Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.14 (2018)
ISSN 2280-9481

Da Pauline a Carlotta. La ricerca del ritratto in Vertigo, dalla commissione a Manlio Sarra al dipinto di John Ferren

Angela LeonarduzziUniversità degli Studi di Udine (Italy)

Angela Leonarduzzi got her Master degree in “History and Criticism of Cinema” at the University of Udine, with a thesis entitled “The Gaze and the Vertigo. Portraits and Paintings in the Cinema of Alfred Hitchcock” which focuses on the role and meaning of pictorial objects in the director’s formal world.

Ricevuto: 2018-06-02 – Versione revisionata: 2018-10-26 – Accettato: 2018-11-29 – Pubblicato: 2018-12-31

From Pauline to Carlotta. The search of the portrait in Vertigo, from the Commission to Manlio Sarra to John Ferren’s painting

Abstract

At a first sight, the story of the famous portrait featured in Alfred Hitchcock’s Vertigo (1958) may seem wrapped in an intriguingly elusive aurea that curiously resonates with its narrative rendition in the film. Despite having already been brought to the attention of the film studies community by Steven Jacobs, whose analysis relied on some of the Alfred Hitchcock Papers preserved by the Margaret Herrick Library of Los Angeles, the production history of the iconic painting still keeps some hidden depths. Before American abstract artist John Ferren’s artwork was chosen to appear in the movie, in fact, three different earlier versions of the painting were commissioned and sketched across Europe and the United States during the early film production phase. One of these versions, which reached Hollywood from Rome via the Italian subsidiary of Paramount Films, was authored by Manlio Sarra, an updated and versatile artist trained in the context of the Fifties “Roman Art School”.

Keyword: Hitchcock; Vertigo; portraits; Sarra; Ferren.

1 Hitchcock e il ritratto pittorico. La vertigine della rappresentazione

Il tema del potere perturbante del ritratto dipinto – già percorso dalla letteratura gotica e romantica ottocentesca1 – viene accolto dal cinema a partire dalla sua essenzialità costitutiva, da quella funzione metonimica e sostitutiva (Bettini 1992: 53) che, rimandando all’inevitabile assenza del referente, lo colloca quale ideale oggetto liminare tra realtà e rappresentazione, tra contiguità e somiglianza.2

Queste caratteristiche pongono il ritratto all’origine mitica della rappresentazione e ne fanno un oggetto paradigmatico con il quale il cinema ha talvolta scelto di confrontarsi per riflettere sul proprio stesso linguaggio, condividendone alcuni aspetti quali l’illusorietà implicita nella riproduzione mimetica del reale, determinata da un rapporto differito e perciò impossibile con l’osservatore.

Attraverso la tematizzazione della visione un ritratto dipinto istituisce perciò all’interno della narrazione cinematografica una mise-en-abîme dei propri stessi principi, sottendendo nel proprio testo una riflessione metalinguistica. Païni definisce questi aspetti sottolineando: “Dal momento che esso è un’illusione dichiarata, una rappresentazione sovradeterminata, un ritratto dipinto repentinamente ricorda allo spettatore il suo ruolo come osservatore esterno […]. Ma, oltre a ciò, questo ritratto implicitamente invita lo spettatore ad una distanza: cos’è il cinema?” (Païni 1992: 5)3 Questo sguardo autoriflessivo si moltiplica specularmente in virtù del fatto che, come chiarisce Costa, “La presenza di un ritratto nel film, la sua integrazione nella diegesi replica, nella dimensione della storia, il dispositivo della percezione filmica […] l’immagine pittorica diventa letteralmente un’immagine sospesa, in quanto si stacca dall’immagine diegetica in cui compare e raddoppia i meccanismi dell’identificazione che stanno alla base di ogni storia” (Costa 2002: 69).

Il cinema di Alfred Hitchcock, a questo proposito, si offre come un terreno d’analisi ideale delle funzioni e dei significati del ritratto pittorico all’interno di un film, poiché in esso quadri e ritratti ricorrono con una certa frequenza.4 La presenza dei ritratti pittorici nel cinema di Alfred Hitchcock va letta infatti proprio in relazione a questa loro duplice dinamica ed essenza – autoriflessiva e proiettiva – rapportata al concetto di quadro quale limite della rappresentazione e del rappresentabile. Se da un lato, come si è detto, il ruolo dei dipinti nella mise-en-scène hitchcockiana rientra in quella manipolazione dei registri ontologici che percorre tutto il cinema dell’autore, manifestandosi attraverso la frequente presenza di cornici composizionali derivate dalle altre arti – oltre che dalla pittura dal teatro, spazio generalmente evocato dalle quinte e dai prosceni –, dall’altro il problema posto dal quadro pittorico è – come puntualmente osserva Gunning – “il problema del potere che un’immagine può esercitare su quelle al di fuori della cornice e, perciò, della capacità dell’immagine di eccedere la sua essenza statica e incorniciata” (Gunning 2007: 31).

In Hitchcock questo potere “eccessivo” dell’immagine pittorica viene innanzitutto esercitato nello spazio diegetico, attraverso la fascinazione, il desiderio e la sottrazione identitaria provocati nei personaggi dal ritratto femminile. Ne La donna che visse due volte (Vertigo, 1958), nello specifico, il ritratto ancestrale evoca e rispecchia – potremmo dire all’infinito – un punto di passaggio, quello tra “finzione” e “realtà”, tra il sé e la sua perdita, aprendo il racconto a rischiose identificazioni e a ugualmente fatali amori d’immagini (Fig. 1).

Figura 1. La donna che visse due volte (Vertigo, 1958)
Figura 1. La donna che visse due volte (Vertigo, 1958)

La collocazione simbolicamente centrale del ritratto ancestrale eccede però lo spazio puramente narrativo attraverso quella messa in discorso della visione e della rappresentazione che rende il film – per la generalità degli esegeti hitchcockiani – “una parabola dell’attività artistica” (Païni 1992: 107). Partendo dallo sguardo – nella doppia accezione di sguardo meduseo della pittura così come di sguardo spettatoriale – nella celebre scena ambientata nel museo della Legione d’Onore, Hitchcock mette in scena un “trompe l’oeil”, una trappola narrativa in cui la rappresentazione veicola l’inganno e l’illusorietà di quello che, attraverso la visione, entra nel dominio della conoscenza.

La forma della spirale – che attraversa con il suo simbolismo tutto il cinema dell’autore, manifestando lo smarrimento e la caduta nell’abisso che minaccia costantemente i suoi personaggi – percorre l’iconografia del film ed esprime la perdita di una prospettiva univoca e certa, associandosi qui alla ripetizione e alle evocazioni del perturbante. Significativamente collocata nel dipinto di Carlotta, la spirale formata dallo chignon di Madeleine diviene, come rileva Stoichita, “emblema della vertiginosa incastonatura dei simulacri […] e, in definitiva, del film nella sua totalità” (Stoichita 2006: 220).

Appare evidente come il ruolo di questo dipinto, come e più di altri esempi di arte figurativa che compaiono in tutta l’opera hitchcockiana, fosse quello di rivestire nella narrazione una funzione dinamica centrale, nella quale la forma – rapportandosi a un genere collocato alle origini dell’arte – doveva confrontarsi e mirare a riprodurre un ideale estetico e pittorico modellato su un’ampia ed elevata tradizione artistica.5

Scopo del presente saggio non è tuttavia l’analisi dei significati del ritratto pittorico che compare in Vertigo (peraltro, come accennato, già oggetto di studi molto solidi), bensì la ricostruzione della sua storia produttiva, delle tappe della progettazione e realizzazione concreta di questo oggetto di scena, incluse le diverse versioni rimaste poi inutilizzate. Una simile analisi pone infatti in campo molteplici elementi e motivi d’interesse. Da un lato consente di gettare uno sguardo alternativo e “laterale” al contesto produttivo e creativo in cui si sviluppa il progetto – l’attenzione e la motivazione che Hitchcock poneva nella scelta degli oggetti pittorici e d’arte dei suoi set ma anche l’organizzazione della Paramount e la sua presenza nella Roma degli anni ’50, all’interno di quell’ampio fenomeno che fu la Hollywood sul Tevere – mentre dall’altro lato permette di avvicinare alcune delle relazioni che dall’ambiente hollywoodiano – e cinematografico in generale – si intrecciavano, in maniera apparentemente occasionale, col mondo dell’arte.

La ricostruzione del percorso produttivo del ritratto trarrebbe inoltre un ulteriore significato – in un’ottica più generale – dalla sua contestualizzazione in uno studio dedicato agli oggetti pittorici, grafici e plastici che caratterizzano le scenografie hitchcockiane, quali oggetti di scena visivi che talvolta uniscono al loro carattere decorativo ed effimero una rilevanza iconografica e simbolica che abbraccia l’eterogenea e trasversale cultura figurativa dell’autore, definendo l’habitat sociale e il tessuto psicologico e morale in cui si muovono i suoi personaggi.6

2 Da Hollywood a Roma: sulle orme della Pittura e della tradizione

Come si è detto, nel progetto de La donna che visse due volte, il ritratto assunse sin da principio un rilievo essenziale. Come e più di altri esempi di arte figurativa che compaiono nella filmografia dell’autore, questo dipinto non rappresentava un semplice oggetto di scena, dovendo rivestire la funzione di nucleo dinamico – emotivo e formale assieme – della narrazione e mirando a riprodurre al tempo stesso un ideale estetico e pittorico modellato su un’ampia ed elevata tradizione artistica.

Nell’ottobre del 1956 se Hitchcock – al lavoro sul progetto del film da alcuni mesi – sta ancora cercando uno sceneggiatore in grado di offrirgli un’appropriata struttura narrativa e un’adeguata caratterizzazione dei personaggi,7 ha d’altro canto già deciso quale sarà la sua protagonista: Vera Miles, la sua ultima scoperta, già interprete del personaggio di Rose Balestrero ne Il ladro (The Wrong Man) dello stesso anno.

Il lavoro del regista si rivolge quindi già in questa fase alla costruzione dell’immagine della sua nuova musa in relazione al personaggio, secondo quel consueto processo di creazione e plasmazione pigmalionica che normalmente inaugurava le collaborazioni con le sue maggiori protagoniste femminili. Il ritratto ancestrale viene prontamente messo in opera, ma le aspettative estetiche e stilistiche riguardo alla sua esecuzione espongono subito la produzione a delle difficoltà, che Herbert Coleman, associate producer del film, riporta – con una lettera del 7 novembre 1956 – a Luigi Zaccardi, referente della sede romana della Paramount: “Abbiamo cercato invano qui in America un pittore che possa fare il tipo di lavoro che viene fatto così spesso in Europa, particolarmente a Roma; dove un pittore copia, esattamente, un vecchio maestro come è stato fatto nel caso della foto allegata (…)”.8

L’immagine fotografica citata riproduceva un dipinto posseduto dalla casa di produzione americana e realizzato a Roma, come sottolineato da Coleman, che riferisce nella lettera i dati riportati sul timbro posto sul verso dell’opera, identificandone l’autore e la provenienza. Si trattava di un’opera di Agnes Burrel Nation, una copista americana che soggiornò nella capitale – in via Margutta – nei primi due decenni del Novecento, dedicandosi alla riproduzione delle opere dei grandi maestri della tradizione pittorica italiana, e che in seguito rimpatriò recando con sé un’ampia collezione delle sue copie.9

Fu una delle opere dell’artista americana che suggerì quindi a Coleman di rivolgersi a Roma e alla sua tradizione artistica, quale ambiente che più facilmente avrebbe potuto offrire alla produzione del film un pittore in grado di realizzare un dipinto adeguato alle aspettative del regista: un ritratto che – per livello di esecuzione tecnica e finitura – potesse apparire antico e perciò verosimile nelle previste inquadrature in dettaglio della sequenza del film che lo avrebbero visto protagonista.

Coleman prosegue precisando:

Abbiamo una sequenza della massima importanza nella nostra prossima produzione di Hitchcock “From Amongst the Dead” che deve essere ambientata nel Museo della Legione d’Onore di San Francisco, dove Jimmy Stewart segue Vera Miles nella galleria d’arte. Essi si fermano davanti a un imponente dipinto intitolato “Ritratto di Pauline”, dipinto nel 1854.10

Tra le istruzioni e le immagini di riferimento per l’esecuzione del ritratto – in parte già incluse in questa prima lettera – vi era la fotografia di una modella in posa, della quale viene rimarcato quanto fosse “della massima importanza per l’artista copiare lo sguardo e l’espressione”.11

Coleman conclude la lettera sottolineando l’importanza del ruolo del dipinto e l’urgenza della sua realizzazione:

Ti sarai probabilmente già reso conto che questo è un importante sostegno all’azione per il nostro film, così aggiungerò soltanto che muoveremo la macchina da presa molto vicino al volto, ai capelli, alla collana e al bouquet. Ti prego trasmettimi per cablogramma il prima possibile il costo del dipinto e la data più prossima in cui può lasciare Roma (…). La velocità è della massima importanza.12

La lettera comprendeva anche un’ampia ed eterogenea lista di pittori e ritrattisti dell'Ottocento che l’artista avrebbe dovuto tenere in considerazione per attingervi dei riferimenti stilistici. Vi comparivano i nomi degli inglesi David Wilkie e John Phillip, quelli dei tedeschi Franz Xaver Winterhalter, Eduard Magnus e Friedrich Kruger, dei francesi Jean Auguste Dominique Ingres, Thomas Couture, Gustave Courbet, Jean Baptiste Camille Corot e di diversi artisti americani quali Henry Inman, Thomas Sully, John Neagle, Charles Loring Elliott, Thomas Hicks, Chester Harding e George Peter Alexander Healy.

Non appare perciò sorprendente che Zaccardi – che aveva nel frattempo individuato l’artista per il lavoro – chiedesse, tra le altre informazioni, anche delle precisazioni riguardo alla scelta della scuola pittorica di riferimento.

Un’altra lettera di Coleman – inviatagli il 4 dicembre – fornisce i chiarimenti richiesti, assieme ad altre immagini fotografiche di alcuni dettagli:

Caro Luigi

[…] Le risposte alle tue richieste sono:

  1. Il dipinto è della scuola italiana.

  2. Lo sfondo deve essere uniforme, e noi suggeriamo un color borgogna cupo. […]

La foto 6 è una foto a colori della sig.na Vera Miles con l’esatta acconciatura che avrà nel film. Noterai che l’acconciatura è cambiata rispetto a quella portata da Pauline nella foto 1. Ti prego di dire all’artista di ignorare la pettinatura della foto 1 e di utilizzare invece questa della foto 6. […]

Ti prego procedi con questo progetto. Ci aspettiamo di avere il dipinto qui allo Studio per il 1° febbraio 1957.13

Il 19 dicembre Luigi Zaccardi invia a sua volta una lettera a Russel Holman – capo dello staff di produzione della sede di New York della Paramount – in cui parla del dipinto e dell'artista che lo sta eseguendo:

Caro Russel

[…] Il dipinto a olio intitolato “Ritratto di Pauline” che sarà usato in “From Amongst the Dead”, sta venendo molto bene e il pittore Manlio Sarra si attende di finirlo attorno al 15 o al 20 di gennaio.

Manlio Sarra, al quale ho commissionato il lavoro, è un noto, tipico e autentico artista italiano. Conformemente all’autentica tradizione della sua professione, è anche un uomo povero. Ha iniziato la sua carriera come artista di riproduzioni e come restauratore, e questa è la ragione principale per cui l’ho persuaso ad eseguire il lavoro. Egli è anche un artista piuttosto creativo, peraltro, e specializzato in dipinti molto pittoreschi raffiguranti scene della regione d’Italia da cui proviene e che hanno sempre ricevuto buone recensioni dalla critica. Questo lavoro di riproduzione è più difficoltoso rispetto a quelli normali in cui un dipinto viene usato come modello, perché nel caso del “Ritratto di Pauline” il sig. Sarra deve dipingere il ritratto da un trasparente. Comunque, sembra che stia facendo un buon lavoro e io spero che Hitchcock ne rimarrà soddisfatto. Sono spesso andato a visitare il sig. Sarra e mi sono assicurato che le istruzioni di Herbie Coleman vengano eseguite alla lettera anche se, talvolta, il sig. Sarra dice che è difficile mettere insieme i requisiti della tecnica pittorica con quelli del cinema.14

3 Manlio Sarra. La verità dell’artista

Manlio Sarra – come sottolineato da Zaccardi – era un artista significativo e apprezzato all’interno del fervido panorama artistico romano di quegli anni. Nato nel 1909 a Monte San Giovanni Campano – in provincia di Frosinone – manifestò già da giovanissimo interesse e predisposizione per la pittura, orientandosi nella direzione dell’arte moderna e del post-impressionismo. Nel 1930 si trasferì a Roma, dove seguì come borsista i corsi dell’Accademia di Belle Arti e iniziò a frequentare lo studio del pittore corso Henrj Filippi, immergendosi nell’ambiente artistico della capitale. Sarra ne divenne così testimone e partecipe, accogliendone l’evoluzione nella direzione delle proposte espressioniste della Scuola Romana di Mario Mafai, Antonietta Raphael, Scipione e Marino Mazzacurati.

Nel 1936 l’artista si stabilì nello studio che era stato di Filippi, in via del Vantaggio. Dopo la seconda guerra mondiale – alla quale partecipò come combattente – Sarra aderì al sodalizio dell’Art Club, fondato in via Margutta dal pittore polacco Jozef Jarema assieme a Pericle Fazzini, Virgilio Guzzi, Enrico Prampolini e Luigi Montanarini, movimento che si proponeva l’imperativo di “connettere le intelligenze dopo la lacerazione del conflitto”15 attraverso il confronto fra gli artisti e tra le diverse forme di espressione artistica – quali la pittura, la scultura e l’architettura ma anche la letteratura, il teatro e il cinema.

Figura 2. Manlio Sarra, Autoritratto, olio su tela (32x25 cm), 1944
Figura 2. Manlio Sarra, Autoritratto, olio su tela (32x25 cm), 1944
Figura 3. Manlio Sarra, Ritratto, olio su tela (45x65 cm), 1952
Figura 3. Manlio Sarra, Ritratto, olio su tela (45x65 cm), 1952

Gli anni ’50 risultano essenziali per la precisazione del suo linguaggio. In quello che è stato definito dalla critica un “ritorno alle origini”, l’artista recupera i temi e le immagini della propria terra di Ciociaria, registrando le scene dei mercati e delle feste di paese attraverso una forma dalla vivida musicalità cromatica che si fa progressivamente brulicante dei dettagli di un mondo in metamorfosi. Sarra avvicina da questo momento la propria personalissima misura poetica, costituita – come rimarca del Gaizo – da “quel tono di ‘cordiale avanguardia’ scoperto da Marcello Venturoli, in cui è riassumibile l’intero svolgimento del discorso pittorico dell’artista” (del Gaizo 1986: 34).16 Nel corso della sua carriera l’artista partecipò a diverse esposizioni collettive, tra le quali nel 1956 la XXVIII Biennale di Venezia e le Quadriennali romane organizzate tra il 1947 e il 1965. Fu protagonista di numerose personali allestite nelle maggiori città italiane, così come in Francia, in Svizzera e negli Stati Uniti. Estese inoltre le proprie esperienze pittoriche realizzando opere ad affresco, mosaici e pale d’altare.17

Attraverso “l’impegno di una vita” spesa “sotto il segno dell’arte e della ricerca” l’artista giungerà nella sua evoluzione a contemperare i richiami delle origini e della tradizione con le suggestioni e le sfide dell’arte contemporanea, definendo il proprio stile in un dialogo sempre rinnovato tra “cuore” e “pennello”, quali estremi inscindibili e fondamentali della propria verità di artista del proprio tempo (AA.VV. Manlio Sarra 1986).18

Luigi Zaccardi, presentando nella sua lettera l’artista e la qualità del suo lavoro, ne sottolinea puntualmente l’autenticità e la creatività, così come il generale riconoscimento da parte della critica. Nello stesso anno in cui viene coinvolto in questo progetto Sarra – oltre a esporre alla Biennale di Venezia – vince un concorso indetto dalla Titanus per un’opera ispirata a un film – Il tetto di Vittorio De Sica (1956) – con il dipinto L’attesa. Il confronto tra il mondo dell'arte e il mondo del cinema non costituiva un’eccezione né per l’artista né per l’ambiente romano di quegli anni.

I “requisiti del cinema” richiamati dalle parole di Sarra – verosimilmente e genericamente riferibili alle tempistiche produttive hollywoodiane in rapporto alle peculiarità tecniche di ogni fase progettuale e realizzativa, imposero però in una certa misura qualche ostacolo rispetto alle esigenze di un’esecuzione pittorica che, secondo i desideri della committenza, doveva attingere alle migliori tradizioni del genere.

Figura 4. Manlio Sarra, Ballo, olio su tela (150x120 cm), 1971
Figura 4. Manlio Sarra, Ballo, olio su tela (150x120 cm), 1971
Figura 5. Manlio Sarra, Mercato, olio su tela (100x 70 cm), 1973
Figura 5. Manlio Sarra, Mercato, olio su tela (100x 70 cm), 1973

Il 27 dicembre 1956 Herbert Coleman interpella il manager di produzione Frank Caffey, suggerendogli una verifica sul dipinto che è in esecuzione a Roma:

Non pensi che sarebbe una buona idea chiedere ad Holman di inviare un cablogramma a Zaccardi per chiedere una foto a colori del dipinto non appena sarà finito? Invia qui la foto così Hitch può controllare per vedere se preferisce che venga fatta una modifica. Se la foto va bene, il dipinto può essere spedito immediatamente.19

La richiesta – inoltrata prontamente – viene soddisfatta poche settimane dopo. Il 29 gennaio 1957 Zaccardi invia a Caffey una lettera con due trasparenti del ritratto, precisando di attendere indicazioni riguardo a eventuali modifiche da apportare al dipinto o l’autorizzazione alla sua spedizione a Hollywood.

L’approvazione del Ritratto di Pauline eseguito da Sarra è attestata da un sintetico cablogramma inviato da Caffey a Coleman il 5 febbraio 1957: “Amongst Dead. Ricevuto i fotogrammi ectachrome da Zaccardi. Ti prego di dargli istruzioni di spedire per via aerea il dipinto a Hollywood il prima possibile”.20 La documentazione comprende l’ordine di spedizione del ritratto – da parte della Missori & Tavani Trasporti Internazionali – datato 9 febbraio 1957.

Come in seguito confermato dalle parole di Herbert Coleman – nel commento inserito nel DVD della versione restaurata di La donna che visse due volte, edito nel 199921 – il dipinto di Sarra, così come un’altra versione realizzata in Inghilterra, non vennero utilizzati perché considerati inadeguati. Inoltre, come precisa Jacobs,

Successivamente, un’altra versione venne fatta da un non identificato pittore di Hollywood, che, secondo Coleman, “aveva quasi settant’anni” e – riecheggiando la trama pigmalionica di Vertigo – “si innamorò della modella”. Comunque, anche questa versione non venne mai usata perché l’attrice Vera Miles aspettava un bambino e venne sostituita da Kim Novak.22

Ci troveremmo quindi innanzi complessivamente a tre versioni del ritratto riferibili al progetto d’esordio del film con Vera Miles come protagonista, di cui l’ultima – alternativa al dipinto di Sarra e al dipinto inglese – sarebbe stata posta in opera in un periodo di tempo piuttosto limitato – tra il febbraio e il marzo 1957 – ovvero tra l’arrivo a Los Angeles del dipinto dell’artista italiano e l’abbandono della produzione da parte dell’attrice.

Non paiono attualmente note testimonianze fotografiche superstiti del dipinto eseguito da Sarra, in quanto i trasparenti menzionati nella documentazione non risulterebbero presenti nelle collezioni – relative a Hitchcock e alla Paramount – della Margaret Herrick Library. È d’altra parte ignota la sorte del dipinto stesso.

Un’unica immagine di un dipinto riferibile a una di queste tre commissioni – senza peraltro poter attribuire con certezza a quale23 – è stata resa nota in seguito al restauro di La donna che visse due volte, effettuato nel 1996 dai restauratori Robert Harris e James C. Katz. Robert Harris ne ha spiegato la provenienza (figg. 6-7-8): “Durante il restauro, l’archivio della Paramount fu così gentile da prestarci il ritratto che rappresentava Vera Miles come Carlotta. Questo ritratto ebbe un posto d’onore su una nostra parete alla Universal durante il periodo del restauro e successivamente fu restituito alla Paramount”.24

Figura 6. Ritratto di Carlotta, dettaglio
Figura 6. Ritratto di Carlotta, dettaglio
Figura 7. Ritratto di Carlotta, dettaglio
Figura 7. Ritratto di Carlotta, dettaglio
Figura 8. Ritratto di Carlotta, dettaglio
Figura 8. Ritratto di Carlotta, dettaglio
Figura 9. Disegno di trucco e pettinatura, grafite e acquarello su cartoncino, dettaglio (Alfred Hitchcock Papers, Margaret Herrick Library, Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, Los Angeles)
Figura 9. Disegno di trucco e pettinatura, grafite e acquarello su cartoncino, dettaglio (Alfred Hitchcock Papers, Margaret Herrick Library, Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, Los Angeles)

Tra gli elementi compositivi e cromatici di questo ritratto, lo sfondo color borgogna cupo – seppure concluso lungo il margine destro in un tendaggio dipinto in un tono intenso di rosso – risulta coerente con quanto richiesto per il dipinto italiano. La pettinatura di Vera-Carlotta d’altra parte, distinguendosi dal celebre chignon a spirale raffigurato nel dipinto che compare nel film, apparirebbe così peculiare relativamente alla scelta della Miles e alla sua immagine, secondo quel già sottolineato processo di creazione che Hitchcock esercitava nei confronti delle sue star. Nel fondo di documenti hitchcockiani relativi a La donna che visse due volte della Margaret Herrick Library di Los Angeles vi sono d’altra parte alcune tavole di disegni che riguardano l’ideazione delle acconciature dei personaggi di Madeleine e di Judy e una di queste in particolare sembrerebbe riferibile proprio alla pettinatura di Vera-Carlotta, così come appare nel ritratto esposto alla Universal durante il restauro del film (fig. 9). Appare così evidente come la sostituzione della protagonista abbia gradualmente comportato una serie di cambiamenti, che dagli aspetti formali – per Hitchcock mai puramente accessori – condensati attorno all’immagine femminile si sono poi estesi, con il coinvolgimento di un nuovo artista, anche a un nuovo modello ritrattistico e a un diverso canone pittorico.

4 John Ferren nel progetto di Vertigo

Dopo l’abbandono della produzione da parte della Miles, la scelta dell’astrattista americano John Ferren per l’esecuzione del ritratto di Carlotta non si prospettò come un’incognita per il regista e sarebbe stata il frutto di un suggerimento di Herbert Coleman, il quale – nel citato commento nel DVD del film – dice a questo proposito: “Mi ricordai il pittore che aveva dipinto i quadri per La congiura degli innocenti, e mi misi in contatto con lui e fu lui a realizzare il ritratto che usammo alla fine.”

John Ferren aveva infatti già instaurato un’amicizia e una collaborazione professionale con Hitchcock, realizzando nel 1954 i dipinti e i disegni necessari alla sua dark comedy basata sul romanzo di Jack Trevor Story, che aveva come protagonista proprio il personaggio di un pittore astrattista, Sam Marlowe.

L’artista – nato a Pendleton, nell’Oregon, il 17 ottobre 1905 – iniziò il suo percorso artistico nella seconda metà degli anni ’20 a San Francisco, frequentando brevemente una scuola d’arte e, come apprendista, lo studio di uno scultore. Nel 1929 intraprese un viaggio di formazione in Europa – prevalentemente a Parigi – che gli fornì gli stimoli congeniali alla sua visione e al suo lavoro, conducendolo a soggiornarvi ripetutamente e a lungo particolarmente nel corso degli anni ’30.

La conoscenza dell’opera di artisti come Picasso, Matisse e Kandinsky gli apparirà come una rivelazione delle straordinarie possibilità del colore e della pittura, da lui sperimentate sin dagli esordi come il territorio dialettico di un’astrazione nutrita degli elementi naturali. Il legame con l’ambiente artistico europeo rimarrà sempre un elemento intimamente e fortemente sentito dall’artista, anche e soprattutto dopo il suo rientro negli Stati Uniti sul finire degli anni ’30, quando inizierà a fare parte dell’ambiente dell’astrattismo americano attraverso le prime esposizioni.25

Con il coinvolgimento degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale Ferren assumerà un incarico di rappresentanza per un’agenzia governativa – l’Office of War Information – che lo condurrà in Algeria e nuovamente a Parigi. Il successivo rientro dell’artista negli Stati Uniti non si dimostrerà semplice. Rimasto escluso dalle commissioni del Federal Art Project della Works Progress Administration (WPA) – rivelatisi viceversa importanti nell’affermazione di molti artisti dell’Espressionismo Astratto – Ferren proseguirà la sua ricerca e il suo percorso artistico negli anni ’50 e ’60 tra brevi suggestioni stilistiche gestuali e semi-rappresentazionali e il progressivo sviluppo di un’astrazione dai geometrismi calibrati e nitidi, caratterizzata da una rinnovata sperimentazione di accostamenti cromatici dalle tonalità brillanti – quel concetto di “radiosità” che costituirà l’estremo punto d’arrivo della sua pittura.

Figura 10. John Ferren, Red Rose, olio su tela (152,4x127,6 cm), 1966
Figura 10. John Ferren, Red Rose, olio su tela (152,4x127,6 cm), 1966
Figura 11. John Ferren, Magnificat, olio su tela (152,4x183 cm), 1965, Hirshhorn Museum, Washington, DC
Figura 11. John Ferren, Magnificat, olio su tela (152,4x183 cm), 1965, Hirshhorn Museum, Washington, DC

Si colloca alla metà degli anni '50 la conoscenza, la frequentazione e l'amicizia con Alfred Hitchcock, dalla quale scaturirà la loro duplice collaborazione artistica. Come precisato da Marshall N. Price, le circostanze del loro incontro non sono ancora state chiarite:

[…] la famiglia Ferren iniziò a trascorrere le proprie estati a Los Angeles nei primi anni ’50 […] la città era nota all'artista come luogo della sua infanzia. Fu l’inizio di quasi un decennio di attività principalmente estiva nella regione, che incluse una serie di esposizioni personali così come una serie di incarichi di insegnamento. […] Non è chiaro come Ferren incontrò Hitchcock […] È altresì possibile che Hitchcock abbia visto l’esposizione di Ferren del 1952 al museo d’arte di Santa Barbara […]. Ferren venne ingaggiato da Hitchcock nel 1954 per creare una serie di dipinti, schizzi a carboncino e pastelli da usare ne La congiura degli innocenti […] I dipinti e i disegni di Ferren dovevano essere dell’artista Sam Marlowe, uno dei principali personaggi del film (Price 2011: 186).

Price – riprendendo le osservazioni di Felleman – sottolinea il ruolo sostanziale di questi oggetti visivi:

La storica del cinema Susan Felleman ha osservato che i dipinti per il film erano intesi per assolvere a una specifica funzione oltre a quella di puri oggetti di scena. Felleman afferma che Hitchcock abbia riconosciuto l’interesse e l’abilità di Ferren nei confronti del colore e che li usasse di conseguenza.

[…] “I dipinti di Ferren partecipano qui, seppur eccentricamente, a un dialogo sull’arte e il suo valore, che di fatto aveva qualche urgenza nel periodo post-bellico ed esprimono qualcosa dell’identità di Hitchcock come artista visuale.” (Felleman, cit. in Price 2011: 187).

Appare riconoscibile così un importante punto di contatto tra il regista e il pittore, rappresentato dalla comune sensibilità riguardo all’uso significante del colore, che viene sotteso nel dialogo tra i cromatismi dei dipinti astratti e i toni caldi del paesaggio autunnale del New England in La congiura degli innocenti ma anche misuratamente calibrato nell’evocare immediate corrispondenze emotive e nel confondere i margini tra il reale e la rappresentazione in La donna che visse due volte.

Ferren in questo film imbastisce questo tipo di ricerca nel dettagliato trattamento che elabora per la realizzazione della sequenza dell’incubo di Scottie, ma anche nelle scelte cromatiche che elegge per la raffigurazione del ritratto di Carlotta.

Nel trattamento per la sequenza il ritmo visivo viene descritto come una “pulsazione del colore” che inizia dal “blu indaco (viola)” per poi evolversi in un crescendo culminante nel bianco e nero (Auiler 1998: 42-43).

Nel dipinto (fig. 12) Ferren avvolge Carlotta in uno sfondo naturale d’acqua e d’atmosfera dai toni sfumati, dove la nota dominante è esattamente il blu indaco dell’abito della donna.

Steven Jacobs descrivendo il dipinto appropriatamente rileva:

Posta nel portico di una dimora coloniale […] l'immagine di Carlotta è bilanciata da un paesaggio sulla sinistra. Esso consiste in una massa d’acqua e in uno spettacolare cielo annuvolato al tramonto – le nubi color lavanda, così tipiche della zona della baia, danno lucentezza all’abito e alla colonna. Il dipinto inequivocabilmente fa riferimento alla tradizione del ritratto aristocratico inglese ispirata da Thomas Gainsborough […] Come in Gainsborough, il ritratto di Carlotta è dipinto con colori a olio diluiti […] e include un’elaborata ambientazione dello sfondo (Jacobs, Colpaert 2013: 124).

Figure 12. Ritratto di Carlotta
Figure 12. Ritratto di Carlotta

Il modello del ritratto aristocratico inglese consente una contestualizzazione sociale della figura senza privarla di un’ambientazione naturale. Carlotta appare avvolta da uno sfondo d’acqua e d’atmosfera dai toni cromatici liquidi e sfumati. Il suo abito ne assume la nota più brillante attraverso il blu indaco, un colore rilevante anche nella selezione cromatica ed emozionale della rappresentazione dell’incubo.

Abbandonate alcune caratteristiche del suo modello – imposte agli artisti precedenti, che lo rendevano negli intenti più formale e probabilmente più impegnativo stilisticamente e tecnicamente, il ritratto di Carlotta in qualche misura si riappropria – per mano del proprio autore – di uno stile e di un simbolismo maggiormente personali riconducendo all’origine il percorso della sua ricerca, tra la multiforme tradizione pittorica e la mutevolezza degli elementi naturali della città di San Francisco.

Questo approdo, così distante dall’idea del dipinto così come si era delineata nella fase iniziale di produzione del film, e pur nella sua accidentalità causale, conduce a due conclusioni che appaiono complementari. Se – come si è detto – il progetto iniziale possedeva in sé in maniera molto forte il principio della “replicazione” della tradizione artistica maggiore attraverso una copia tecnicamente in grado di competere con il modello – dove anche l’immagine di Carlotta doveva proporsi come una copia speculare di Madeleine –, l’inatteso avvicendamento tra Vera Miles e Kim Novak ha condotto di necessità il regista a ripensare a questo modello in termini più relativi, distinguendo le sembianze della protagonista da quelle dell’antenata e conseguentemente spostando e rinforzando l’idea della duplicità innanzitutto sulla figura di Madeleine-Judy. L’immagine dipinta ha finito così per prestarsi a un’altra, appropriata duplicazione: la manifestazione della figura “vivente” di Carlotta prodotta dalla mente del protagonista nella sequenza dell’incubo.26 Lo spazio della pittura – come altrove in questo cinema – si è dischiuso letteralmente in questo modo al ritorno fantasmatico, all’inganno, alla minaccia dell’irrazionale, e la sua forma contingente – la spirale dello chignon e lo sguardo di Madeleine rivolto al nostro – ha acquistato definitivamente il suo valore essenziale: quella capacità evocativa e suggestiva che lo ha reso uno dei simboli e degli oggetti visivi più iconici di tutto il cinema hitchcockiano.

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  1. Sergio Perosa, analizzando le diverse declinazioni del topos del ritratto nella narrativa sette-ottocentesca distingue tre sottogeneri: il living portrait – il ritratto che si anima – ascrivibile alla narrativa gotica e “nera”, da Walpole ad Hoffmann e Gogol; il tell-tale portrait – il ritratto rivelatore – affrontato da autori come Hawthorne, Eliot, Stevenson, James, nei quali il ritratto “distrugge e uccide come portatore di una maledizione ancestrale, atavica” e ciò che rivela è talvolta un segreto che minaccia l’identità di un discendente; e infine il ritratto che uccide, quello che assorbe l’energia vitale del modello, in un transfert tra vita e Arte o in un rovesciamento dell’Arte sulla vita, come in Poe e Wilde. Diversi elementi presenti nelle manifestazioni letterarie del tema risultano significativi nelle sue successive espressioni cinematografiche relative al noir e al melodramma gotico degli anni ’40 e ’50 (Perosa 2002: 271).

  2. L’origine mitica del ritratto – narrata nella Storia delle arti antiche di Plinio il Vecchio –, stabilendone la doppia natura di segno caratterizzato dalla somiglianza e generato dalla contiguità, lo definisce – secondo la classificazione dei segni in Peirce, come rilevato puntualmente da Bettini – quale immagine che possiede contemporaneamente carattere iconico e indessicale (Bettini 1992: 53).

  3. Trad. nostra. Tutte le citazioni dall’inglese e dal francese proposte nel corso del saggio sono a cura dell’autrice.

  4. Il ritratto pittorico in Hitchcock, in particolare, aderisce ad alcune tipologie e corrisponde a delle funzioni ricorrenti. Il ritratto femminile ancestrale – quale si presenta ne La donna che visse due volte, ma anche in Rebecca. La prima moglie (Rebecca, 1940) – si propone tipicamente come un’immagine sospesa tra desiderio, morte e ritorni perturbanti, in cui l’immagine diviene il luogo di uno scambio identitario potenzialmente fatale per la protagonista. Il ritratto patriarcale – esemplificato dal “trittico” dei ritratti del colonnello Paradine ne Il caso Paradine (The Paradine Case, 1947), del generale McLaidlaw ne Il sospetto (Suspicion, 1941) e di Frank Brenner ne Gli uccelli (The Birds, 1963) – rappresentando figure genitoriali, o sostitutive a queste, riveste una funzione censoria o ammonitoria, divenendo infine un segnale di colpa rispetto all'infrazione morale di un personaggio e alla minaccia all’ordine patriarcale stesso. Altrove il ritratto diviene il luogo di tentativi di autorappresentazione e affermazione identitaria femminile (gli “autoritratti” di Alice in Ricatto, Blackmail, 1929 e di Midge ne La donna che visse due volte) o riveste il carattere di reperto, di elemento di prova sulla scena di un crimine (l’autoritratto di Alice in Ricatto, o il ritratto a carboncino del defunto Harry ne La congiura degli innocenti, The Trouble with Harry, 1955, dove però il delitto si dimostra infine solo un’erronea deduzione, una falsa premessa gettata sul percorso dei personaggi a genesi dell’intreccio).

  5. Una riflessione riguardo l’utilizzo degli oggetti d’arte nel cinema hitchcockiano non può non partire da dei principi d’analisi riferibili alla presenza dei ritratti dipinti nel cinema hollywoodiano, ben sintetizzati da Dominique Païni e Thomas Elsaesser. Païni afferma: “Nella maggior parte dei casi, i ritratti nei film sono ritratti piuttosto mediocri. Il cinema deve usare un approccio così umiliante per legittimare sé stesso? […] Precisamente, non è quello il ruolo di un dipinto quando appare in un film: una deviazione per lo sguardo. […] questo ritratto […] dovrebbe agire nell’immaginario di un personaggio, non nel nostro. La nostra fiducia negli effetti di questo ritratto passa attraverso l’identificazione con un personaggio” (Païni 1992a: 5). Elsaesser, interrogandosi sulle stesse premesse, inverte i termini del problema: “[…] suggerendo che l’inverso è anche vero: un dipinto in un film è come un buco nero, esso risucchia tutta l’energia e il movimento” (Elsaesser 1992: 148). È questa un’osservazione che coglie un aspetto sensibile anche rispetto all’uso hitchcockiano dei dipinti, alla loro funzione di snodo e filtro tra diversi registri della rappresentazione. In Hitchcock l’utilizzo dell’arte – il suo “livello” – è sempre funzionale alla contestualizzazione del racconto, e spesso si manifesta nell’uso della copia, della riproduzione, della replicazione popolare e di genere. Questo principio è chiaramente riscontrabile anche nella ricostruzione documentaria della commissione italiana del ritratto di Carlotta, nella precisione dei modelli pittorici di riferimento e della richiesta riguardante la presenza della patina d’invecchiamento sul dipinto.

  6. Hitchcock arreda gli spazi domestici di tre suoi celebri criminali seriali – la camera dell’anonimo protagonista de Il pensionante. Una storia della nebbia di Londra (The Lodger. A Story of the London Fog, 1927), il salottino di Norman Bates in Psycho (1960) e l’appartamento di Bob Rusk in Frenzy (1972) – con riproduzioni d’arte e stampe popolari rappresentanti nudi e ritratti femminili, suggestive dell’idea della loro replicazione così come della reiterazione dei delitti sulle loro vittime.

  7. Nel giugno del 1956 Hitchcock si rivolge al celebre drammaturgo Maxwell Anderson, incaricandolo di trarre una prima sceneggiatura da D’entre les morts – il romanzo di Pierre Boileau e Thomas Narcejac di cui aveva acquistato i diritti – ma la collaborazione non si protrae oltre la stesura di una prima bozza. Dopo una breve successiva collaborazione con Alec Coppel, Hitchcock nel dicembre 1956 si rivolge allo sceneggiatore nativo di San Francisco Samuel Taylor, che contestualizza appropriatamente la storia e ne approfondisce i personaggi. La sceneggiatura finale è datata 12 settembre 1957.

  8. Alfred Hitchcock Collection, Vertigo (Production), Folder 997, Margaret Herrick Library, Academy of Motion Pictures Art and Sciences, Los Angeles.

  9. Riguardo al dipinto nella lettera viene precisato che “è stato dipinto a Roma” e “ha sul suo retro il seguente timbro: Agnes Burrel Nation Studio, 53 B Via Margutta, Rome, Italy”. Questa artista quindi verosimilmente soggiornò presso gli Studi Patrizi, un complesso di edifici adibiti ad atelier costruiti dal marchese Francesco Patrizi a partire da metà Ottocento. Il primo nucleo, edificato nel 1860, comprendeva infatti anche il civico 53 B. Questo complesso divenne il cuore di un vero e proprio quartiere degli artisti, accogliendo molte presenze importanti ma anche moltissime altre che rimangono anonime e ancora in corso di documentazione. Sebbene il suo soggiorno non appaia al momento attestato dalle fonti documentarie riguardanti gli inquilini degli studi – non apparendo il suo nome nell’elenco della “Rubricell” compilata e pubblicata da Valentina Moncada nella monografia sulla storia degli atelier – va tenuto presente, come sottolinea la stessa curatrice, che “è altresì emerso che gli studi erano spesso condivisi da più artisti” (Moncada di Paternò, 2012: 286). Il ritorno dell’artista in America è attestato – dai registri dei passeggeri delle navi che approdavano ad Ellis Island – al 28 ottobre 1920, mentre nel dicembre 1921 il bollettino dell’Ebell Club di Los Angeles annuncia un’esposizione di sue opere – la “Collezione d’arte di Agnes Burrel Nation di riproduzioni di vecchi maestri italiani” –, riportando alcune osservazioni della stessa artista che ne circostanziano e contestualizzano genesi e motivazioni produttive. (A treat for art lovers, The Ebell of Los Angeles, Monthly Bulletin, Oct. 1921-June 1923, pag. 38; http://archive.org/stream/ebelloflosangele1921ebel/ebelloflosangele1921ebel_djvu.txt ;http://www.libertyellisfoundation.org ultimo accesso: 14/12/18). L’artista è registrata come “Agnes Burrelnation” nel 1920 e come Burrel Nation in un successivo approdo nel 1936).

  10. Alfred Hitchcock Collection, Vertigo (Production), Folder 997, Margaret Herrick Library, Academy of Motion Pictures Art and Sciences, Los Angeles.

  11. Ivi.

  12. Ivi.

  13. Paramount Production Collection, Folder 11, Vertigo Production, Margaret Herrick Library, Academy of Motion Pictures Art and Sciences, Los Angeles.

  14. Ivi.

  15. “Nel marzo ’45 la nascita del movimento. E nell’ottobre successivo la prima mostra, nella galleria San Marco di via del Babuino 61. […] La poliedricità dell'Art Club si toccava con mano alla galleria San Marco: sopra le mostre, nella cantina un jazz club […] Transitavano qui attori, registi, scrittori […] E a via Margutta l’Art Club favorì l’apertura al pubblico di tutti gli atelier, in serate di cene e balli in strada”, Quando l’Art Club segnò la rinascita italiana, http://www.iltempo.it/cultura-spettacoli/2014/05/23/gallery/quando-lart-club-segno-la-rinascita-italiana-940401 (ultimo accesso: 14/08/17).

  16. Vittorio del Gaizo cita Massimo Franciosa che definisce le “sinfonie” dei mercati come […] “il mondo più vero di Sarra”, e precisa “come il pittore sappia far nascere i paesani dalle case e le case dagli alberi e gli alberi dalla montagna; che non è soltanto una bella immagine, ma una buona illustrazione critica di alcune tele di questo periodo (siamo ancora nel ’58), dove, attraverso l’intrico fittissimo e quasi geometrico della trama è riconoscibile un lenticolare amore per i dettagli.” (del Gaizo 1986: 34).

  17. Sarra realizzò assieme a Domenico Purificato nel 1957 gli affreschi della Prefettura di Frosinone. Eseguì i mosaici dell’Ospedale Civile di Vibo Valentia e dell’Ospedale di Chiaravalle Centrale (Catanzaro). Realizzò a Roma i pannelli della chiesa di S. Alessio all’EUR e la pala d’altare della chiesa delle Betlemite; a Frosinone dipinse le pale d’altare della cattedrale di S. Maria.

  18. “Se il cuore guarda al mio paese natale, il pennello non si sottrasse, sia pure seguendo linee tortuose e, forse a tratti, contraddittorie ai richiami e alle suggestioni dell’arte contemporanea: da me rivissuti, come credo sia per tutti, in chiave personalissima. Perché ogni artista, quale sia la propria ispirazione, e dovunque batta il suo cuore, è sempre artista del suo tempo” ( Manlio Sarra, 1985, cit. in http://www.manliosarra.altervista.org/index.html ultimo accesso 16/12/18).

  19. Paramount Production Collection, Vertigo Production, Folder 11, Margeret Herrick Library, Academy of Motion Pictures Art and Sciences, Los Angeles.

  20. Ivi.

  21. Il commento – di Coleman e dei restauratori Robert A. Harris e James Katz – è inserito nell’edizione di quell’anno della Universal Home Video. Cit. in Jacobs 2012: 206.

  22. Ivi, p. 200.

  23. Sebbene nel citato commento di Coleman, Harris e Katz inserito nell’edizione DVD della Universal Home Video il dipinto venga genericamente ascritto all’esecuzione dell’anonimo pittore hollywoodiano, in assenza del riscontro di elementi documentari non si può escludere che possa essere ricondotto ad altra mano, compresa quella dello stesso Sarra, come parrebbero dimostrare – pur entro i limiti di una visione indiretta del dipinto – alcuni dettagli del volto e della stesura pittorica.

  24. Robert Harris in un forum di discussione online sulle versioni del ritratto del 13/07/2009 (http://www.hometheaterforum.com/community/threads/about-the-carlottas-portrait-in-vertigo.284240/ ultimo accesso 19/08/2017).

  25. Nel 1934 Ferren entra a far parte a Parigi dell’Association des Artists Modernes Américains et Anglais e nel 1936 il suo lavoro viene incluso nella Five Contemporary American Concretionists della Paul Reinhardt Gallery di New York. Negli stessi anni inaugura le sue prime personali alla Pierre Matisse Gallery.

  26. Se nel trattamento dettagliato di questa sequenza – presentato da Ferren poco prima della sua produzione, nell’agosto 1957 – era previsto che l’incubo del protagonista si manifestasse attraverso l’immagine del ritratto, nella sequenza filmata il dipinto risulta assente, mentre rimane la presenza – fantasmatica e concreta a un tempo – di Carlotta. Questo particolare pare rendere ancora più convincente la “trappola” perturbante posta al cuore dell’intreccio, non solo rinforzando la focalizzazione spettatoriale sul personaggio ma – aspetto forse ancora più sottilmente intrigante – aumentando la sua credenza riguardo alla vicenda delineata nella cornice narrativa principale: la storia di Madeleine.