Tra gli scrittori del panorama europeo contemporaneo Emmanuel Carrère è uno di quelli il cui universo sia personale che artistico è intimamente intrecciato al cinema. Il suo ricco e articolato percorso professionale, che lo ha visto negli anni prima giovane critico cinematografico, poi romanziere e sceneggiatore per il cinema e la televisione e persino regista, testimonia in modo esemplare l’incontro e l’intreccio, sotto molteplici forme, tra letteratura, cinema e audiovisivo. Il cinema, in particolare, nutre da sempre e incessantemente il mondo figurativo di Carrère la cui scrittura, concisa ed efficace, sembra in alcuni casi procedere innanzi tutto per immagini, legate soprattutto, almeno nei primi romanzi, ad atmosfere inquietanti e grottesche.
La Settimana bianca (La Classe de neige), pubblicato nel 1995, fa parte del primo periodo della produzione dell’autore francese, e si distingue per essere un’opera dalla particolare forza visiva la cui costruzione romanzesca, apparentemente chiara ed essenziale, rivela invece al suo interno meccanismi narrativi e identificatori complessi che si aprono a numerose e diverse chiavi di lettura.
In questo romanzo il lettore è immerso gradualmente nell’universo del protagonista Nicolas, un bambino timido e introverso che parte in settimana bianca con i maestri e i compagni di classe, senza sapere che questa esperienza si rivelerà un vero e proprio incubo. Alla fine, infatti, di quella che avrebbe dovuto essere una vacanza piacevole e spensierata, il ragazzino verrà a conoscenza di una verità agghiacciante e indicibile che riguarda direttamente la sua famiglia, ovvero che suo padre è un assassino.
La straordinaria potenza narrativa di questo breve romanzo spinge Carrère ad adattarlo per il grande schermo collaborando con il cineasta francese Claude Miller, che ne farà un film qualche anno più tardi. La diversità tra l’opera di origine e il lavoro di adattamento di Carrère per la pellicola girata da Miller (che non contiene, per esempio, alcun riferimento a un breve ma importante capitolo del libro ambientato vent’anni più tardi rispetto ai fatti relativi alla settimana bianca del racconto), dimostra l’estrema libertà dello scrittore, che fa del film una vera e propria reinterpretazione del proprio lavoro letterario. Come ha potuto osservare Fabien Gris a questo proposito, l’attività cinematografica si rivela per Carrère come una sorta d’esplorazione e d’indagine sulle possibilità del testo iniziale: è come se lo scrittore “provasse” il proprio romanzo al cinema, e quest’ultimo offrisse al testo delle nuove virtualità narrative ancora sconosciute all’autore stesso (Gris 2012). Il cinema, in altre parole, si rivela per Carrère un utile medium attraverso il quale intraprendere sentieri ancora inesplorati eppure già presenti, potenzialmente, nel testo di origine, che nel film riescono a manifestarsi in modi inattesi.
Tutto ciò porta anche a riconoscere come la figura dello scrittore contemporaneo sia sempre più quella di un artista polivalente che può lanciarsi con disinvoltura dalla creazione letteraria a quella cinematografica, utilizzando queste esperienze come occasioni di reinterpretazione dei propri testi e di apertura verso nuovi percorsi narrativi. Come evidenzia ancora Fabien Gris, il film e il libro sono per Carrère due elementi di una stessa variazione sul tema, e procedono attraverso le stesse interrogazioni a cui rispondono formando un insieme indivisibile che è un’esplorazione di tutte le possibilità narrative, figurative e mediatiche del racconto.
Quest’ultimo aspetto è particolarmente evidente se si pensa proprio a La Settimana bianca in cui Carrère, per il libro come per il lavoro di adattamento cinematografico, intraprende una vera e propria riflessione metanarrativa sulla funzione del racconto, sia esso letterario o audiovisivo.
L’opera, infatti, che può essere letta in vari modi, per esempio come la storia del difficile rapporto tra un padre e suo figlio, o quella del percorso di maturazione del protagonista, del suo passaggio dall’infanzia alla consapevolezza dell’età adulta, o ancora, come un viaggio attraverso l’universo immaginativo infantile, è innanzi tutto un testo che riflette sul significato e sulle forme del racconto, sulla narrazione e sul suo potere affabulatorio, soffermandosi sul confine tra il reale e la sua rappresentazione. Il racconto, e più precisamente l’atto del raccontare, rappresenta non solo il perno intorno al quale si giocano e si evolvono i rapporti tra i personaggi, ma diventa anche uno strumento importante per la soluzione inattesa di un enigma.
1 Dalla finzione a nuove forme di realismo d’inchiesta
All’interno della produzione letteraria di Carrère La Settimana bianca segna, come è noto, una svolta rilevante, ovvero l’abbandono almeno parziale del territorio della finzione – composta interamente di personaggi e situazioni fittizie – e la creazione di una nuova forma di scrittura ibrida e intrigante che parte dalla veridicità di fatti realmente accaduti e che, come lo stesso scrittore ha ricordato parlando del rapporto tra finzione e non-finzione, implica l’intenzione di “fare i nomi”1, ovvero di non servirsi di personaggi dai nomi inventati ma chiamare le persone col loro nome proprio, atto che implica una certa responsabilità dell’autore e un “patto di lettura” diverso con il lettore. In questo senso La Settimana bianca è in parte un romanzo di preparazione al successivo, L’Avversario (L’Adversaire), di cui rappresenta in qualche modo sia la prefazione che la postfazione, e con cui condivide alcune ansie e alcuni elementi figurativi, in primis l’immagine perturbante ed enigmatica di un padre assassino che vaga inquieto nella foresta. Del resto, nella narrazione, proprio a proposito del bianco, motivo figurativo che circonda e avvolge la figura dell’assassino, e a proposito del legame tra La Settimana bianca e L’Avversario, Carrère scrive in quest’ultima opera, riferendosi all’immagine del protagonista Jean Claude Romand:
[…] je pensais à La Classe de neige […] je pensais au grand vide blanc qui s’était petit à petit creusé à l’intérieur de lui jusqu’à ce qu’il ne reste plus que cette apparence d’homme en noir, ce gouffre d’où s’échappait le courant d’air glacial qui hérissait l’échine du vieux dessinateur. (2001: 56-57)2
Pochi anni dopo sarà proprio questo universo figurativo a mettere in relazione La Settimana bianca di Carrère con il film di Claude Miller. Due lavori che, con mezzi espressivi diversi e complementari, fanno riflettere sul potere della narrazione come atto che interpella l’immaginazione e che conduce alla verità, una verità già avvertita dal protagonista e in parte dai lettori-spettatori, e che aspetta solo di essere svelata, indizio dopo indizio.
Quello che sembrerebbe un semplice racconto del sospetto, scritto seguendo la struttura della suspense, si rivela un’opera complessa pur nella sua linearità narrativa, in cui il dramma del protagonista Nicolas, che scoprirà suo malgrado il vero volto di suo padre, è centrale eppure si sviluppa ‘fuori campo’, grazie a un meccanismo di scrittura che dissemina indizi ordinari e inquietanti, e grazie all’assenza di un’analisi introspettiva e psicologica dei personaggi, di cui percepiamo però il malessere inteso come sintomo di qualcosa di più grande e inaccessibile. In questo senso La Settimana bianca fa parte di quei romanzi che, come hanno osservato Dominique Viart e Bruno Vercier analizzando le maggiori tendenze della letteratura francese di oggi, introducono un granello di sabbia nella meccanica ben rodata della rappresentazione della realtà e ne mostrano in questo modo le faglie, costruendo storie in cui la più piccola modifica nella routine quotidiana, il più microscopico fatto apparentemente insignificante fa precipitare tutto, trascinando con sé i personaggi e il loro destino (Viart e Vercier 2005).
Come nel precedente romanzo Baffi (La Moustache), anche qui Carrère torna a esplorare i legami tra il sorprendente e l’ordinario, il misterioso e l’abituale, l’incomprensibile e il familiare, e costruisce su quest’ultimo un’aurea di perturbante. Una strana inquietudine percorre infatti il romanzo sin dalle prime pagine in cui si apprende, in maniera esplicita, che “la settimana bianca sarebbe stata una prova terribile” (1995: 20).
2 Un racconto intorno al non-detto
La costruzione del racconto parte da qui, dalla costruzione di un’atmosfera angosciante diffusa di cui non è nota l’origine precisa, la causa, ma la cui presenza è palpabile; come ha osservato Eric Bordas analizzando la struttura della suspense de La Settimana bianca, non è presente tanto la constatazione di un pericolo quanto il sentimento di un pericolo a cui è difficile dare un nome preciso (Bordas 2001). Questa sensazione, non a caso, è legata alla “cosa senza nome” di cui Nicolas parla più volte in termini negativi, sperando che “questa cosa senza nome sparisca! Che muoia davvero!” (1995: 25). Il racconto è interamente costruito su questo sfondo inenarrabile che sfugge a una rappresentazione adeguata attraverso le parole o le immagini, dimostrando di essere un nodo non rappresentabile in seno alla narrazione. Nicolas sente che un segreto sta per essere svelato e che qualcosa di terribile sta per accadere, come dimostra un passaggio del romanzo:
Les rares fois où on le laissait seul à la maison, il en profitait pour fouiller les affaires de ses parents, la coiffeuse de sa mère, les tiroirs du bureau de son père, sans savoir au juste ce qu’il cherchait, quel secret, mais avec l’obscure certitude que le trouver était pour lui une affaire de vie ou de mort et qu’il ne fallait pas, s’il trouvait, que ses parents le sachent. (1995: 69-70)3
La dinamica di una minaccia, legata al non detto, mantenuta nel racconto dalla povertà di indizi realistici, è ottenuta tramite la focalizzazione interna, per cui i fatti sono presentati attraverso il filtro di Nicolas, il cui campo di conoscenza, e quindi quello del lettore-spettatore, è ristretto e parziale. Nonostante l’opera sia scritta in terza persona, infatti, potremmo dire che questa funzioni invece come una prima persona: il lettore è nella stessa posizione di Nicolas, come lui cerca di districarsi tra i vari elementi in campo e di dare un senso logico a ciò che accade, e un nome a un malessere che è oscuro e tuttavia chiaramente percepibile.4 Ancora, come in Baffi, l’intrigo, seppur semplice, ha come obiettivo quello di intrappolare sia il personaggio che il lettore nella coscienza confusa e turbata dei protagonisti. E in effetti per Nicolas, e per il lettore che lo segue, il mondo è un tessuto di racconti, di favole lette o ascoltate, un repertorio di schemi narrativi, che ogni minimo dettaglio può evocare; si tratta soprattutto di storie spaventose che hanno come soggetto ricorrente la morte, storie che passano dal padre al figlio e da Nicolas al suo compagno di classe Hodkann. Le favole, nel romanzo, infatti, hanno una funzione simbolica importante in quanto permettono al giovane protagonista di orientare ed esorcizzare le proprie angosce, in primis la paura della morte – sua o di suo padre – che lo tormenta e lo paralizza.
3 Fabulazione e realtà
Come ha osservato Marie-Pascale Huglo in un saggio dedicato al rapporto tra racconto e inganno ne La Settimana bianca, l’atto del raccontare comporta qui una “fabulazione identificatoria” che prevede una reinvenzione e una correzione dei fatti da parte di chi racconta, attraverso lo strumento dell’immaginazione (Huglo 2004: 101-112). Quest’ultima non dà mai una giusta proporzione all’evento e anzi, per usare i termini di Georges Didi-Huberman, lavora sempre nel cuore stesso della sproporzione tra l’esperienza e il suo racconto, tra i fatti e la loro narrazione, soprattutto quando ci si imbatte in una realtà inimmaginabile, che va al di là di ogni comprensione razionale. Del resto, il concetto stesso d’inimmaginabile, secondo Didi-Huberman, è utilizzato per esprimere ogni difficoltà o impossibilità di comprendere e descrivere ogni realtà che ci travolge, che non possiamo cogliere o accettare integralmente e che perciò non possiamo che immaginare (Didi-Huberman 2003).
L’immaginazione di Nicolas lo conduce persino, in alcuni momenti, a una confusione tra ciò che è reale e ciò che non lo è, come dimostra la tensione presente sia nel racconto letterario che in quello filmico, tra un registro più realistico e un registro soggettivo e mentale. Il racconto è attraversato infatti da diversi strati temporali e fittizi: il reale del presente, il reale fatto di ricordi del passato, e quello che Ivan Herard ha definito un insieme “fantasmatico”, fatto di immagini mentali e di fantasmi di Nicolas (Hérard 2016).
4 Soggettività e figurale
Nel film di Miller questa “terza dimensione” è mostrata attraverso frammenti visivi violenti che irrompono nella narrazione in modo improvviso e inatteso; in alcuni casi si tratta di inserzioni che sembrano inizialmente fondersi con il sobrio e cupo “realismo” della narrazione principale, per poi dimostrarsi invece il frutto della macabra immaginazione di Nicolas. In altri, si tratta di sequenze girate attraverso uno stile esplicitamente grottesco e onirico (accentuato da una fotografia in cui il colore dominante è il blu), che chiama in causa e unisce tra loro l’universo fiabesco (esplicitamente citato nel libro) e immagini particolarmente cruente ed eccessive che ricordano il genere gore.
Questo secondo tipo di immagini, che ricorrono più volte nel film senza essere mai chiarite del tutto da un punto di vista logico, ricordano in parte il “figurale” teorizzato da Jean-François Lyotard, poiché comportano una disarticolazione dell’ordine e della logica della rappresentazione e sono, in un certo senso, un modo di oggettivazione dell’inconscio – come avviene a Nicolas – in una forma non verbale. Come ricorda Jacques Aumont, il luogo del figurale è il luogo dell’evento concepito come energia non controllata che può trasformarsi in violenza, in furore irrazionale (Aumont 1996); il figurale, secondo l’analisi di Philippe Dubois, è anche legato all’effetto particolare di “folgoranza”, qualcosa che emoziona, stupisce e spaventa nello stesso tempo lo spettatore e che di conseguenza riguarda la dimensione dell’emozione e della visione più che quella della significazione.5
Di fronte a questo tipo di immagini lo spettatore è incerto su quale sia il proprio ruolo, se quello di testimone esterno di una presunta verità o una pedina manipolabile, oggetto delle fabulazioni di Nicolas, della sua visione soggettiva della realtà. In questo senso il film di Miller è in linea, più o meno esplicitamente, con alcune tendenze del cinema contemporaneo emerse già a partire dagli anni Novanta e ben descritte dallo studioso Thomas Elsaesser, in quanto pone l’accento sull’odierno interesse per l’identità, il passato, il trauma e il ricordo, e sul ruolo stesso dello spettatore (Elsaesser e Hagener 2009).
Se l’universo mentale e immaginativo di Nicolas è visibile, al contrario la sua interiorità, i suoi traumi e le sue emozioni profonde restano invece difficilmente accessibili, e lo stesso è per il personaggio di suo padre, il cui segreto sarà svelato solo alla fine. A questo proposito, sin dalle primissime pagine del libro, risulta emblematico il ritratto sfuggente del padre di Nicolas che Carrère riesce a tracciare in maniera efficace ma indiretta, attraverso gli occhi del figlio che lo osserva dal sedile posteriore dell’auto:
De la banquette arrière, Nicolas ne pouvait voir que son profil perdu, sa nuque épaisse engoncée dans le col du pardessus. Ce profil et cette nuque exprimaient le souci, une fureur amère et butée. (1995: 11)6
Come ha osservato Dominique Rabaté parlando delle “Scritture moderne del segreto” di alcuni autori contemporanei tra cui Carrère, il segreto qui non è solo l’oggetto della storia raccontata, ma risulta intimamente legato, come la suspense, a una nuova economia del linguaggio e del racconto (Rabaté 2011). Questo, ci sembra, è uno degli aspetti più interessanti de La Settimana bianca, un’opera che ruota a più livelli intorno al racconto inteso come strumento per arrivare allo svelamento di un segreto che lega indirettamente padre e figlio in una dinamica di osservazione reciproca, di sospetto e di diffidenza. Il racconto, intimamente legato al non detto, al non rivelato, ricopre funzioni specifiche e differenti nei diversi momenti della storia: all’inizio, è il racconto del traffico di organi che il padre fa a Nicolas a provocare nel ragazzino una profonda angoscia e a innescare il suo processo immaginativo caratterizzato da fantasmi, desideri e paure ancestrali. Questo momento-chiave del racconto è reso sullo schermo molto efficacemente da Miller attraverso un avvicinamento graduale della macchina da presa che da un campo medio arriva ai primi piani dei visi dei due personaggi ripresi in campo e controcampo, e si chiude con il primo piano del volto di Nicolas, scosso dalla storia che ha appena ascoltato dal padre. Anche lo stile narrativo utilizzato da Carrère nel romanzo per raccontare questo episodio risulta particolarmente efficace, poiché riesce a costruire – senza motivare – un’atmosfera di tensione e di terrore suggerendo indirettamente al lettore ciò che avverrà in seguito. Tutto ciò è reso a partire dalle sensazioni di Nicolas rispetto all’inquietante racconto del padre, legate all’angoscia della morte:
Apres ce récit, Nicolas fit à plusieurs reprises un cauchemar qui se déroulait dans le parc d’attractions. […] L’horreur était tapie par là. Elle l’attendait pour le dévorer. La seconde fois, il comprit qu’il s’en était rapproché et que la troisième lui serait sans doute fatale. On le retrouverait mort dans son lit, personne ne comprendrait ce qui lui était arrivé. (1995: 34)7
5 La narrazione infantile e il romanzo familiare
A partire da questo momento, dal racconto del padre, Nicolas inizia a dar vita a una serie di fili narrativi e a trasmettere la stessa storia al compagno Hodkann modificando però alcune informazioni, inventando per esempio dei dettagli importanti su suo padre, fino a mescolare e a confondere le parti di verità e quelle di menzogna della storia. Le fabulazioni create da Nicolas sembrano dar vita a qualcosa di simile al “romanzo familiare” studiato e descritto da Sigmund Freud per evocare la potenza della narrazione infantile che è capace di correggere e distorcere la propria storia familiare attraverso i propri desideri inconsci (Freud 2014). Nel racconto che Nicolas fa al suo compagno di classe, infatti, suo padre è un eroe positivo, un uomo coraggioso che aiuta la polizia a risolvere l’enigma e a trovare i responsabili del traffico d’organi. E proprio riprendendo le riflessioni di Freud, potremmo dire che Nicolas si sbarazza, in un certo senso, della sua figura paterna, per adottarne un’altra fittizia ma più conforme al suo desiderio, qualificato più come fantasmatico e immaginario che come inconscio (Freud 2014: 9).
L’atto del raccontare assume quindi per Nicolas una duplice funzione: è un mezzo per verbalizzare la propria ansia nei confronti di suo padre, di cui intuisce il male, e uno strumento di dominio e di controllo sul suo amico Hodkann, che lo ascolta credendo alla sua narrazione. Eppure, senza rendersene conto, Nicolas mette insieme di volta in volta le informazioni che lo porteranno alla scoperta della verità, ma ritiene invece che siano una finzione. Gli incidenti sparsi, gli indizi apparentemente casuali finiranno per costruire una logica romanzesca di causa e effetto, e la paura più grande del ragazzo, ovvero che le storie frutto dell’immaginazione possano avere un impatto sulla realtà, finisce con l’avverarsi. Presto ci sarà la sparizione di un ragazzino di un villaggio vicino, René, e poco dopo la scoperta della sua morte legata al traffico di organi. Sarà Hodkann, da interlocutore ingenuo e ignaro della verità, a mettere bruscamente termine al processo di racconto e fabulazione dell’amico, suggerendo alla polizia, senza saperlo, l’identità del vero colpevole. E’ a questo punto che il racconto si trasforma in inchiesta, la finzione diventa fatto di cronaca, e ciò che avrebbe dovuto essere falso si rivela vero. Alla scoperta della verità, alla consapevolezza dell’orrore, corrisponde la morte simbolica di Nicolas: negli ultimi momenti del film il ragazzo si chiude emblematicamente in un mutismo e in un silenzio drammatici.
6 Il Male ordinario
Gli ultimi primi piani del film, il primo piano breve ma simbolico del padre di Nicolas che sembra guardare attraverso il finestrino della macchina della polizia, e quello di Hodkann che lo scruta alla televisione, mettono l’accento sull’ambiguità e l’opacità dell’animo umano: Hodkann esamina il volto del mostro, e su questo la macchina da presa si attarda per qualche secondo quasi a voler cogliere le verità e le ragioni che si celano dietro il suo sguardo. Eppure la mostruosità, sembra dirci Carrère, non è straordinaria né riconoscibile ma estremamente ordinaria, persino familiare; come ha osservato Etienne Rabaté, il Male non viene da una causa esterna che spaventa ma che si può facilmente identificare, il Male è in noi, è nascosto nell’impensabile del quotidiano, di cui rappresenta un divenire possibile (Rabaté 2002: 120-133). La superficie del viso del padre di Nicolas sembra racchiudere questa ambiguità del potenziale: è opaca, vischiosa. Il primo piano, nelle ultime sequenze del film di Miller, produce infatti un effetto di disorientamento rispetto al personaggio che appare sfuggente, ambiguo e difficilmente penetrabile. Lo sguardo della macchina da presa, che alterna spesso distanziamento e avvicinamento, sembra suggerirci che anche quando siamo in presenza di un apparente ‘eccesso di visione’, questa non conduce necessariamente a una conoscenza maggiore. Al contrario mostra l’impossibilità di trovare risposte attraverso la superficie delle cose: non importa quanto la macchina da presa sia vicina al viso del colpevole, esso rimanderà ad altre identità ordinarie, uguali e diverse.
Il film, come il romanzo, approda quindi alla consapevolezza dell’assenza di un senso logico alla base delle azioni umane, e lascia lo spettatore inquieto e spaesato, confermandogli la difficoltà di conoscere a pieno l’altro anche quando è familiare, di inquadrarne l’identità in maniera chiara così da piegarla a un senso e a un significato al tempo stesso condiviso e unilaterale.
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Viart, Dominique e Bruno Vercier (2005). La littérature française au présent. Héritage, modernité, mutations. Parigi: Bordas.
All’interno di un ciclo di dibattiti, incontri e tavole rotonde dal titolo “Ecrire, écrire, pourquoi”, organizzato nel Gennaio 2010 presso il Centro Georges Pompidou a Parigi.↩
“[…] pensavo a La Classe de neige […] pensavo al grande vuoto bianco che si era creato poco a poco dentro di lui fino a lasciare soltanto questo simulacro di uomo in nero, un baratro da cui proveniva la corrente d’aria glaciale che faceva rabbrividire il disegnatore.” Ns. Tr.↩
“Le rare volte in cui lo lasciavano solo a casa, ne approfittava per rovistare tra le cose dei suoi genitori, la toilette di sua madre, i cassetti della scrivania di suo padre, senza sapere in realtà cosa stesse cercando, quale segreto, ma con l’oscura certezza che trovarlo fosse per lui una questione di vita o di morte, e che, se avesse trovato qualcosa, i suoi genitori non avrebbero dovuto sapere.” Ns. Tr.↩
Del resto già R. Barthes, nella sua analisi del racconto, aveva sottolineato come possono esservi racconti scritti in terza persona di cui l’istanza autentica è invece la prima persona. In particolare, egli aveva proposto la tecnica del “rewriting” per distinguere tra racconto personale e racconto a-personale (Barthes 1966: 1-27).↩
La concezione del figurale di Philippe Dubois è ampiamente esaminata in Vancheri 2011.↩
“Dal sedile posteriore, Nicolas poteva vedere solo il suo profilo, la sua nuca tozza infagottata nel bavero del soprabito. Questo profilo e questa nuca tradivano una preoccupazione, una rabbia amara e tenace.” Ns. Tr.↩
“Dopo questo racconto, Nicolas fece per diverse volte un incubo, che si svolgeva nel luna park. L’orrore era nascosto lì. Lo aspettava per divorarlo. La seconda volta, comprese che se ne era avvicinato, e che la terza sarebbe stata senza dubbio fatale. Lo avrebbero ritrovato morto nel suo letto, nessuno avrebbe capito l’accaduto.” Ns. Tr.↩