1 Introduzione
Questo contributo aspira a fornire una prima mappatura di un terreno in larga parte non sistematizzato, ma tuttavia fertile e intrinsecamente legato ai temi di questa raccolta. Si tratta di quella galassia di oggetti mediali legati alla produzione di videogiochi che definirò provvisoriamente ludo-saggi o ludographic essay, riprendendo la categoria di video essay utilizzata, ad esempio, da Biemann (2003) in relazione a quei prodotti audiovisivi pensati come commento o intervento critico rispetto ad altri. Si tratta, nel caso dei ludographic essay, di pratiche produttive di carattere in larga parte paratestuale – che presuppongono, cioè, un “ipotesto” dei quali sono, in vari modi, “ipertesto” (Genette 1997) – che contribuiscono alla molteplicità di voci critiche, teoriche, o analitiche che interessano il medium e che assumono due forme principali. Da un lato, il saggio audiovisivo – ad esempio il commento a un montaggio di sequenze tratte da un videogioco; dall'altro il saggio propriamente ludico, ovvero la produzione di un videogioco che abbia intenti esplicitamente critici o analitici rispetto ad altri videogiochi.
Il primo paragrafo fornirà un'introduzione alla storia delle pratiche ludografiche, ipotizzando una continuità storica tra la ricchissima attività di produzione paratestuale che ha interessato il videogioco sin dalla sua nascita e i modi della produzione ludografica contemporanea. In questo senso, il mio operato diverge almeno in parte da quello degli studiosi di video essay poiché non riconosce necessariamente un primato alla forma mediale scelta per l'intervento critico, ma piuttosto cerca di disegnare la traiettoria di un tipo di discorso sul videogioco attraverso diversi media. In altre parole, se studiosi come Grant (2013) riconoscono nel video essay una forma di discorso intorno al cinema capace di facilitare ermeneutiche radicalmente nuove, per lo più in virtù dell'utilizzo di un mezzo diverso dalla parola scritta, questo contributo ipotizza che il ludographic essay sia espressione di una serie di retoriche e di forme di produzione paratestuale relative al videogioco che sono transitate, pur con degli adattamenti, dalla parola scritta all'audiovisivo.
Il secondo paragrafo offrirà una sistematizzazione della ludografia contemporanea, in una tassonomia che ne distingue gli intenti e le retoriche. Questa operazione mi permetterà inoltre di rivendicare una sistemazione delle forme di scrittura ludica nel campo allargato dell'“audiovisual essay” (van den Berg & Kiss 2016), insieme a pratiche storicizzate come film essay e video essay. Infine presenterò uno studio di caso dedicato a The Beginner's Guide (Everything Unlimited, 2015), un videogioco che costituisce al contempo un esempio di pratica ludografica e una critica dall'interno a questo genere di oggetti mediali e che interroga significativamente una serie di formulazioni teoriche circa le potenzialità metareferenziali e autobiografiche del videogioco.
2 Intorno al gioco. Una breve storia della produzione testuale para-ludica
“We all play occasionally, and we all know what playing feels like”. Brian Sutton-Smith, uno dei più acuti studiosi dei fenomeni ludici apre così il suo volume The Ambiguity of Play (1997: 1), suggerendo implicitamente che il gioco – ogni gioco – non possa che essere un'attività incorporata, la cui fenomenologia è irriducibile: “we all know what playing feels like”. Tuttavia, se si sposta l'attenzione dal gioco analogico, principale preoccupazione di Sutton-Smith, al gioco digitale è possibile notare come, a dispetto di quella che sembrerebbe essere un'affermazione addirittura di buonsenso (“giocare significa fare”), la produzione di testi e oggetti para-ludici, che contraddicono la presunta assoluta immediatezza del gioco, sia del tutto connaturata all'ecosistema produttivo ed espressivo del videogioco. Il videogioco sembra, insomma, facilitare la produzione di un surplus di informazioni, di apparati paratestuali, di oggetti generalmente para-ludici che hanno, in genere, funzione di commento, critica, analisi o teorizzazione rispetto al videogioco. In questo senso è possibile dare ragione a Newman quando afferma che “There is more to videogaming than the blips of light on the screen, the sounds pumping through the speakers, or the carefully co-ordinated combinations of button presses and feedback loops of rumbling joypads, Wiimotes and styli” (2008: vi-vii). Se, come vedremo, questa tendenza ipertrofica della paratestualità videoludica, si è espressa nell'ultimo decennio anche in forme ludografiche, è certamente vero che per lungo tempo la parola scritta ha costituito una larga parte della produzione para-ludica. Tuttavia, come cercherò di dimostrare nei paragrafi successivi del saggio, nel contesto di una discontinuità delle forme mediali, è possibile rintracciare una continuità retorica. In particolare, è possibile riconoscere due forme di produzione paratestuale1 videoludica: una forma propriamente saggistica, che, a vari livelli e con vari intenti, si propone di fornire chiavi di lettura e interazione, e una forma autobiografica o diaristica, che si concentra sull'esperienza del giocare e adotta per lo più strumenti poetici o narrativi.
Appartengono alla prima categoria testi come manuali, walkthrough,2 raccolte di consigli e trucchi per superare i diversi ostacoli di un gioco, ma anche, in senso lato, quei testi più propriamente saggistici che tuttavia aspirano a fornire risorse di tipo ermeneutico al fruitore. Questo genere di produzione testuale – praticamente coeva alla nascita del videogioco – ne rivela implicitamente la duplicità ontologica (Juul 2005). Da un lato, il videogioco è un oggetto dotato di una certa operabilità, che implica un dialogo procedurale (Bogost 2007) con il fruitore. In altre parole, giocare a un videogioco richiede un saper fare, diverso da gioco a gioco, che presuppone una certa familiarità con le regole e le procedure del software. Dall'altro il videogioco propone in molti casi una fiction essa stessa passibile di un intervento ermeneutico da parte del giocatore che deve, se non altro, riconoscere e decifrare le intenzioni dei diversi agenti del gioco o intuirne l'evoluzione. Questa doppia ermeneutica – che si direbbe specificamente videoludica – è alla base di una produzione ipertestuale piuttosto varia. Si tratta di oggetti testuali essenzialmente coevi al medium videoludico. Si pensi ad esempio, alla scritta “Avoid missing ball for high score”, presente sui cabinati di Pong (Atari, 1972), che costituisce di fatto un'istanza minimale di manuale operativo per il giocatore. Tuttavia, con la diffusione delle console casalinghe, la produzione di una manualistica progressivamente più ricca e complessa dà vita a un vero genere paratestuale, che unisce consigli di gioco a un'ermeneutica narrativa minima. Il manuale italiano di The Legend of Zelda. A Link to the Past (Nintendo, 1992) ad esempio si apre con una sezione narrativa intitolata Le leggende di Hyrule, per poi proseguire con indicazioni tecniche su operazioni quali “Selezione del giocatore” o “Uso della spada”. La stessa dualità sembra ritornare nella produzione critica relativa al videogioco che, se da un lato “still tends to read a lot like a review of a mobile phone or a car” (Goldberg & Larsson 2015: 8), dall'altro tende a fornire dettagli e chiavi di lettura sugli aspetti tematici ed espressivi di un videogioco.
Il secondo modello di produzione paratestuale relativa al videogioco ha a che fare con le forme dell'autobiografia e della narrazione dell'esperienza del giocare. Anche in questo caso, questa configurazione retorica che, come vedremo, trova significativa applicazione nell'ambito della produzione ludografica, può essere ricondotta a una più lunga genealogia di testi che adottano la parola scritta. È possibile, ad esempio, interpretare in questa direzione molte delle lettere raccolte nella rubrica della posta di una rivista come Nintendo Power (1988-2012),3 in cui i lettori offrono spesso esempi di una produzione autobiografica vernacolare rispetto all'esperienza videoludica. In una lettera che appare nel volume 55 del dicembre 1993, ad esempio, si legge:
When I saw that my mom had bought The Magical Quest for Super Nes, I thought it would be really dumb and boring because it had Mickey Mouse in it. But when I sat down and played it, it wasn't so dumb and boring – it was actually cool and also had awesome graphics. (Cupp, 1993: 6)
Questa mole di narrazioni autobiografiche, rintracciabili nella stragrande maggioranza delle pubblicazioni dedicate ai videogiochi negli anni Ottanta e Novanta, sembra essere emanazione di quella complessa costruzione discorsiva tipica del gioco infantile e adolescenziale che, come dimostrato ad esempio da Giddings (2014), intreccia la pratica propriamente ludica e la sua ri-narrazione e socializzazione. Sebbene questo genere di micronarrazioni autobiografiche sia decisamente maggioritario nella pubblicistica relativa al videogioco negli anni Ottanta e Novanta, è utile citare in questa sede anche un progetto letterario più complesso come Pilgrim in the Microworld (Sudnow, 1983), un volume che intreccia ricerca autoetnografica e prosa autobiografica, in cui Sudnow racconta la propria esperienza con il videogioco Breakout (Atari, 1976) descrivendola nei termini di un'ossessione patologica. Tuttavia, secondo Mäyrä, la riflessione di Sudnow trascende la ricapitolazione idiosincratica, arrivando a offrire, significativamente, un commento sull'individualismo della cultura del gaming degli anni Ottanta “described as an individual journey toward virtuosity” (2014: 295).
3 Saggio, autobiografia, simultaneità, differita. Una tassonomia della ludografia
Similmente a quanto accaduto per la produzione di video e film essay, la diffusione di mezzi di produzione audiovisiva relativamente economici, l'accesso a strumenti di postproduzione di semplice utilizzo e la popolarità di piattaforme di distribuzione come YouTube hanno favorito l'emergere di una produzione di contenuti audiovisivi legati al videogioco. In questo senso, recensioni e commenti video, longplay, let's play e playthrough4 devono la loro esistenza come oggetti sociali in larga parte alla diffusione di YouTube; risulta insomma evidente che, proprio come “the video essaying practice took off after YouTube’s launch” (van den Berg & Kiss 2016), così anche le forme di commento audiovisivo al videogioco passano, grazie a questa e altre piattaforme di distribuzione, dall'essere oggetti sostanzialmente marginali a divenire parte integrante del tessuto di discorsi prodotti a partire dal medium videoludico. Tuttavia, contribuisce a questa emersione anche un processo parallelo di diffusione di strumenti di produzione videoludica progressivamente più accessibili e di semplice utilizzo. Come notato, ad esempio da Anthropy (2012), che significativamente traccia un parallelo tra la produzione amatoriale di videogiochi e la realizzazione di fanzine, la progressiva dissociazione della pratica di realizzazione di un videogioco dalla necessità di conoscere se non altro i rudimenti della programmazione informatica, ha contribuito a generare un corpus piuttosto significativo di giochi prodotti da un singolo autore con intenzioni spesso specificamente ludografiche, ovvero di dispiegamento di un pensiero di tipo saggistico attraverso il medium videoludico. Si delineano dunque due tipi di produzione ludografica, diverse nei mezzi di realizzazione, ma sostanzialmente connotate dalle due retoriche descritte poc'anzi. Da un lato la realizzazione in forma di video, distribuiti attraverso canali come YouTube o Twitch, di contributi di commento, integrazione, critica rispetto a uno specifico videogioco. Dall'altro la realizzazione di videogiochi caratterizzati da finalità saggistiche, esempi di “playable theory” (Caruso et al. 2016), che sfruttano le potenzialità comunicative del medium per presentare una posizione teorica o critica attribuibile al loro autore.
La pratica di produzione di contributi audiovisivi non interattivi (sebbene, come vedremo, anche questa categoria si riveli di fatto inadatta) legati al videogioco sembra adattarsi in modo piuttosto coerente alla categorizzazione enunciata nel paragrafo precedente. In particolare, la produzione saggistica ricalca significativamente quella scritta. Da un lato, la manualistica videoludica ha trovato eccellente implementazione nel formato audiovisivo. Abbondano su YouTube i tutorial dedicati a giochi particolarmente complessi, in cui, in genere, un giocatore commenta le proprie azioni, esplicitando le strategie utilizzate per superare determinati ostacoli. Questa forma di ricollocazione delle funzioni del manuale di gioco ha tuttavia una notevole implicazione legata al rapporto tra produttore e spettatore del tutorial. Per enunciare le operazioni necessarie per superare un passaggio complicato in un gioco, infatti, il produttore del video tutorial deve, nella maggior parte dei casi, essere in grado di svolgere egli stesso questa operazione. La produzione di video tutorial e il loro consumo da parte dei giocatori contribuisce dunque a creare una peculiare configurazione che è possibile definire aspirazionale. A partire della stessa dotazione tecnologica (il videogioco), i giocatori possono di fatto aspirare a compiere le stesse operazioni dell'autore della guida. In altre parole, è possibile pensare a una larga parte delle pratiche di produzione di video di gameplay di questo tipo proprio nei termini qui descritti: la certificazione che un certo atto videoludico sia possibile e, dunque, la creazione in questo senso di una tensione aspirazionale per lo spettatore, che è implicitamente chiamato a ripetere quell'atto. Gli autori di tutorial per videogiochi sembrano dunque produrre oggetti irriducibilmente ibridi; allo stesso tempo prodotti destinati all'uso (ad esempio per imparare a superare un ostacolo), motori di una economia aspirazionale, e oggetti audiovisivi destinati a un consumo di tipo spettacolare.5 La produzione video-saggistica legata al videogioco si compone tuttavia anche di esempi vicini alle forme del video essay ad argomento cinematografico. Un oggetto come Bloodborne's Cosmic Horror (Burned Toast Studios, 2016), un video di circa sette minuti che, attraverso un montaggio di scene di gioco, rintraccia e analizza le convergenze tra il videogioco Bloodborne (FromSoftware, 2015) e il cosiddetto “cosmic horror” lovecraftiano, sembra adottare alcune delle forme stilistiche e retoriche più comunemente impiegate dal video essay a tema cinematografico, dalla voce fuori campo alla giustapposizione suggestiva di materiali eterogenei. Similmente a quanto accade con quella di indirizzo saggistico, anche la produzione autobiografica transita dalla parola scritta all'audiovisivo, pur con alcune significative modulazioni. In particolare, oggetti mediali come il let's play – video realizzati da un giocatore che commenta la propria esperienza di gioco mentre questa si svolge – sembrano allontanarsi dalla produzione saggistica, per concentrarsi piuttosto sulla personalità, la storia e le idiosincrasie dell'autore. Non solo intorno ai let's player si è generato un intero sistema di stardom (si pensi, ad esempio, alla popolarità globale di PewDiePie), al quale contribuiscono le specifiche narrazioni autobiografiche dell'autore, ma, più significativamente, come ipotizzato da diversi autori il video let's play sembra presupporre una specifica performance del sé digitale (Fernández-Vara 2007, Menotti 2014), una sorta di “diario privato pubblico” (Campagna 2015: 148) che configura questa pratica come, almeno in parte, autobiografica. A questa forma mediale, in genere fruita come video on demand su YouTube, si aggiunge quella dello streaming, nella maggior parte dei casi supportata da piattaforme come Twitch. In questo caso, la performance videoludica è trasmessa in diretta, per un pubblico che potremmo definire di ludofili non solo perché appassionati al videogioco ma anche, e soprattutto, perché partecipanti a una pratica di visione istituzionalizzata e ritualizzata tanto nei tempi, quanto nelle forme di interazione. Se, infatti, il contenuto degli stream ricalca quello altamente autobiografico dei let's play – con la variabile aggiunta della simultaneità, che fa sì che in molti casi l'autore dello stream debba negoziare l'interazione tra vita privata e performance ludica – ciò che davvero configura questa pratica come specificamente videoludica è la possibilità per il pubblico di interagire con lo streamer. Una funzione di chat, infatti, permette nella maggior parte dei casi un'interazione sincronica tra pubblico e produttore, che configura questa pratica come, al contempo, spettacolare e sociale (Karhulahti 2016), caratterizzata da una forma di ritualità nell'accesso ai contenuti che la configura come ludofila. Insomma, anche la pratica di visione di uno stream videoludico, come quella della visione cinefila, presuppone un “being sensitive to one’s surroundings” (Elsaesser 2005: 29).
Se la produzione di contenuti audiovisivi legati al videogioco analizzata fin qui condivide con la pratica del video essay o, in senso lato, con la produzione audiovisiva paratestuale, alcune modalità di realizzazione e distribuzione, è invece inevitabilmente medium-specifica la produzione saggistica che utilizza il videogioco come mezzo espressivo. In altre parole, come detto, esiste un campo della produzione videoludica legato all'espressione di contenuti di tipo saggistico o autobiografico, che configura pratiche che si possono definire propriamente ludografiche. Si tratta, in larga parte, di videogiochi la cui produzione e distribuzione segue traiettorie distanti da quelle generalmente considerate mainstream – da qui l'intuizione di Anthropy, a cui si accennava poc'anzi, di accostarli alla galassia delle fanzine – ma che ha trovato notevole interesse in ambito critico e accademico, con il già citato concetto di “playable theory”. Sebbene la letteratura sul film essay sia raramente citata dagli autori di ludo essay, molti degli assunti di tale pratica più antica sembrano tradursi in quella qui analizzata. In particolare, l'idea che se, da un lato, “the camera is not a pencil, and it is rather difficult to think with it in the way an essayist might” (Lopate 1992: 19), alcune specifiche configurazioni del medium permettano una più compiuta espressione di certi discorsi teorici. È certamente vero che nemmeno il codice è una matita – sebbene, diversamente dalla macchina da presa, abbia a che fare con una forma di scrittura – ma tuttavia la pratica ludo-saggistica sembra discendere da due particolari tradizioni di pensiero circa le potenzialità espressive del medium digitale. Da un lato, la cosiddetta “procedural rhetoric” (Bogost 2007), l'idea cioè che la configurazione dei media digitali, costruiti a partire da regole esclusive e ideazioni di tipo procedurale, permetta una forma di authoring sistemico. Non l'articolazione di un discorso lineare, ma la progettazione di una serie di condizioni con cui interagire, capaci di stimolare nel fruitore quella che Bogost (2006: 108) definisce “simulation fever”: l'incontro con l'autorità inflessibile di un sistema digitale e la riflessione su questa stessa autorità. Dall'altro lato, la corrente fenomenologica della filosofia della tecnica sembra ipotizzare che non soltanto gli oggetti digitali pensati per stimolare la riflessione possano essere definiti oggetti teorici, ma che l'interezza del nostro incontro con le tecnologie digitali, in quanto irriducibilmente aliene rispetto all'esperienza umana, incoraggi o richieda una qualche forma di pensiero critico/teorico (Gualeni 2015). I molti ludo essay prodotti negli ultimi anni sembrano in effetti discendere da queste tradizioni di pensiero; un videogioco come Phone Story (Molleindustria 2011), che si dà come saggio sulla filiera di produzione della tecnologia di consumo, mettendo il giocatore di fronte alla necessità di attivare processi economici iniqui, sembra in effetti fare riferimento precisamente a una retorica procedurale di tipo esclusivo: per il giocatore non ci sono alternative, poiché non sono previste dal software (e, per similitudine, dal sistema economico che questo modella). La pratica ludografica, parallelamente a quanto accade nelle altre forme di produzione paratestuale descritte fin qui, ha significative declinazioni anche nella direzione dell'autobiografia. Secondo Poremba (2007: 704) “the cross-modal nature of the game experience creates a challenging context in which to examine the presentation of subjectivity”. In altre parole, la natura ibrida del videogioco – che prevede per il giocatore momenti di azione e inazione, di decodifica delle regole e di interpretazione dei temi – sembra presentare un ostacolo alla pratica autobiografica da parte del game designer. Raccontare un sé che è tuttavia attivato da un altro implica una fondamentale negoziazione intersoggettiva non solo in senso ermeneutico (il giocatore, cioè, non è solo chiamato a decifrare la storia di un altro), ma anche in senso procedurale (il giocatore rende operativa e percorre la storia di un altro). In questo senso, esiti del ludo essay autobiografico come Dys4ia (Anna Anthropy, 2012), che racconta l'esperienza di disforia di genere dell'autrice, sembrano indicare una relativa restrizione dell'aspetto ludico – che si fonda in questo caso su una serie di semplici enigmi – in favore di un significativo utilizzo di cellule testuali, che adottano il modello retorico del diario. Un videogioco come The Beginner's Guide, invece, sembra far convergere aspetti autobiografici e di elaborazione teorica utilizzando strumenti di significazione mutuati in larga parte da forme come l'audiovisual essay in un contesto videoludico.
4 Sulla ludografia. The Beginner's Guide
Pubblicato nel 2015 e immediatamente ricevuto dalla critica non solo di settore (ad esempio Byrd 2015) in termini quasi univocamente positivi, The Beginner's Guide è il secondo videogioco realizzato da Everything Unlimited, development studio gestito in termini praticamente esclusivi dal game designer Davey Wreden. Il gioco richiede al giocatore di attraversare ed esplorare una serie di brevi livelli, apparentemente del tutto scollegati fra loro, se non per alcuni tratti estetici ricorrenti, che si suppone compongano una selezione dell'opera di Coda, un misterioso autore videoludico scomparso nel nulla. A guidare il giocatore è la voce fuori campo di Wreden stesso che, avendo conosciuto Coda personalmente, identifica il proprio ruolo in termini curatoriali: secondo Wreden, attraversando l'opera di Coda da giocatore, tramite una selezione di giochi compilata da Wreden stesso, è possibile entrare più profondamente in contatto con l'autore. Attraverso l'utilizzo di una struttura finzionale piuttosto complessa (Coda è in realtà un alter ego di Wreden, che mente circa il proprio ruolo curatoriale e la paternità dei livelli), The Beginner's Guide sembra ipotizzare una serie di riflessioni sulla forma ludografica nella sua configurazione contemporanea, analizzandone, attraverso un esempio evidente di “playable theory”, tanto le configurazioni estetiche quanto i posizionamenti retorici. In particolare, The Beginner's Guide sembra mettere in campo due ordini di questioni riguardanti le potenzialità saggistiche del videogioco: la possibilità del medium videoludico di dare vita a forme di audiovisual essay e le implicazioni dell'utilizzo di una voce autoriale di tipo diaristico nel videogioco.
In primo luogo, dunque, il gioco di Wreden sembra affrontare la questione dell'ermeneutica videoludica o, più precisamente, delle consonanze tra la forma saggistica audiovisiva in senso lato e quella più specificamente videoludica. Attraverso l'espediente narrativo della raccolta di livelli commentata e la finalità esplicita di conoscere meglio Coda e il suo lavoro e di indagarne le ricorrenze e le marche autoriali, Wreden sembra volersi interrogare direttamente sulle possibilità analitiche di mezzi diversi dal testo scritto. Lo strumento principale di questa ricerca è l'utilizzo di un commento over, a opera dello stesso Wreden, che descrive gli ambienti virtuali in cui è calato il giocatore. Sebbene sia piuttosto rara in ambito videoludico, l'utilizzo di una voce fuori campo come principale strumento narrativo ha almeno tre precedenti rispetto a The Beginner's Guide. In Bastion (Supergiant Games, 2011), Thomas Was Alone (Mike Bithell, 2012) e The Stanley Parable (Galactic Cafe, 2013), il gioco precedente di Wreden, il giocatore è accompagnato costantemente dalle parole di un narratore. Tuttavia, diversamente da quanto accade in The Beginner's Guide, nei giochi citati la voce fuori campo – che non solo si adatta alle azioni del giocatore, ma in alcuni casi si contraddice, commenta apertamente il proprio operato, ecc. – sembra costituire un riferimento ironico alla sostanziale imprevedibilità dello svolgimento narrativo di un videogioco, affidato in larga parte al giocatore e, in senso più ampio, alla generale inaffidabilità delle istanze enunciative nella narrazione contemporanea. La voce di Wreden in The Beginner's Guide è invece, come detto, quella di un'istanza curatoriale. In modo sostanzialmente coincidente con quanto accade nelle pratiche videografiche, Wreden commenta le caratteristiche estetiche, stilistiche e tecniche dei livelli che il giocatore deve attraversare, mentre questi li sta attraversando, e fornisce spiegazioni rispetto ai criteri di inclusione ed esclusione dalla selezione operata rispetto al lavoro di Coda. Non è soltanto l'utilizzo di questo espediente a fare di The Beginner's Guide un lavoro che riflette sulle forme saggistiche proprie del videogioco. L'obiettivo di Wreden, dichiarato fin dalle prime battute del gioco, è infatti quello di portare il giocatore a conoscere più profondamente l'universo creativo e umano di Coda. In questo senso, Wreden sembra adottare una pratica analitica piuttosto comune nell'ambito dell'audiovisual essay: l'analisi di tratti stilistici e marche estetiche con fini che potremmo definire di decrittazione. In altre parole, Wreden suggerisce al giocatore l'esistenza nei giochi di Coda di una continuità espressiva, di un ritorno di elementi caratterizzanti che definirebbero la voce autoriale dell'autore. Wreden (che, è bene ricordarlo qui, è ovviamente responsabile di tutti i giochi attribuiti al personaggio finzionale di Coda ed è dunque autore al contempo del testo e della sua analisi), per esempio discute con particolare precisione la ricorrenza di un enigma, formato da una porta e due leve, presente in molti dei giochi di Coda. Proprio la figura retorica dell'enigma sembra rimandare metaforicamente alla pratica ermeneutica di Wreden. L'operazione teorica compiuta dall'autore è quella che Aumont e Marie descrivono come “analisi come dimostrazione”: la ricerca, cioè, di un meccanismo espressivo coerente e condiviso, se non addirittura univoco, in un gruppo di opere (1996: 273). Per Wreden, dunque, l'analisi ludografica del lavoro di Coda corrisponde alla risoluzione di un enigma. Wreden mette il giocatore nelle condizioni dello spettatore ipotizzato da Roger Odin che, descrivendo l'atto interpretativo del film, scrive: “nous sommes face à un symbole à élucider, face à une énigme à résoudre” (2000: 76). Non sorprende, dunque, che a un gesto interpretativo tanto forte6 corrisponda un'altrettanto radicale negazione: l'ultimo livello del gioco è disseminato infatti di messaggi lasciati da Coda, alter-ego autoriale del Wreden analista, che scoraggiano ogni pratica interpretativa, riportando i giochi contenuti in The Beginner's Guide sul terreno dell'espressione idiosincratica e slegandoli da qualsiasi simbologia.
La seconda linea di indagine circa The Beginner's Guide riguarda il tentativo di Wreden di dare vita a una voce autoriale autobiografica che si distacchi dalle forme per così dire minimali dell'autobiografia videoludica (ad esempio il già citato Dys4ia). La voce over di Wreden, infatti, non commenta unicamente i giochi di Coda, ma descrive il rapporto umano che è intercorso tra i due designer e, nella seconda metà del gioco, la sostanziale assuefazione di Wreden stesso alla popolarità e alle lodi provenienti dai propri colleghi. Si tratta di un approccio all'autobiografia completamente diverso da quello di Anthropy. Se in Dys4ia il giocatore era messo di fronte a piccoli enigmi che ricalcavano, spesso allegoricamente, alcune delle vicende personali dell'autrice, in The Beginner's Guide il giocatore è impegnato contemporaneamente su due fronti: da un lato le operazioni procedurali legate all'attraversamento dei diversi livelli, dall'altro la ricezione della voce over di Wreden, che racconta dettagli della propria vita adottando il tono di un'autobiografia sincera. Questo doppio posizionamento richiesto al giocatore/interlocutore di Wreden sembra articolarsi infatti principalmente sulla direttrice della sincerità. Wreden sembra compiere qui un'operazione simile a quella che Korthals Altes attribuisce ad alcuni scrittori americani contemporanei, in particolare a Dave Eggers e al suo romanzo d'esordio A Heartbreaking Work of Staggering Genius (2000), per cui una “ethics of sincerity and authenticity” coesiste con un coefficiente di “formal fun”, o di lavoro ludico sulla struttura della narrazione (Altes 2008: 107). Proprio in questi termini sembra procedere il lavoro di Wreden che certamente costruisce una voce che si dà come sincera e autentica – aspirando evidentemente a dare vita a quelli che Lejeune definisce “effets de journal” (2007: 8) – disseminando ad esempio indizi circa la propria vita (addirittura fornendo esplicitamente al giocatore il proprio indirizzo e-mail)7 e facendo ricorso, nel finale, a espressioni di rabbia e frustrazione che si vorrebbero improvvisate e incontenibili. D'altra parte, il giocatore che incontra i livelli di Coda (o, meglio, del Wreden designer) si trova di fronte a un alto livello di complessità e sofisticazione, dal momento che per lo più i mini-giochi sono costruiti in modo sovversivo rispetto ai generi e alle norme consolidati del game design contemporaneo. In questo senso la voce autobiografica di Wreden segna un ulteriore contatto con alcune delle pratiche videografiche contemporanee in cui l'autore, attraverso una voce fuori campo, punteggia il montaggio con dettagli autobiografici (si veda, in questo senso, il lavoro di Grant e Keathley 2014 e i videosaggi a questo collegati).
5 Conclusione
In questo articolo ho ipotizzato un percorso all'interno delle forme ludografiche contemporanee che ne identificasse convergenze e specificità rispetto al più ampio campo dell'audiovisual essay. In particolare, uno degli obiettivi di questo lavoro è la costruzione di una genealogia che leghi le espressioni di produzione paratestuale di natura critica storicamente legate al videogioco con il loro più recente riposizionamento in contesti di distribuzione di contenuti audiovisivi come YouTube o Twitch. Ho dunque individuato due principali movimenti: da un lato la produzione di natura saggistica, che si sostanzia di fatto in video essay spesso non diversi da quelle realizzati a commento di opere cinematografiche; dall'altro l'intreccio tra critica e autobiografia, favorito anche da pratiche di simultaneità come il live stream, che sembrano essere tipiche del videogioco.
Nella seconda parte dell'articolo, l'analisi di alcune componenti di The Beginner's Guide ha inteso sottolineare la particolare rilevanza del gioco di Davey Wreden nel contesto delle pratiche ludografiche contemporanee, e ne ha identificato la peculiare posizione come esempio di saggio ludografico e, al contempo, critica della forma saggistica stessa.
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Ludografia
Bastion (Supergiant Games, 2011)
Bloodborne (FromSoftware, 2015)
Breakout (Atari, 1976)
Dys4ia (Anna Anthropy, 2012)
Phone Story (Molleindustria 2011)
Pong (Atari, 1972)
The Beginner's Guide (Everything Unlimited, 2015)
The Legend of Zelda. A Link to the Past (Nintendo, 1992)
The Stanley Parable (Galactic Cafe, 2013)
Thomas Was Alone (Mike Bithell, 2012)
Toasty Games Essay: Bloodborne's Cosmic Horror (Burned Toast Studios, 2016)
Si noti che evito volutamente in questa sede di riferirmi alla produzione paratestuale di tipo schiettamente promozionale (spot, poster, inserzioni, ecc.), che meriterebbe una trattazione specifica e più approfondita.↩
Un walkthrough è un testo che enuncia, nel dettaglio, le operazioni necessarie per completare un videogioco. Diversamente da un manuale, che esplicita soltanto le forme di interazione essenziali (ad esempio l'effetto della pressione di un determinato pulsante), un walkthrough comprende in genere anche informazioni di tipo strategico e tattico.↩
La ricerca su diverse annate di Nintendo Power e di altre riviste è stata svolta grazie a una fellowship al The Strong National Museum of Play di Rochester (NY). Agli archivisti e ai conservatori vanno i miei più sentiti ringraziamenti.↩
Sulle differenze fra questi formati rimando a Fassone 2017: 59-61.↩
L'utilizzo di tutorial come modalità di apprendimento di pratiche di gioco sembra in qualche modo contraddire l'idea di derivazione adorniana, analizzata nello specifico da Bratu Hansen (2013), che il gioco, una volta trasformato in prodotto di massa, perda la propria qualità aspirazionale, degradandosi a pura esperienza spettacolare.↩
In alcuni casi il ruolo di Wreden-analista e quello di Wreden-autore si confondono; in diverse circostanze infatti Wreden modifica, a vantaggio del giocatore, il design che si suppone essere di Coda, giustificando questo suo intervento con la necessità di aggiustare (“fix it”) il lavoro del collega.↩
L'indirizzo e-mail daveywreden@gmail.com è attivo e, come testimoniato da una comunicazione con l'autore di questo articolo datata 2 febbraio 2018, effettivamente utilizzato da Wreden.↩