserena, a pochi chilometri da Parma. https://www.csacparma.it/↩
Il fondo Ballester conservato nella Sezione Media del CSAC consta di 2.217 opere tra bozzetti, schizzi e manifesti cinematografici prodotti dagli anni Dieci alla fine degli anni Cinquanta del Novecento. Le opere sono state in parte donate al CSAC dalla figlia Liliana assieme alla sorella Glori nei primi anni ottanta. In seguito il CSAC ha acquistato un nucleo di 176 pezzi originali tra schizzi, bozzetti, manifesti e locandine.↩
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Della Torre, Roberto (2014). Invito al cinema. Le origini del manifesto cinematografico italiano (1985-1930). Milano: Educatt.↩
Per la bibliografia e le mostre su Angelo Cesselon: http://www.archiviocinemacesselon.oneminutesite.it/.↩
Mi riferisco al verismo francese, alla pittura macchiaiola e al realismo italiano.↩
Quella del Tintoretto soprattutto.↩
Si veda il manifesto per il film Nerone e Messalina (1953) di Primo Zeglio.↩
Si veda il manifesto per il film Io ti salverò (Spellbound, 1948) di Alfred Hitchcock.↩
Sul visto di censura del 5 febbraio 1960 si legge: “Ridurre notevolmente la scena nella camera da letto tra la Carol e l’atleta; eliminare la scena dell’austriaco che entra in casa della giovanetta da questa ivi condotto; cambiare il testo della battuta con la quale il professore vuole avere un appuntamento e la parte ove questo tenta approcci”.↩
Si confrontino i due manifesti esistenti con i bozzetti qui analizzati.↩