1 Introduzione
La possibilità di fruire contenuti audiovisivi tramite il web e, allo stesso tempo, di poterli anche realizzare con relativa semplicità e accessibilità di costi, sta lentamente trasformando il linguaggio degli audiovisivi stessi. Nell’attuale panorama dell’offerta “libera” di contenuti, successiva alla diffusione di YouTube e simili, le tradizionali suddivisioni tra differenti formati (spot, videoclip, trailer) (cfr. Pezzini 2002) risultano oramai del tutto inconsistenti, ed è dunque necessario considerare nuove cartografie per mappare l’esistente.
Basti citare, a margine, il caso del fashion film (D'Aloia, Baronian, Pedroni 2017, e in particolare Spaziante 2017): un formato “branded” ibrido, ancora in stato evolutivo, che, muovendosi tra cinema, pubblicità, videoclip e videoarte, vede un rapido aumento della propria diffusione anche grazie alla possibilità di essere fruibile tramite spazi dedicati nella rete. Sotto l’etichetta di fashion film rientra, così, una eterogenea tipologia di casi, spesso molto interessanti sul piano dell’innovazione di linguaggio, per la quale è tuttora in corso una riflessione analitica. Considerazioni simili, relative all’ampio e mutevole panorama audiovisivo per il quale è difficile operare una lettura comprensiva, possono essere operate anche in relazione ai video essay, ovvero, più in generale, a quella produzione di contenuti audiovisivi correlata al commento, all’analisi, alla disamina e all’illustrazione di materiali cinematografici già editi.1
Va in primo luogo sottolineato che una delle modalità primarie con cui il video essay prende forma – senza la quale di fatto non potrebbe esistere – è il montaggio, o meglio, un ri-montaggio.2 Una vera e propria decomposizione dell’unitarietà di uno o più film, i quali in origine erano stati concepiti per generare nello spettatore una coinvolgente unità del sentire (Montani 1999: 24). L’autore di un video essay, infatti, smonta e scorpora l’unitarietà di un film per inserirvisi all’interno, servendosi spesso di una voce over, recuperando così anche una delle funzioni primarie del sonoro nel cinema, ovvero quella del commento (ivi, 30). Assistiamo quindi a una “riapertura” della coesione testuale, che va a toccare quelle necessarie procedure di configurazione attraverso le quali è passato un testo filmico. Il video essay si frappone negli interstizi della costruzione testuale come un corpo estraneo che si inserisce nel passaggio tra configurazione e rifigurazione (Montani 1999: 50). Seguendo un tipico procedimento di rimediazione, il video essay integra al proprio interno sequenze audiovisive già edite, dando luogo ad una prospettiva analitica. “Colui che mostra (…) si coinvolge, riflessivamente, nell'atto del mostrare (…). L'osservatore (…) viene invitato a effettuare un lavoro di comparazione tra le diverse forme dell'immagine audiovisiva” (Montani 2010: 9, in corsivo nel testo). In questo tipo di “montaggio intermediale” prende corpo un dissidio in grado di produrre un effetto di autenticazione. Si attiva così una forma di prestazione referenziale che non agisce mostrando la differenza tra immagine e mondo, bensì mostrando il rapporto “tra” le immagini, ovvero “tra le diverse componenti mediali e i diversi formati tecnici dell’immagine audiovisiva” (ivi: 23-24).
2 Lo scenario attorno ai video essay
Il video essay esprime, dunque, una esplicita volontà analitica tesa all’approfondimento e alla spiegazione in senso stretto. D’altra parte, deve convivere con un’ampia tipologia di contenuti ad esso affini (Tryon 2009, Peverini 2010). Gli esempi di questo tipo sono numerosi, ma basti citare il caso di Mashable, vera bibbia del Web 2.0, che per proporsi sempre più come fornitore di contenuti audiovisivi, ha acquisito Cinefix3 (Spangler 2016), un canale YouTube dedito alla produzione di video. Il canale presenta sotto-categorie quali: liste del “meglio di”, “cose che non sapevi”, video di fan che realizzano costumi, remake e mash-up, ma anche categorie come “Che differenza c’è?”, dove vengono operate approfondite comparazioni tra adattamenti (letteratura, cinema, remake), come ad esempio nel caso della relazione tra Blade Runner (1982), Blade Runner 2049 (2017), e il racconto di Philip K. Dick dal quale deriva la trasposizione.4
Su un’unica piattaforma come Cinefix coesistono istanze eterogenee che, a loro volta, convivono con altre proposte di simile eterogeneità. Vi troviamo infatti: l’elemento commerciale dato dalla sua natura “aziendale”; l’elemento amatoriale, dato dai contenuti dei fan; l’elemento analitico, dato dalla presenza di contenuti che presumono una competenza e un interesse approfondito su temi cinematografici. Una tale offerta di contenuti audiovisivi non comporta una precisa distinzione tra il ruolo del realizzatore e il ruolo del fruitore-tipo. Nel caso di Cinefix, costoro si definiscono “registi, scrittori, animatori il cui obiettivo è quello di intrattenere, informare e fornire ispirazione”. La missione è dunque di: intrattenimento, informazione, e (potremmo dire) disseminazione – non disinteressata – della cultura cinematografica.
Con queste premesse, una discussione approfondita su cosa sia e cosa non sia un video essay risulterebbe forse poco opportuna, oltre che ardua. Più interessante appare invece ragionare sullo scenario ricco e articolato che il fenomeno presenta, concentrandosi sulla prassi collettiva del commento. Inoltre, appare rilevante la necessità, sentita sia da chi produce sia da chi fruisce, di trovare uno spazio di mediazione che metta in contatto i potenziali pubblici e i reciproci interessi.
La pratica linguistica del produrre senso riproducendo era stata già da noi osservata in ambito semiotico (Dusi e Spaziante 2006, cfr. anche nota 1), ben prima dell’esplosione del Web 2.0 e dell’avvento degli “spreadable media” (Jenkins 2006a, Jenkins et alii 2013). Se ne avvertivano, del resto, le avvisaglie, specie osservando lo scenario audiovisivo attraverso la lente della popular music e delle nuove culture audiovisive, nel cui campo le pratiche del campionamento e del remix si erano affermate già a partire dalla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo. Ecco quanto affermavamo, consapevoli che gli strumenti della semiotica testuale andavano ripensati grazie alla svolta digitale:
non si può non notare che i testi, in particolare se pensiamo alle tecnologie digitali e ai nuovi media, spesso lavorano attraverso connessioni, in modo tale che ogni testo diventa in sé un (potenziale) intertesto. La testualità contemporanea rende solo più marcata questa potenzialità, già insita nei testi, che in alcuni casi può diventare manifesta e in altri mantenersi solo latente (o virtuale). […]
I testi audio-video (spesso provenienti dall’ambito pop) e gli audiovisivi contemporanei, diventano […] un modello di laboratorio, che sollecita un’indagine su una sociosemiotica delle procedure di senso e dei regimi testuali. (Dusi e Spaziante 2006: 9-10)
D’altra parte, Omar Calabrese, al proposito, ne L’età neobarocca (1989) aveva ampiamento argomentato la diffusione di una “estetica della ripetizione”. La semiotica, dunque, almeno in alcuni suoi componenti, già da tempo aveva colto la trasformazione in atto nei processi di articolazione delle testualità, determinati anche da cambiamenti tecnologici: non più chiusa da confini delimitati ma spinta verso la processualità, anche a partire dall’inedito ruolo dei fruitori. Le regole normative di produzione e valutazione erano in mutamento, e come tali anche le metodologie di analisi, ben rappresentate dalla svolta sociosemiotica degli anni Novanta (Landowski 1989, Eugeni 1999, Marrone 2001).
Anche l’attuale panorama mediale, in forte mutamento, necessita di un ulteriore aggiornamento nella capacità di osservare la realtà. Se risulta poco efficace affidarsi ad un approccio classificatorio che renda conto delle differenze tra formati, invece un esame delle principali soluzioni semiotiche adottate, e una riflessione sul loro statuto e sui loro regimi discorsivi, possono condurre a risultati a nostro avviso utili.
3 Video essay per i film studies
Fare critica, e ricerca, con un video essay, significa ad esempio lavorare al rimontaggio di un film per produrre una forma breve audiovisiva finalizzata a sottolineare o esplicitare quello che, nel caso dei lavori di Matt Zoller Seitz, recita la sua voice over.5 La trasformazione, riconfigurazione e manipolazione del film di partenza si esplicita allora nell’usare le immagini del film nella loro potenza visiva e sonora, riducendo però, se non eliminando, la pista sonora, che diventa perlopiù un sottofondo a cui sovrapporre la propria voce, con un gesto di ri-creazione che sa anche di presa di possesso dell’oggetto-film. Un “fare manipolativo” che fa diventare il film un oggetto teorico su cui lavorare, ridiscutendone tensioni interne e relazioni di significazione.
Riscrivere il senso del film con la propria interpretazione ‘sovrascritta’ (o ‘sovraddetta’) alle immagini è un modo di fare critica che rientra ancora nella relazione di “metatestualità” di cui parla Genette (1982), ponendosi nei “dintorni del testo” e accompagnando la vita culturale di un film, ma è anche un modo di uscire dalle modalità canoniche dell’epitesto critico che per Genette definisce la relazione di “commento” quando unisce un testo ad un altro di cui parla senza necessariamente citarlo (convocarlo) o nominarlo. Infatti, nel video essay abbiamo a che fare con una riappropriazione manipolativa (Eco 2003) di segmenti sincretici del film (immagini, scritte, parole e musica e relativi modi del montaggio); una rielaborazione che riduce il film a un prodotto video breve, ad esempio nel caso dei video essay su The Tree of Life (USA, 2011) per una durata complessiva di circa 24 minuti, con i video divisi in due parti distinte, con titoli di testa e di coda.6
Se il video essay non è un trailer del film (Dusi 2014), è però parassitario del film in un modo simile: non sembra avere un immediato fine promozionale nel contesto economico e produttivo del film, e il suo stuzzicare la curiosità dello spettatore non è votato a portarlo a consumare il prodotto-film; eppure si comporta in modo simile al trailer quando riduce il racconto del film ad una serie di frammenti concatenati dalla voce narrante e rielabora la sintagmatica del film in un nuovo montaggio orientato alla persuasione dello spettatore rispetto alla propria interpretazione critica. Anche se la sua mira non è quella di ‘vendere’ il film allo spettatore, il video essay mette in risalto e propone allo spettatore anche l’abilità tecnica del produttore del video e la sua expertise critica, e questo non ci stupisce poiché lo troviamo all’interno di un patto comunicativo (Odin 2000, 2015) intriso della logica dei social media, tra “socializzazione” (Eugeni 2015), “vetrinizzazione” del sé (Codeluppi 2012) e costante auto-promozione. Un tipo di patto comunicativo, però, diverso sia da quello estetico del film, sia da quello promozionale del trailer o da quello degli epitesti critici tradizionali. Si tratta di un prodotto che non è non solo ludico, anzi a volte è prettamente didattico (come fosse un serious game), e mentre interpella direttamente lo spettatore lo coinvolge e lo porta ad entrare nei concatenamenti testuali tra espressione e contenuto del film che è oggetto di analisi, in modo attivo e manipolativo. Un patto che potremmo semplificare così: “ti mostro la mia bravura ad interpretare e riformulare il discorso del film che ho scelto di studiare, al fine di insegnarti a guardare e proporti un fare interpretativo immediato ed empirico, che potresti riprodurre a tua volta”.
Nel suo lavoro critico, il video essay tenta di rendere evidenti gli impliciti dell’opera analizzata, e di disambiguarla attraverso una linea interpretativa che illumini le sue zone d’ombra (zone di solito ad alta complessità semantica ed estetica), oppure prova a riallineare la matassa dei legami intertestuali e intermediali, a volte con il solo risultato – ingenuo e non sempre efficace – di convocarli per metterli in scena, in una immediata comparazione. Ma l’atto di prelevare un segmento di un altro film per montarlo in rapida successione, oppure porlo accanto mediante lo split-screen, o perfino nel corpo stesso del film analizzato attraverso il montaggio a finestre multiple (come nei video essay di Catherine Grant7), si risolve in una rimediazione in cui il livello visivo spesso non basta. È necessario infatti uno spostamento sul registro verbale (orale, oppure scritto negli intertitoli) che spieghi i nessi e focalizzi gli elementi da considerare, facendoli così diventare delle evidenze critiche, come è nel caso della voice over di Zoller Seitz, che costruisce in questo modo un filtro metadiscorsivo su quelle che il montaggio video presenta come prove del proprio ragionamento sui film di Malick. Oppure, come fa Grant nel proprio blog e nelle riviste on line dedicate,8 il video essay – per quanto autonomo – è accompagnato da un commento o un articolo di approfondimento, in cui si riapre e si spiega quello che si è voluto inseguire nel proprio lavoro di rimontaggio. Certo, si tratta di uscire dalla “immacolata percezione” del cinema, come la chiama scherzosamente Bertozzi (2012), e ritrovare pratiche di montaggio che sanno di bricolage, tra decostruzione dei significanti e ricerca di nuovi significati già esplorate dalle opere di found footage e studiate oggi come “recycled cinema”: pratiche di riappropriazione di materiali filmici preesistenti, mosse dal principio del “godimento estetico che è quello compositivo, della continua elaborazione/ricomposizione del mondo” (Bertozzi 2012: 31).
In qualche misura, ci troviamo allora nel campo del remix studiato da Manovich (2001a, 2010) e dei suoi prodromi (Navas 2010; Gallagher 2012), poiché si tratta di differenti modalità di campionamento, rimontaggio, e innesto intertestuale che si cercano di contestualizzare in un nuovo discorso – orale o scritto –. Tuttavia, i video essay di Zoller Seitz e di Grant sono casi di remix particolari. Nel loro intento dichiaratamente accademico, a metà tra ricerca critica e ausilio didattico, questi video essay remixano dichiarando in partenza le fonti da cui prelevano i segmenti filmici, e anzi ammanniscono allo spettatore bibliografie e filmografie finali per attestare la buona fede dell’analista; oppure, a ben vedere, per meglio ribadire la propria scientificità offrendo la possibilità di revisione intersoggettiva delle argomentazioni critiche proposte. Se i video essay si presentano come remix mirati, calibrati nella loro apertura ermeneutica, appaiono allora come un modo di ripensare un film che esplicita una precisa prassi critica.
4 Video essay per le serie tv
Introdotto e accompagnato da una voice over concitata ma autorevole, un video del canale YouTube “Looper”,9 della durata di circa cinque minuti, presenta una serie di “Easter Eggs” pensate per incuriosire (e premiare) gli spettatori della prima stagione della serie tv Westworld (2016- in corso). Nella prima sezione del video, intitolata “Bioshocking” si esplicita una filiazione intermediale dichiarata dal creatore della serie (che viene mostrato in una fotografia) a partire dal videogame BioShock (2007). La si racconta anche con le immagini tratte dagli ambienti virtuali molto accurati, evidenziando come un personaggio del gioco si trovi nella serie tv sotto forma di citazione feticcio, dato che è presente solo la sua testa su un piedistallo, come fosse un modello – o un antenato – dei cloni che sforna il laboratorio di Westworld. Subito dopo, introdotto dal nuovo titolo “Dress for success” (letto sempre dalla voice over), il video essay elenca le somiglianze tra il personaggio femminile Dolores di Westworld, abbigliata come la protagonista di Alice nel paese delle meraviglie di casa Disney (1951) e il remake diretto da Tim Burton nel 2010. Si mostra inoltre una scena della serie, nella quale a Dolores vengono letti passaggi del libro di Lewis Carroll nelle sue sedute di ‘riassestamento’ e di reboot, prima di ricominciare a far parte del gioco che si presenta come un eterno remake. Ricordiamo, per chi non conosca Westworld, che Dolores è un raffinato replicante, prodotto per ripetere all’infinito la stessa scena in cui subisce uno stupro e viene uccisa nel parco a tema per adulti – ambientato nel Far West – denominato Westworld. Siamo solo al minuto 1.25 ed ecco la terza sezione, dal titolo “From Alice to Abrams”, in cui la voce narrante riprende il passaggio del libro Alice nel paese delle meraviglie letto nella serie tv e lo ritrova letto a voce alta dall’amorevole padre Jack al suo bambino, in un episodio della quarta stagione di Lost (2004-2010). Il nesso fornito dal video è basato sullo stesso produttore esecutivo delle due serie: J.J. Abrams, il quale viene a sua volta convocato dal montaggio mediante una fotografia. A questo punto, il video apre la sezione “Play It Again Sam”, in cui si mostrano tre rimandi intertestuali di Westworld legati alla colonna musicale, citando frammenti musicali di musica pop con frammenti intermediali di un videoclip dei Radiohead e di un videoclip dei Cure, per dimostrare come le canzoni usate nei diversi episodi della serie siano legate al mondo contemporaneo, quindi come la temporalità del racconto si ponga bel al di là dell’epoca vittoriana. Viene convocato il regista (e co-ideatore della serie) Jonathan Nolan per una dichiarazione citata in un lungo intertitolo scritto, a spiegare come la serie Westworld non sia né un western né un racconto novecentesco, ma si svolga in un futuro indefinito. E ancora: nella sezione intitolata “Delos”, la voce narrante spiega come la serie Westworld derivi dal film omonimo Westworld (Il mondo dei robot, 1973) scritto e diretto dallo scrittore Michael Crichton. Si mostra una foto dello scrittore e la copertina del suo libro Jurassic Park per aprire a un ulteriore rimando grazie a un montaggio successivo molto efficace, in cui l’idea del romanzo Jurassic Park che diverrà il film di Spielberg viene rivissuta in una sequenza de I Simpson. I rimandi intertestuali quindi si intrecciano, mentre la voice over non perde il suo ritmo mozzafiato. Siamo al minuto 3.48: il narratore in voice over spiega che la serie viene dal mondo del film, ma solo nella parte dedicata al parco a tema per adulti “Delos. The vacation of the future” (nel quale si potrebbe scegliere, almeno nell’idea originale di Crichton, tra avventure western, nell’antica Roma, o nel Medioevo). La Corporation che si inventa il parco a tema della serie tv Westworld si chiama proprio “Delos Incorporated”, con tanto di logo su un arrugginito mappamondo che il video fa intravedere nel sottosuolo grondante acqua dei laboratori della serie. La voice over ci porta così nella sezione intitolata “The Guslinger”, dove ci spiega (e ci mostra) che ad un livello diverso del sottosuolo, dove vengono conservati alcuni replicanti usurati, si intravede la figura in ombra di un pistolero, come fosse un clone dimenticato. Al minuto 4.39 il video essay ci fa vedere – con uno split screen – che si tratta di un altro omaggio al personaggio del robot pistolero interpretato da Yul Brynner nel film del 1973 già citato come fonte. Siamo all’ultima sezione, che inizia al minuto 4.41: “Jurassic Bird”. Il video, sempre accompagnato dal commento del narratore, ci mostra una scena del quinto episodio della serie Westworld, in cui uno scienziato, mediante il computer, rianima un passerotto (anche lui un clone del bioparco) esortandolo con le parole: “Come on, little one”, le stesse parole che un rapido montaggio successivo rivela come già usate in una scena del film Jurassic Park, dove uno scienziato assiste all’apertura di un uovo di dinosauro. La connessione è esplicitata dal montaggio delle due scene campionate, ma la voce over ironizza sul ruolo investigativo dello spettatore ponendogli la domanda “cosa c’è di simile tra le due scene?”, per poi rispondere al volo con l’elogio: “Pretty good connection!”, che gioca sull’evidenza della risposta. In chiusura, la voce narrante invita lo spettatore ad iscriversi al canale YouTube “Looper”.
Questa breve descrizione ci permette di confrontare questo video essay con i video essay cinematografici firmati da Matt Zoller Seitz: in entrambi i casi la voice over, e i suoi ammiccamenti allo spettatore, rientrano in una strategia di enunciazione che potremmo definire soggettivante, nell’accezione sociosemiotica di una costruzione testuale e di un patto comunicativo che interpellano lo spettatore, ragguagliandolo sui saperi in gioco ma puntando soprattutto sull’aspetto affettivo (e ludico) del patto comunicativo (Landowski 1989). Potremmo al contrario parlare di strategie oggettivanti quando la voice over sparisce, e si valorizza più la conoscenza ‘pratica’ derivante dall’attiva comparazione tra sequenze di film diversi, come a sfidare lo spettatore a ‘trovare le somiglianze’, pur senza dargli appigli, neppure con gli intertitoli. I video essay proposti nel suo blog da Catherine Grant ci sembrano di questo secondo tipo.10
Se i video essay soggettivanti su YouTube e su Vimeo sono molto comuni, una differenza si ritrova nella diversa qualità delle presentazioni e del coinvolgimento dello spettatore: i video essay ‘professionali,’ come quelli del canale Looper, sono montati con precisione, usano senza enfasi le possibilità della postproduzione, mantengono – pur nel tono e nel ritmo concitati – una sorta di distacco serioso con gli spettatori, che aumenta l’autorevolezza del proprio discorso, costruito comunque su un’alta qualità del prodotto video. Diverso è il caso dei video essay ‘amatoriali’, creati e postati su YouTube da prosumer che sembrano fare il verso a quelli accademici o comunque professionali, con prodotti più spuri, molto autopromozionali, con una grande enfasi sulle trovate di montaggio nonché una continua autoironia che nel tentare di essere divertente ottiene spesso l’effetto contrario (almeno dal nostro punto di vista).11 Un esempio, carico di selfie e di scelte di interpolazione visiva ai limiti del trash, si trova nella playlist accanto al video precedente su Westworld, e gioca fin dal titolo del canale, “Film Theories”, a prendere in giro i modi compunti dei video essay accademici. Nel video che abbiamo visionato: “Tv Theories S1 E 14” ,12 l’accento è posto sulla critica televisiva, e il ragionamento verte ancora su Westworld. In una sequenza rapidissima, fitta però di montaggi incongrui e di interpolazioni con una foto caricaturale dell’autore, il lungo video (di circa quindici minuti) è condotto da un narratore in voice over, il quale gongola nello sfidare lo spettatore a ragionare sulla location del bioparco della serie, con una serie di proposte più o meno strampalate. Quasi tutte vengono scartate rapidamente, mimando un ragionamento per prove ed errori, per arrivare a sostenere che – a questo punto ‘inconfutabilmente’ – il parco di Westworld è in realtà una “biosfera” localizzata sotto l’oceano sia per problemi di spazio, sia per libertà di azione. Il narratore cerca evidenze nella prima stagione (ad esempio nelle cascate d’acqua che scorrono lungo le pareti dei sotterranei del primo episodio), e riprende il rimando intertestuale al videogioco BioShock come fosse una propria scoperta (dandosi ragione con la citazione di un’intervista allo showrunner della serie). Il montaggio rapido e il modo sincopato danno mostra di una expertise tecnica notevole, e il video essay passa in rassegna molte particolarità dell’ecosistema seriale di Westworld, dal clima e dagli oggetti riscontrabili nel set degli episodi, alle istruzioni ai clienti della società “Delos Incorporate”, fino alle mappe contenuti nel sito della serie. Ma la voce troppo sopra le righe e il costante interpellare lo spettatore, oltre all’eccessivo uso di intertitoli, finestre multiple, e sovrapposizioni di immagini incongrue, rendono la voice over poco credibile. Il discorso mima il modo da “cacciatore di informazioni” tipico dei fan (Jenkins 2006b), ma cela il proprio non avere appigli (né di approfondita analisi testuale, né tantomeno fonti bibliografiche) dietro al modo roboante da giocoliere del web. Se, ipotizziamo, un video essay come questo risulta divertente per un pubblico di studenti medi (probabilmente americani), l’eccesso autopromozionale sminuisce, a nostro avviso, tutta l’operazione. O, meglio, la volge in parodia o in farsa, che forse è l’effetto ludico cercato.
5 L’estetica dell’archivio e la “deep remixability”
Nei primi anni Duemila Manovich (2001a) ragiona sulle strategie e le tattiche dei nuovi media digitali portando ad esempio la logica postmoderna di Photoshop come una tipica logica del Web, definita una “logica della selezione”. Nel creare un nuovo oggetto mediale, dice Manovich, la creazione è stata sostituita dalla selezione tra varie opzioni offerte da un menù, poiché il programmatore attinge da librerie e archivi, modelli e mappe, filtri e scale di transizione, o meglio da software di creazione e di editing che contengono archivi. L’atto creativo contemporaneo diventa allora per Manovich una pratica di scelta rispetto a un menu predefinito, un catalogo o un database, in una rielaborazione e ricombinazione di materiali espressivi già esistenti. La controparte di questa logica della selezione, secondo Manovich, è la “composizione digitale”, che permette di “assemblare insieme una quantità di elementi per creare un unico oggetto integrato”, ossia “quel processo che consiste nel combinare più sequenze d'immagini in movimento, eventualmente anche ferme, in un'unica sequenza con l'aiuto di un apposito software di composizione” (Manovich 2001a: 177-179). Come leghiamo queste logiche, e le pratiche da loro permesse, alle pratiche dei video essay? Il ponte viene fornito dallo stesso Manovich, secondo il quale la composizione digitale, frutto della pratica dell'assemblaggio, è l'altra faccia della selezione:
nel loro insieme queste due operazioni riflettono e permettono, simultaneamente, la pratica postmoderna del pastiche e della citazione, la prima selezionando elementi e stili dal ‘database della cultura’, l'altra assemblando questi elementi in nuovi oggetti. (Manovich 2001a: 183)
A partire dagli anni Novanta, la composizione digitale permette però un passo avanti, una “estetica della continuità”, nella quale “gli elementi vengono miscelati e i confini cancellati” (Manovich 2001a: 183). Considerando la priorità spaziale della composizione digitale, Manovich esplicita un conflitto tra il “montaggio”13 – basato sia sulla discontinuità temporale sia su una logica causale e di selezione – e la “composizione”, che si presenta come continua e spaziale. Riprendendo la distinzione barthesiana14 sulle logiche del linguaggio prese tra un sistema di elementi in absentia (paradigma) e una concatenazione di elementi in praesentia (sintagma), Manovich sostiene che “i nuovi media invertono questa relazione. Al database (il paradigma) viene data un'esistenza materiale, mentre la narrazione (sintagma) viene dematerializzata” (2001a: 287).15
Per quanto non ci sembri utile contrapporre drasticamente “narrazione” e “database”, gli esempi calzanti portati da Manovich (tra cui L'uomo con la macchina da presa di Vertov) ci mettono sulla buona strada. Quello che accade in un video essay, in effetti, ha a che fare anche con le logiche della selezione e della composizione, che funzionano però in simultanea e non in modo escludente. La nuova narrazione del video essay non si dispiega infatti su di un unico livello, o su una sola cornice/schermo, ma si dà spesso nella simultaneità dello split screen o delle aperture a mosaico16 (Manovich 2001a: 289). Quando in un video essay si aprono molteplici schermi-finestra relativi ad altre scene del film che si sta analizzando, o, più facilmente, ad altri film cui lo si vuole comparare, lo spettatore ha di fronte più narrazioni simultanee ma non è costretto a un’unica direzione di sguardo, poiché può scegliere quale dettaglio osservare. Se può diventare indecidibile dove focalizzare l’attenzione, si scopre al contempo qualcosa di nuovo (Grizzaffi 2017: 143). Come insegna Deleuze (1981), siamo in un regime misto, in cui si attua una deformazione dei rapporti di intensità tra le immagini: i video essay che usano split screen e mosaici (più finestre di immagini e video aperte simultaneamente) riescono così ad orientare la testualità audiovisiva verso altri regimi percettivi, non più solo ottici e sonori ma tattili, porosi, in una parola “aptici”. E anche il patto con lo spettatore si trasforma in una sfida a reiterare il piacere del testo, rivisto e ripercorso nei suoi frammenti, un “ri-vedere” che Odin (2000) definirebbe un modo comunicativo “performativo”. È questo, in fondo, il modo dominante di molti remix dedicati ai film e alle serie tv che proliferano nei social media e nelle piattaforme di video sharing. E non si tratta solo di user generated content, di bricolage che formano video remix, campionamenti, citazioni o mash up, ma di una logica più generale che lo stesso Manovich battezza come “deep remixability” (o “assemblaggio profondo” nella traduzione italiana): “ciò che viene remixato non è solo il contenuto di diversi media ma anche le loro tecniche, i processi produttivi e le modalità di rappresentazione ed espressione […] un nuovo metalinguaggio” (Manovich 2010: 118).
Approdare ai social media e alle logiche contemporanee della rete ci permette, inoltre, di capire meglio la fortuna dei video essay. Nel suo saggio su La condizione postmediale, Eugeni (2015) accenna al tema delle forme di “auto-apprendimento” che i social media permettono, ad esempio con i tutorial su YouTube, chiamandole “competenze operazionali”. Nell’“epica della socializzazione” di cui parla Eugeni (confrontandosi con Jenkins17), le competenze operazionali sembrano mettere in crisi i modi delle istituzioni tradizionali della formazione e della conoscenza, perché offrono un diverso approccio al sapere: “la coltivazione delle competenze viene prima (e può sostituire) quella delle conoscenze nei processi formativi: il soggetto sociale non è tanto un soggetto che sa qualcosa, quando piuttosto uno soggetto che sa operare qualcosa” (Eugeni 2015: 76).
Se la rete apre ormai a un modo paritario di circolazione del sapere, condiviso e socializzato, le conclusioni di Eugeni ci insegnano qualcosa anche sulle forme discorsive dei video essay. Quelle che si attivano in questi casi sono perlopiù competenze operazionali, che circoscrivono il proprio discorso in modo semplificante, per essere più efficaci. I video essay sanno essere molto specifici, alcuni sono anche molto articolati, e tuttavia questo non basta all’analisi critica di un film o di una serie tv, le quali sono “forme discorsive complesse”, che richiedono “livelli di attenzione continuata e la costruzione di insiemi di saperi articolati” (Eugeni 2015: 86). Tutorial e video essay, insomma, non sostituiscono il ruolo della critica e della formazione universitaria, anche se le possono utilmente affiancare.
6 La forma “video essay”
Come abbiamo visto, la forma più consueta con la quale si presenta un video essay è quella di un commento in voice over sovrapposto ad un montaggio di scene cinematografiche o di fiction seriale. La ratio sottostante è basata su un procedimento di analisi e di spiegazione compreso sia nei contenuti verbali espressi in voce, sia nella relazione semantica tra la voce stessa e il montaggio delle scene selezionate. Ad esempio, si veda il caso di Joel & Ethan Coen – Shot / Reverse Shot:18 qui osserviamo in primo luogo una struttura pseudo-conversazionale in forma di presentazione colloquiale tradizionale (“Salve mi chiamo… e siete su…”); poi, un modello di fruitore (anche casuale) al quale ci si rivolge con un tono vocale amichevole e rassicurante, moderatamente ironico, entrando subito in medias res, esplicitando l’argomento del discorso attraverso una puntuale e rapida esemplificazione visiva. Formule discorsive ricorrenti sono ad esempio: “ma io penso che…” e “cosa possiamo imparare da…?”
Qual è lo statuto di tali messe in prospettiva, ovvero, su quale contratto implicito si basano? In modo non dissimile da un tradizionale documentario educational, ad esempio del genere storico, sussiste qui un procedimento retorico-argomentativo in grado di porre il fruitore in una condizione di comprensione, attraverso la guida dell’enunciazione audiovisiva. Ciò che davvero è in gioco, però, è il mandato di autorevolezza che una simile procedura sottende. Un enunciatore, che a seconda dei casi può essere un filmmaker, un accademico, un critico, uno studente di cinema o un appassionato del genere, si colloca in un ruolo di competenza, di esperto, mentre allo stesso tempo lavora alla costruzione di un’azione efficace di selezione di materiali. Elementi paratestuali possono intervenire in seconda battuta, all’atto dell’upload su Internet, nel caso in cui il video sia postato su un canale o su un sito che abbiano già in precedenza acquisito visibilità e autorevolezza. Da questo punto di vista, sono le stesse cornici mediali, ad esempio un canale YouTube, a definire l’autorevolezza del video, e non più un criterio selettivo editoriale, che pur sopravvive nei casi delle riviste accademiche online. D’altra parte, il mandato di un contratto simile naviga a cavallo tra l’educational e l’entertainment, ed è proprio questa innovativa natura ibrida a determinare il successo della formula.
Ma, entrando più nel dettaglio dell’apparato enunciativo, c’è da chiedersi quale sia il reale meccanismo argomentativo che viene posto in essere. Innanzitutto, la tradizionale argomentazione verbale dello scritto – quella tipica di un saggio accademico, per intenderci – viene sostituita dall’uso “diretto” dei materiali audiovisivi. Si tratta di “parlare di cinema mediante il cinema”, adoperando direttamente i suoni e le immagini; ed è certo questo uno dei punti forti del procedimento. La dimensione astratta del verbale viene sostituita dalla lettura attraverso la voce, e assieme dalla capacità esemplificativa delle immagini. È dunque l’esemplificazione il cuore del processo del video-essay: argomentare mostrando, costruendo il procedimento di spiegazione passando dal particolare illustrato al concetto generale. Ma questo tipo di procedimento conoscitivo non è in sé inedito: viene, piuttosto, messo alla portata di un’ampia collettività attraverso le tecnologie. Si tratta di una modalità affine alla nozione di “conoscenza tacita” elaborata da Michael Polanyi (1966), ed ampiamente diffusa nelle metodologie delle scienze sociali e cognitive. Egli costruiva la sua ipotesi a partire da un preciso assunto: “we can know more than we can tell” (ivi: 4) ovvero “possiamo conoscere più di quanto siamo in grado di esprimere”. L’esempio più rappresentativo di questa condizione era per Polanyi il fatto che, a partire dal volto, di norma siamo in grado di riconoscere una persona tra mille altre, eppure non sapremmo descrivere nel dettaglio la modalità con cui riusciamo a farlo. La logica conseguenza di questa osservazione è che esistono forme di conoscenza non del tutto articolabili attraverso una spiegazione verbale, ma che si basano su processi di “indwelling” (ivi: 17), ovvero su processi di incorporazione. Determinate capacità di conoscere, di acquisire cioè una competenza, passano attraverso la messa in pratica. Qualcosa di simile a quanto accade, ad esempio, con la guida di un’automobile: si può conoscerne il procedimento in teoria, ma per saper guidare bisogna acquisire una pratica.
Inoltre, osserva Polanyi, l’attenzione al particolare può distogliere da una visione d’insieme dell’oggetto, e lo stesso accade al contrario, quando l’osservazione formale ed esterna non sempre ci mette in grado di conoscere una cosa in modo approfondito. In questo senso, l’argomentazione esemplificata tramite immagini conduce i fruitori dei video essay ad una forma di conoscenza tacita, acquisita, cioè, attraverso una forma incorporata di osservazione. Il video essay fornisce così la possibilità di entrare nei dettagli di una conoscenza che in prima istanza appare implicita (da spettatori, si “comprende” un film anche senza analizzarlo), ma che grazie a meccanismi di mostrazione ed esemplificazione diventa esplicita. Senza dover passare attraverso complesse procedure di astrazione, si possono mostrare i meccanismi interni di un testo. Polanyi (ivi: 16-17) riprendeva al proposito le teorie di Theodor Lipps, in base alle quali per l’apprezzamento estetico era necessario “entrare” nell’opera d’arte e incorporarsi nella mente del suo creatore. In effetti, guardando molti video essay con voice over, si ha la netta sensazione di compiere un viaggio interno all’opera, guidati dalla voce di un corpo, enunciativamente “estraneo”, che non diverrà mai visibile (cfr. Stanley Kubrick – The Cinematic Experience, Channel Criswell19). Oppure, con una certa frequenza, nei video essay assistiamo a proposte comparative: ad esempio tra un film e un suo remake, o tra un documentario e una serie tv (Mindhunter vs Real Life Ed Kemper – Side By Side Comparison di Thomas Flight20). Ed è così che la comparazione si trasforma in autoevidenza, rendendo questi prodotti di ampia fruibilità e comprensibilità.
7 La retorica “concessiva” dei video essay
Chiudiamo il nostro excursus con un concetto che si può rivelare utile nell’analisi dell’efficacia dei testi audiovisivi, e che potrebbe aiutarci a capire meglio la potenza comunicativa dei video essay. Si tratta del tempo (adoperato nella forma italiana anche in francese), che la semiotica tensiva proposta da Claude Zilberberg (2002) pensa come qualcosa di diverso dal ritmo. Se il ritmo, semplificando, è l’instaurazione e il ritorno di pattern identici e apre ad una attesa mantenuta, il tempo di Zilberberg si costruisce sui due poli della “accelerazione” e del “rallentamento”. La sua non è una costruzione basata su implicazioni successive, cioè sulla razionalità del “se… allora”, bensì su un modo “concessivo”, particolare perché apre al deragliamento dei “sebbene” e dei “ma… però”. Costruisce insomma una sua logica alternativa, fondamentalmente affettiva, basata sull’apertura poetica alle possibilità dell’asse paradigmatico, sulla loro co-presenza e compossibilità, piuttosto che sulla catena sintagmatica esplicita e lineare. Come spiega Bertrand:
con la concessione […] emerge l’origine del discontinuo e dell’evento, dell’inatteso e della novità, dell’imprevisto che si esprime con l’esclamazione, il sorprendente che provoca l’emozione. Grazie alla concessione, l’evento fa irruzione nel campo di presenza rompendo con il sistema delle attese stabilite. (Bertrand 2010: 35)21
Come può tornare utile questo sguardo tensivo, apparentemente molto astratto, per l’analisi dei video essay? Per portare la semiotica tensiva e il regime discorsivo del concessivo verso l’analisi testuale, diremo che a nostro avviso si tratta dell’apertura ad una logica figurale, basata su contrasti plastici e su tensioni tra forze, che si può avvicinare alla costruzione ritmica degli affetti proposta da Deleuze (1981), nel suo lavoro sulla pittura di Francis Bacon. Innanzitutto, però, rispetto al film che viene analizzato e discusso, il video essay nella sua rielaborazione critica produce un “controtempo”, cioè accelera o rallenta, dilata o comprime le immagini e la loro organizzazione ritmica, rimontandole ai fini della propria retorica argomentativa, e tentando così di fornire le prove di ciò che viene enunciato dalla voice over. I frammenti di film che vengono rimontati e riorganizzati ritrovano allora un senso potenziale, disimplicato dal contesto del film. E grazie al nuovo montaggio e al piglio argomentativo il video essay cerca di provocare nello spettatore un’emozione inaspettata, che rompe il sistema delle attese stabilite dal film. Questo, chiaramente, quando funziona: lo spettatore è portato, direbbe Ricoeur (1983), a “ri-figurare”22 o riconfigurare il film attraverso le nuove interpretazioni proposte.
Inoltre, nel regime discorsivo della “concessione”, spiega Bertrand, si “riduce il campo di visione”, perché si tratta di un fenomeno localizzato, che restringe il contesto, e isolando caso per caso “produce un effetto-lente, rendendo ipertrofico il dettaglio, cancellando le gerarchie e offuscando la prospettiva generale” (Bertrand 2010: 38).
È quello che accade con il video essay. Il lavoro critico e il rimontaggio producono un video breve, che riduce il campo di visione del film alle nuove pertinenze che vuole dimostrare, isola il racconto complessivo dal suo contesto e rende così “ipertrofico” il dettaglio. Questo modo di cancellare le gerarchie testuali del film, e quindi anche di offuscarne la “prospettiva generale” è necessario all’emergere di una nuova direzione interpretativa.
Si tratta allora di una interessante forma di manipolazione semiotica, in quanto il video essay consiste in fondo in un “far-fare” qualcosa al film di partenza, che viene rimontato per comunicare qualcos’altro rispetto al suo progetto testuale. Il video essay manipola quindi il film, non in senso negativo ma solo come operazione semiotica, dato che “vuole far sapere” qualcosa di diverso. E attraverso il commento critico apre ad una forma concessiva del discorso. Nel farlo, esercita un’azione performativa sul destinatario poiché lo porta a condividere le proprie valorizzazioni (come si dice di un discorso persuasivo), grazie ad un nuovo racconto centrato sul dettaglio e sull’estrapolazione, sul rimontaggio e sul commento in voice over. Non è quindi un caso se, in questo articolo, abbiamo usato così tanti modi retorici “concessivi”, continuando a dare definizioni che poi venivano smussate con dei “tuttavia”, “però”, “eppure”: sono queste, ci sembra, le tattiche testuali con le quali i video essay riescono ad imporre la propria reinterpretazione.
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Affrontare lo studio di forme ibride come i video essay è anche un modo di portare avanti alcune ipotesi che iniziavamo a delineare in una ricerca sulle forme di remix e di remake, a partire da un convegno internazionale del 2004, quando si era in una fase acerba della svolta digitale, ancora precedente alla nascita di YouTube. Osservavamo all’epoca, che “a partire da un fare trasformativo dei materiali disponibili, che sa di bricolage, attraverso un fare configurativo che inizia a rendere esplicite figure e dominanti discorsive, per giungere a un fare manipolativo che esplicita le strategie testuali e quindi riapre il gioco tra enunciatore e enunciatario, prendono vita le nuove strategie testuali di produzione e di fruizione dei testi” (Dusi e Spaziante 2006: 13). In quella prima mappatura si delineavano alcune logiche che erano alla base delle nuove pratiche audiovisive e musicali di inizio millennio, contraddistinte dal gusto della ricombinazione, tra campionamento, remix e altre trasformazioni manipolative di prodotti mediali preesistenti.↩
Risulta pertinente recuperare in questa sede alcuni elementi dell’importante percorso teorico che Pietro Montani ha dedicato all’ ambito dell’immaginazione nei media (1999, 2010, 2014).↩
https://www.youtube.com/user/CineFix (ultimo accesso 22-01-2018).↩
https://youtu.be/DRanb5UHDbQ (ultimo accesso 22-01-2018).↩
Ci riferiamo ai video di Matt Zoller Seitz presenti nel blog “Moving Image Source”, http://www.movingimagesource.us/articles/authors/Matt%20Zoller-Seitz (ultimo accesso 22-01-2018).↩
Rinviamo alla visione dei video essays su Terrence Malick di Serena Bramble e Matt Zoller Seitz, (“All Things Shining, Pt 5. The films of Terrence Malick: The Tree of Life”, 2011) postati su http://www.movingimagesource.us/articles/all-things-shining-pt-5-20111024 (ultimo accesso 22-01-2018).↩
Si vedano i brevi video essay descritti da Catherine Grant nel suo saggio Déjà-Viewing? Videographic Experiments in Intertextual Film Studies, «Mediascape», Winter 2013, http://www.tft.ucla.edu/mediascape/Winter2013_DejaViewing.html (ultimo accesso 22-01-2018). Si veda anche la raccolta dei suoi lavori su Vimeo: https://vimeo.com/filmstudiesff (ultimo accesso 22-01-2018).↩
Pensiamo al “Personal research blog” di C. Grant: https://filmanalytical.blogspot.it/.↩
https://www.youtube.com/watch?v=HLzq5xm896k&t=247s (ultimo accesso 22-01-2018).↩
Potremmo associare questi due modi discorsivi alle modalità “espositiva”, che si rivolge direttamente allo spettatore con una funzione argomentativa e didattica, e a quella “poetica” che invece punta più sul livello espressivo e la rielaborazione delle immagini in modo persuasivo: ne discute con precisione Grizzaffi (2017), citando tra le altre le posizioni di Keathley (2011) e di Morton (2014).↩
Va detto che il video amatoriale di cui parliamo ha avuto circa due milioni e trentacinque mila di visualizzazioni, con circa 48000 “like” contro circa 1600 “dislike” (Accessed 28 february 2018). Invece, il video più professionale del canale Looper “Biggest Easter Eggs In Westworld” ha avuto circa un milione e cento visualizzazioni, tra cui circa 8500 “like” contro a circa 600 “dislike”. (Accessed 28 february 2018).↩
https://www.youtube.com/watch?v=P8aGMa3fpOY (ultimo accesso 22-01-2018).↩
Manovich mette a confronto le logiche temporali del montaggio cinematografico, sia nel loro concatenamento causale sia nella composizione interna all'inquadratura, ricordando le proposte Ejzenstejn (1963-1970).↩
Manovich si rifà a Barthes (1964).↩
Manovich ragiona poi sulla dimensione sintagmatica che riappare anche come risultato di ogni interazione e percorso tra i link ipertestuali in una navigazione Web, per una sequenzialità della narrazione che a suo avviso viene dal cinema.↩
Per una discussione su “split screen” e “mosaic screen” rinviamo a Grizzaffi (2017: 143-155).↩
Si veda ad esempio Jenkins 2010.↩
https://youtu.be/5UE3jz\_O\_EM (ultimo accesso 22-01-2018).↩
https://youtu.be/LCG2nuM3RFw (ultimo accesso 22-01-2018).↩
https://youtu.be/FDYBmNYc8IA (ultimo accesso 22-01-2018).↩
Denis Bertrand ha ripreso la semiotica tensiva di Claude Zilberberg per applicarla al discorso politico contemporaneo. Bertrand spiega la “grammatica tensiva” come una proposta che attribuisce alle emozioni e alla gradualità dell’affetto una “funzione direttrice nella produzione di senso”, nonché come una semiotica degli “intervalli, dei recuperi, delle dipendenze e delle misure di intensità.” (Bertrand 2010: 34).↩
Per Ricoeur (1983: 113) si tratta di “ri-figurare” nell’interpretazione critica le “configurazioni” del testo.↩