1 Why shold we take video-essay on Spielberg seriously?
“Is Steven Spielberg too popular to be an artist?” La domanda con cui poco tempo fa il “New York Times” apriva la recensione del documentario di Susan Lavy dedicato alla vita e all’opera del regista americano (Spielberg, HBO, 2017 cfr. Poniewozik, 2017), definisce anche i termini del controverso rapporto tra i film studies e il cinema di Spielberg. Sbrigativamente, si può dire che fino ai primi anni Duemila né la teoria, né l’analisi, sembravano particolarmente interessate ad occuparsi dei suoi film. Con le dovute eccezioni, la bibliografia critica su Spielberg era condizionata dalla netta prevalenza di letture tematiche e biografie che raccontavano il guru dell’entertainment hollywoodiano, l’abile creatore di sogni e successi planetari, il padre di icone della cultura pop, ma lasciavano sullo sfondo l’analisi della regia, il modello di messa in scena, le invenzioni visive, la personale rielaborazione del lessico del cinema americano, insomma “l’autore”. Film come Schindler’s List avevano prodotto fiumi di discorsi critici di taglio soprattutto socio-politico (cfr. Hansen 1996), ma complessivamente la produzione di Spielberg era archiviata come emblema di “conservative ideology, cuteness, racism, triviality and escapism” (Morris 2006: 18). Nel 2006, in uno dei primi lavori che affrontano in modo sistematico la struttura formale dei film di Spielberg, Warren Buckland sentiva il dovere di giustificare la “provocatoria” prospettiva adottata spiegando al lettore che non c’erano differenze tra E.T e Schinder’s List, tra Jurassic Park e The Color Purple, ovvero tra lo Spielberg da blockbuster e quello da premio Oscar, serio, profondo, drammatico, politico:
[…] Throughout this book I have attempted to demonstrate that Spielberg’s popular and entertaining blockbusters are “serious” films in terms of the way they are made. Once we go beyond content and focus on their form, we notice that their camera work, editing, use of off-screen space, and narrational techniques are as complex and sophisticated as any European art film by Dreyer, Fellini, or Rivette, however paradoxical that may sound. (2006: 228)
L’idea di una radicale continuità tra film apparentemente così diversi se non altro nei temi, come quelli di Spielberg, è la prospettiva che emerge anche nel video-essay di Kevin B. Lee, The Spielberg Face, pubblicato inizialmente su Fandor nel 2011 e ispirato a un saggio fotografico di Matt Patches, The Spielberg Face: A Legacy. Ben presto divenuto virale grazie all’eco di testate prestigiose, il saggio di Kevin B. Lee è una formidabile meditazione sulla potenza espressiva del close-up nella regia di Spielberg, sulle valenze metaforiche di quello stupore scolpito nello sguardo di personaggi ripresi in primo piano, spesso enfatizzato da un movimento di macchina, e raggelati da qualcosa di incredibile o mostruoso che improvvisamente è li di fronte a loro. La “Spielberg face” diventa un segno decisivo dello stile di Steven Spielberg, una firma che racconta subito la sua idea di cinema centrata sulle emozioni dello spettatore, un motivo ricorrente capace di tenere insieme gli alieni, i dinosauri, i nazisti o Richard Nixon. Proprio il campo della videographic analysis ha rappresentato in questi anni l’ideale terreno di consolidamento di una “close reading” del cinema di Spielberg, attraverso contributi che a vario livello hanno messo in primo piano le strutture formali dei suoi film, proseguendo in modo proficuo il lavoro avviato da Buckland. Si vedano ad esempio, Magic and Light: The Films of Steven Spielberg, video-essay diviso in cinque parti realizzato da Matt Zoller, Steven Santos e Aaron Aradillas nel 2011; The Passions and Technique of Steven Spielberg, di Steven Benedict (2012); Steven Spielberg Shot By Shot, un’analisi di Jaws di Antonios Papantoniou (2015); The Spielberg Touchscreen di Ken Provencher (2017). Non è azzardato affermare che Spielberg è forse il primo cineasta la cui letteratura critica è stata notevolmente arricchita e innovata dalla prospettiva del video-essay e dalla videographic criticism (sulle cui distinzioni rimando a Morton, 2017). Indubbiamente, il fenomeno riguardava in molti casi l’inedita possibilità per il fandom del regista di prendere la parola in opposizione agli schemi della critica ufficiale, ma nel complesso gli strumenti del video-essay e il dialogo con le immagini e tra le immagini sembrano ideali per analizzare un cinema così marcatamente visivo come quello di Spielberg. Utile nella prospettiva della didattica (nella quale si muove anche il lavoro che qui presentiamo), la videographic analysis funziona nel caso di Spielberg anche come riscoperta della tecnica e delle invenzioni di un autore a lungo circoscritto a letture di taglio tematico e socio-culturale, quando non frettolosamente liquidato da pregiudizi ideologici ancorati all’opposizione tra “arte” e “box-office”. Inquadrata dentro un’analisi formalista e alla luce delle possibilità espressive e interpretative della videographic analysis, l’apparente semplicità del linguaggio di Spielberg rivela invece tutta la sua straordinaria ricchezza visiva e complessità.
2 “All directors should be animators first”
Nel 1978, dopo l’uscita di Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg è invitato a un ciclo di seminari dell’American Film Institute. In quell’occasione ha modo di confessare la sua profonda ammirazione per Disney e il cinema d’animazione, spiegando non soltanto che tra l’animazione e il cinema non c’è differenza ma che proprio nei disegni animati si esprime al meglio l’idea di immaginazione visiva che alimenta il lavoro della regia cinematografica. Come afferma nel seminario: “All directors should be animators first”. Non siamo distanti dalle pagine vibranti che Ejzenštejn dedicò a Walt Disney considerato dal teorico del cinema sovietico come la quintessenza del film americano e il più grande contributo di quel paese all’arte del XX secolo: “Quanta onnipotenza divina! Quale magica ricostruzione del mondo secondo la propria fantasia e il proprio arbitrio! Un mondo di linee e colori al quale si impone di sottomettersi, di cambiare forma” (2004: 16). Ejzenštejn, com’è noto, non fu solo un appassionato ammiratore di Disney, ma anche tra i primi a coglierne la portata al contempo sperimentale, artistica e popolare, concentrandosi più che su temi, valori culturali e archetipi narrativi sui rapporti tra linee, superfici, volumi, su quella che chiamava “la plasticità della forma in quanto tale” (2004: 65). Allo stesso modo, l’influenza del cinema d’animazione su Spielberg non va cercata solo in alcuni temi e motivi ben noti della sua opera (il fantastico, l’infanzia, il sovrannaturale) o, va da sé, nei suoi film d’animazione, ma nelle strutture formali del suo modello di regia e in una concezione “grafica” dei rapporti tra le immagini. È questa la prospettiva in cui si muove il videosaggio Graphic Spaces: Film Transitions in Steven Spileberg’s Filmaking, un contributo che esplora l’uso e la ricorrenza di alcune soluzioni di editing (graphic match, visual transition, sound-bridge) particolarmente utili per comprendere il lavoro sulle immagini, la costruzione dello spazio e le strutture del racconto nel cinema di Spielberg.
Il termine graphic match è stato introdotto nel lessico dei film studies da David Bordwell e Kristin Thompson. Come ricorda Thompson, l’idea fu suggerita dall’analisi di un film a colori di Ozu, Ohayō (1959), in un passaggio nel quale i due studiosi notano un elemento cromatico di continuità tra due scene che non può essere casuale:
There was no doubt that Ozu had deliberately placed a bright red sweater in the upper left quadrant of the frame in one shot and a bright red lamp in the same basic position in the next shot. We didn’t know what to call this technique, so we dubbed it a “graphic match.” Two years later, when we started writing Film Art: An Introduction, we included the term as one technique of film editing and used Ozu’s match on red as one example. (2011)
Da lì in poi il termine viene impiegato in modo più ampio, includendo in alcuni casi associazioni di montaggio di tipo “metaforico” oltre che formale, come nel celebre esempio dello stacco tra l’occhio reciso da una lama e la nuvola che solca la luna in Un chien andalou di Luis Buñuel e Salvador Dalì. Analizzando l’uso di graphic match nel cinema di Spielberg ci muoviamo nel quadro di quella “intensified continuity” che, secondo David Bordwell (2002: 16-28), caratterizza le forme di editing del cinema post-classico hollywoodiano, ovvero nel nostro caso le “film transitions”, passaggi che servono a far avanzare rapidamente l’azione, creando la maggior armonia visiva possibile tra una scena e l’altra. Prendendo in considerazione lo script di Silence of the Lambs, il guru della sceneggiatura americana Syd Field si sofferma ad esempio sulla ricorrenza di “great visual transitions, pieces of film or dialogue that bridge one scene with the next” (1994: 171), ricordando come le transizioni più efficaci sono quelle che non attirano l’attenzione dello spettatore: “If you’re watching a movie and become aware of the visual transition, or feel the arty influence of the director in each scene”, scrive Field, “the chances are that it’s not a very good film” (1994: 172). Field si muove evidentemente dentro un paradigma di economia narrativa tipico del linguaggio hollywoodiano, considerando superflui, ridondanti o inutilmente “manieristi” tutti quei passaggi che esaltano la regia e la macchina da presa a discapito della fluidità del racconto. Tale posizione può però essere rivista proprio alla luce del caso di Spielberg.
3 Opening sequences
Come nota Warren Buckland (2006), una delle caratteristiche dello stile di regia di Spielberg è l’uso di graphic match nella costruzione del prologo o nella prima sequenza di un film. In linea con le regole del cinema hollywoodiano, dove l’apertura di un film serve a introdurre in chiave più o meno allusiva o esplicita i temi principali su cui si costruirà il conflitto tra i personaggi e svilupperà la trama, Spielberg dedica grande importanza alla costruzione della prima sequenza, affidata in genere più alle immagini che ai dialoghi (vedi ad esempio l’apertura di E.T., una lunga sequenza d’azione notturna del tutto priva di dialoghi). Il graphic match nel prologo di Schindler’s List e quello che chiude la sequenza di apertura di Jaws offrono un ottimo esempio di film transitions che non si limitano a far avanzare l’azione, ma creano metafore visive dotate di una forza plastico-espressiva capace, soprattutto nel caso di Schindler’s List, di tradurre in immagine una serie di discorsi che altrimenti risulterebbero generici, ridondanti, banali, tanto più se affidati ai dialoghi tra i personaggi. Il videosaggio mette a confronto questi due passaggi per evidenziare la comune strategia di fondo. Nel caso di Schindler’s List, la chiave metaforica del graphic match che unisce il filo di fumo della candela con quello del treno che arriva in stazione è sin troppo eloquente. L’enormità della Shoah è evocata attraverso un’associazione visiva tra il rito dello Shabbat e un’immagine emblematica dell’iconografia degli Holocaust Film con cui Schindler’s List instaura un denso dialogo (vedi le citazioni da Shoah di Claude Lanzmann, vedi lo stesso passaggio dal colore al bianco e nero che richiama l’impianto visivo del documentario di Alain Resnais Nuit et brouillard). L’organizzazione formale di questo passaggio non si muove solo nell’orizzonte dell’economia narrativa hollywoodiana, vale a dire l’esigenza di calare subito lo spettatore dentro la storia che sta per seguire, ma nella produzione di un’immagine emblematica del film. Senza spiegare nulla, attraverso un meccanismo metaforico, Spielberg ha già detto tutto quello c’è da dire quando ci si avvia a raccontare una vicenda che ha a che fare con il destino del popolo ebraico durante la Seconda guerra mondiale. Ad un primo livello di lettura, il fumo della candela e quello del treno sono legati da un accostamento semplice, formale, grafico, come in una rima visiva. Me né il fumo della candela, né quello del treno sono due segni qualsiasi perché rimandano a un rito religioso preciso (lo Shabbat) e all’immaginario della deportazione degli ebrei (il treno). Il loro accostamento non segue le ragioni del racconto, anche perché non è chiaro il rapporto spaziale e temporale tra le due immagini. Semmai, gli effetti di senso figurativo dei due segni e la loro analogia plastica (equilibrio, rima visiva, armonia formale) si traducono in un senso metaforico che più che mandare avanti l’azione visualizza un concetto (l’annientamento degli ebrei d’Europa durante la seconda guerra mondiale).
Nel caso di Jaws, il procedimento è decisamente più classico ma anche qui la transizione da una sequenza all’altra non si incarica soltanto di far avanzare l’azione. Il graphic match che unisce le due diverse immagini della linea d’orizzonte dell’oceano (qui legato da una dissolvenza) esalta la continuità visiva tra una sequenza e l’altra ma, allo stesso tempo, mette immediatamente in correlazione la prima vittima dello squalo con lo sceriffo Brody (ripreso in semisoggettiva mentre scruta l’oceano dalla finestra della sua abitazione), il personaggio che da lì in poi gli darà la caccia per tutto il film. È un procedimento di costruzione dello spazio cui Spielberg ricorre anche attraverso il sound-bridge, come nei due esempi proposti dal video saggio, Catch Me If You Can e The Lost World: Jurassic Park. Il rapporto tra campo e fuori-campo non segue solo le ragioni del racconto ma quelle dell’armonia formale e dell’unità organica dei rapporti tra immagini e suoni.
In alcuni casi, graphic match e visual transitions si definiscono attraverso associazioni di tipo puramente formale, senza necessariamente attivare un piano apertamente metaforico.
Emblematico in tal senso il passaggio visivo dalla montagna del logo Paramount al profilo montuoso su cui si apre Raiders of the Lost Ark prima di mostrare la sagoma (ripresa di spalle) di Indiana Jones. L’ingresso del mondo della finzione funziona nella regia di Spielberg come ingresso in un mondo che è anche regolato da rapporti grafici, scambi metaforici e associazioni plastico-visive tra le immagini, in questo non distante dall’universo dell’animazione. Si veda anche il prologo di War of the Worlds, non costruito soltanto sul susseguirsi di ricorrenze formali (la forma sferica della terra, della goccia d’acqua, del semaforo rosso) ma al pari di quello di Schindler’s List definito dentro precise associazioni tematiche e piani metaforici, ovvero, come nota Buckland, “the Martian’s desire to re-create the Earth in the image of their own planet” (2006: 214).
4 “Graphic spaces/Graphic matches”
Il videosaggio ha un taglio descrittivo. Attraverso l’uso di split-screen, grafica, freeze-frame e l’impiego della voice-over, utile soprattutto nei lavori di videographic analysis che ambiscono ad avare anche una valenza didattica (cfr. Grizzaffi 2017) si vuole attirare l’attenzione sull’uso delle film transitions e sul loro significato per la comprensione e lo studio del modello di regia di Spielberg. Si tratta di figure reperibili a vari livelli del film che danno vita ad alcuni “paradigmi grafici” ricorrenti, soprattutto nel caso degli incipit, e giocano un ruolo-chiave nella costruzione del dramma visivo e dei conflitti che vedremo all’opera nella storia. La dimensione grafica della composizione, il dinamismo visivo, l’aspetto plastico della successione e dell’associazione delle inquadrature si presentano quindi come tratti costitutivi dello stile di Spielberg. Uno stile che si offre come tramite tra il paradigma classico e il “digital cinema”, proprio a partire dalla costruzione dello spazio secondo logiche che appartengono più al mondo dell’animazione che a quello del realismo cinematografico (cfr. Thanouli 2009: 70-112). Come ricorda tra gli altri Lev Manovich, nelle tecnologie digitali la stessa distinzione tra “animazione” e fotorealismo cinematografico deve essere radicalmente ripensata alla luce di una generale enfasi sulla dimensione “grafica” delle immagini: “The opposition between the styles of animation and cinema defined the culture of the moving image in the twentieth century. Animation foregrounds its artificial character, openly admitting that its image are mere representations. Its visual language is more aligned to the graphic than to the photographic” (2002: 289, corsivo mio).
La riflessione sull’uso del graphic match nel cinema di Spielberg permette pertanto di elaborare alcune considerazioni di carattere più teorico. Come abbiamo visto, sia nella prospettiva di Syd Field che di Kristin Thompson, il graphic match si colloca in modo estremamente ambiguo e problematico rispetto al “continuity system” del cinema classico. Thompson a riguardo è decisamente esplicita:
Graphic matches precise enough to be noticed as such tend to jolt us a little out of our smooth concentration on the story action. They are not the basic of continuity […] on the contrary, they often appear in films outside the continuity tradition. Abstract films often play on the graphic similarities (matches) or contrasts (mismatches) among shapes from shot to shot. Such abstract play is, in effect, their subject, and we pay attention to the pictorial flow as we would pay attention to story in a conventional narrative film. (2011)
Secondo Buckland, invece, la regia di Spielberg rivela una particolare tendenza all’unità e all’armonia della forma che si manifesta anche (se non proprio) nell’uso di graphic match e di associazioni metaforiche tra le immagini. I graphic match rivelano cioè come il legame compositivo delle inquadrature dal punto di vista dei loro valori plastici, un tema caro al cinema e alla teoria di Ejzenštejn, sia anche un aspetto decisivo del racconto hollywoodiano sviluppato da Spielberg. A proposito del passaggio che chiude la prima sequenza di Jaws, Buckland scrive:
Although at first graphic match may appear to be a distracting mannerist stylistic trick, it does in fact link the scenes thematically […] the exploitation of film’s expressive capacities do not stand out in themselves, but support the events represented in the shots [it goes] beyond pedestrian rendition and pusher the film toward significant form and organic unity. (2006: 90-91)
L’idea di “organic unity” definisce qui non solo la capacità di strutturare il lavoro di regia in modo fluido e dinamico, ma anche il superamento della distinzione tra esigenze del racconto e lavoro dell’immaginazione visiva. In tal senso, il videosaggio si muove nell’orizzonte dell’interpretazione di Buckland, cercando di mettere in evidenza come soluzioni di editing apparentemente così “formaliste” siano invece al servizio della forza comunicativa del cinema di Spielberg, ovvero della sua capacità di costruire un’emozione di massa, popolare, immediata.
References
Bordwell, David (2002). “Intensified Continuity Visual Style in Contemporary American Film.” Film Quarterly 55(3):16-28.
Buckland, Warren (2006). Directed by Steven Spielberg. Poetics of the Contemporary Hollywood Blockbuster. New-York-London: Continuum.
Ejzenštejn, Sergej Michajlovič (2004). Walt Disney. Milano: SE.
Field, Syd (1994). Four Screenplays. Studies in the American Screenplay: An Analysis of Four Groundbreaking Contemporary Classics. New York: Dela Trade.
Grizzaffi, Chiara (2017). “Let them speak! Against Standardization in Videographic Criticism.” [in]Transitions. Journal of Videographic Film & Moving Image Studies 4(1). http://mediacommons.futureofthebook.org/intransition/2017/03/21/let-them-speak-against-standardization-videographic-criticism (ultimo accesso il 15.06.2018).
Hansen, Miriam Bratu (1996). “Schindler's List Is Not ‘Shoah’: The Second Commandment, Popular Modernism, and Public Memory.” Critical Inquiry 22(2): 292-312.
Manovich, Lev (2002 [2001]). Il linguaggio dei nuovi media. Milano: Olivares.
Morris, Nigel (2006). The cinema of Steven Spielberg: Empire of light. London-New York: Wallflower.
Morton, Drew (2017) “Beyond the Essayistic: Defining the Varied Modal Origins of Videographic Criticism.” Cinema Journal 56(4):130-136.
Poniewozik, James (2017). “Review: Spielberg is a Close Encounter with Genius.” New York Times, 5 oct. https://www.nytimes.com/2017/10/05/arts/television/spielberg-documentary-review.html/ (ultimo accesso 15.06.2018).
Thanouli, Eleftheria (2009). The post-classical cinema. An International Poetics of Film Narration. London-New York: Wallflower.
Thompson, Kristin (2011). “Graphic content ahead.” Observations on Film Art, May 25. http://www.davidbordwell.net/blog/2011/05/25/graphic-content-ahead/ (ultimo accesso 15.06.2018).