Il cinema nordcoreano nasce poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, con la divisione della Corea lungo il 38° parallelo che contrappone un Nord occupato dai sovietici a un Sud controllato dagli americani. La produzione cinematografica si avvia con cinegiornali e documentari di propaganda. Nel 1947 sono fondati, nei pressi di Pyongyang, i primi studi cinematografici. L’anno successivo è istituita la Repubblica Popolare Democratica di Corea, presieduta da Kim Il Sung, il quale nel 1949 è anche nominato presidente del Partito del lavoro: due cariche per una sola persona che, di fatto, avvieranno un lungo regime dittatoriale. In quello stesso anno è realizzato Choson gul (My Home Village), diretto da Kang Hong Sik, il primo film a soggetto della neonata nazione.
La storia del cinema nordcoreano non sarebbe stata quella che è stata, senza la presenza di Kim Jong Il, figlio di Kim Il Sung, destinato poi a succedergli alla guida del paese dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1994. Dalla metà degli anni Sessanta, assecondando la sua notevole passione per il cinema, Kim Jong Il dirigerà in prima persona l’industria cinematografica del paese, assumendone un controllo pressoché totale.
Gli anni Sessanta sono anche quelli che vedono l’affermarsi di un importante genere del cinema nordcoreano, quello dei ‘film sulla realtà socialista’, il cui compito precipuo è di diffondere i principi del Juche: la politica fondata sull’autosufficienza e autarchia economica, ideologica e militare lanciata da Kim Il Sung nella seconda metà degli anni Cinquanta. Si tratta di film che fanno propri certi caratteri del Realismo socialista sovietico, ambientati nel presente e perlopiù nel mondo delle fabbriche o delle fattorie collettive, dove, attraverso un ‘personaggio-modello’, si stabilisce come sia giusto agire in un certo modo (per il bene del Paese e in sintonia con gli insegnamenti del Grande leader) anziché in un altro (per la soddisfazione dei propri desideri individuali). La celebrazione del lavoro – quel lavoro fondamentale all’autosufficienza del Juche – ne costituisce un aspetto essenziale.
Ai principi del Juche si ispira anche l’attività ‘teorica’ dello stesso Kim Jong Il, autore nel 1973 di un ampio volume dal titolo Yeonghwa yesullon (Sull’arte del cinema), che divenne subito la bibbia dei cineasti nordcoreani. Prolisso all’eccesso, l’ampio trattato, fatto di considerazioni alquanto scontate, si fa propugnatore di un cinema ‘realista’ che sappia dare il suo contributo alla rivoluzione in corso, afferma il ruolo di guida del Partito, invita i cineasti a vivere in prima persona i problemi del popolo, a glorificare il grande Leader Kim Il Sung, ad attaccare tutti i retaggi feudali, a rifarsi sì alla tradizione ma liberandola dalla sua logica classista. L’aspetto più interessante del libro è la sua idea di ‘seme’: inteso come quel corretto nucleo ideologico su cui un film deve strutturarsi e che, sia la sua narrazione, sia la sua estetica, dovranno mettere in evidenza.
In questo breve saggio prenderemo in considerazione tre lavori, tutti ambientati dopo la fine della guerra, che si inscrivono nella produzione media del cinema nordcoreano, appartengono al genere dei ‘film sulla realtà socialista’ e narrano, a loro modo, una storia d’amore: Tung tae (The Lighthouse, Kim Chun Sik, 1983), Torajikkot (A Broad Bellflower, Jo Kyun Soon, 1987) e Toshi cheonyeo shijip wayo (Urban Girl Comes to Get Married, Kim Il Sung University Students, 1993)2. L’analisi comparata che ne offriremo tenterà di tratteggiare come il cinema di Kim Jong Il abbia nel suo complesso affrontato i temi dell’amore e della sessualità in una chiave esplicitamente ideologica, dove i sentimenti verso un uomo, o una donna, non possono che cedere il passo a un amore più forte: quello per il grande leader, Kim Il Sung.
1 L’amore più grande
The Lighthouse narra la storia di un uomo, Chon Duk, che ha trascorso tutta la sua vita, dai tempi dell’occupazione giapponese, in un isolotto disabitato come guardiano di un faro, e che riuscirà a portare con sé, vincendone le resistenze, anche la donna amata, Som Wol. A Broad Bellflower, il cui intreccio si dipana lungo un ventennio a partire dagli anni Sessanta, verte, invece, su di una storia d’amore mancata, dovuta alla scelta di Wong Bong di lasciare il suo paese natale per cercare la fortuna in città, abbandonando così Song Rim. Urban Girl Comes to Get Married, infine, ha come oggetto il legame sentimentale, che si coronerà in un matrimonio, fra una stilista di Pyongyang, Ri Hyang, e un allevatore di campagna, Song Sik, nella Corea del Nord degli anni Novanta.
I tre film si costruiscono intorno a un amore ostacolato, in cui l’impedimento assume un’esplicita dimensione spazio-ideologica. In gioco ci sono sempre due luoghi: il faro isolato e il villaggio in The Lighthouse, la capitale e la campagna in A Broad Bellflower e Urban Girl. La scelta di quale di questi luoghi abitare, a seconda dei casi da soli o con la persona amata, assume, in tutti e tre i film, una forte valenza ideologica.
In The Lighthouse, Chon Duk decide di tornare al suo faro non solo in quanto l’unico in grado di farlo funzionare davvero, ma soprattutto perché un capitano di marina gli narra che fu proprio la sua luce a salutare il ritorno in patria di Kim Il Sung, dopo la liberazione dall’invasore giapponese. In A Broad Bellflower, Song Rim non segue in città l’amato Wong Bong perché decisa a rimanere nel suo villaggio natale e contribuire in prima persona alla sua modernizzazione. In Urban Girl, Song Sik, deciso quanto la Song Rim del precedente film a fare del suo villaggio una sorta di paradiso in terra, rinuncia all’amata Ri Hyang quando scopre che la fabbrica di città, dove questa lavora, non può fare a meno delle sue capacità.
I tre film stabiliscono così una ben precisa gerarchia che è alla base di tutto il cinema nordcoreano: l’amore per la Patria e il suo Grande leader, Kim Il Sung, viene prima di quello per la persona amata, o di ogni qualsiasi altro desiderio individuale.
2 Chi non lavora non fa l’amore
Il primato della dedizione al paese su ogni sentimento individuale è ben espresso in una scena quasi da musical di A Broad Bellflower, quella in cui i ragazzi e le ragazze del villaggio si confrontano a colpi di canzone, in un clima alla Seven Brides to Seven Brothers (Sette spose per sette fratelli, Stanley Donen, 1954).1 La canzone che i due gruppi intonano narra di un ragazzo e di una ragazza che vivono sulle sponde opposte di un fiume. Le premesse del modello “boy-meets-girl” ci sono tutte, ma subito il testo si adatta agli stereotipi ideologici nordcoreani, quando precisa che i due s’innamorano «lavorando insieme», affermando così subito la centralità dell’ideologia del lavoro (quello per la Patria, s’intende, non quello per l’eventuale arricchimento personale). Tale principio è ribadito in modo ancora più esplicito nel finale, quando le ragazze intonano tutte insieme: «Non mi sposerò prima di aver imparato a guidare un trattore», stabilendo così una ben precisa e inequivocabile priorità.
Questa centralità del lavoro è ben presente in tutti e tre i film: nella meticolosità e assiduità con cui Chon Duk in The Lighthouse si dedica ai propri compiti sull’isola; nella sua celebrazione, sì come piacere ma anche come fatica, di A Broad Bellflower; negli sguardi da innamorati che si gettano Song Sik e Ri Hyang in Urban Girl mentre sarchiano o seminano i campi.
Molto indicativo di questa preminenza del lavoro sull’amore è proprio il finale di Urban Girl, in cui a essere omaggiato non è tanto, come ci si aspetterebbe, il trionfo del sentimento e il matrimonio dei due protagonisti, bensì la trasformazione del villaggio in una sorta di paradiso terrestre24, creato grazie al lavoro, in un susseguirsi d’immagini che ci mostrano i moderni edifici, le mucche al pascolo, i maiali nella stalla, le galline nell’aia, i campi pieni di spighe di riso, i frutti rigogliosi appesi ai rami, i trattori e le sarchiatrici.
3 Incontri non troppo sentimentali
Di là dai continui riferimenti al lavoro, i tre film non si esimono dallo stabilire un ancor più stretto nesso fra amore e ideologia anche nelle scene degli appartati incontri fra le rispettive coppie di amanti, laddove uno spettatore occidentale potrebbe aspettarsi un diverso svolgersi degli eventi. In Lighthouse, il momento della ‘conversione’ di Som Wol, quello in cui la donna si rende conto che Chon Duk è un uomo che merita davvero di essere amato al punto tale da decidere di andare a vivere con lui su un’isola deserta, è quello della scena della bandiera, i cui presupposti iniziali paiono essere in linea con una ‘commedia degli equivoci’, destinati però subito a essere svolti in una chiave alquanto (melo)drammatica e con un finale decisamente ideologico.
Sulla base di alcuni fraintendimenti, la donna scambia il tessuto che l’uomo le porge per quello atto a confezionare un abito da sposa. Quando scopre, invece, che si tratta di quello necessario a cucire una bandiera della Repubblica Popolare Democratica di Corea, la sua iniziale reazione è di una donna davvero amareggiata per una delusione d’amore. Tuttavia, ascoltando le sincere parole dell’uomo e comprendendo il perché questi voglia vedere sventolare la bandiera sul suo faro come una sorta di dedica al Grande leader che ‘ha liberato’ il Paese, Som Wol si rende conto del suo errore. Deciderà quindi con entusiasmo di cucire la bandiera davanti al sorridente sguardo di Chon Duk. Quel che finalmente Som Wol ha capito, è che l’amore fra due persone vale infinitamente meno di quello per la Patria e il Grande leader che la sta costruendo.
In A Broad Bellflower, l’unico dei tre film a non vedere coronata con un lieto fine la storia d’amore, sono numerosi gli incontri appartati fra i due amanti ma, in essi, il motivo sentimentale sembra essere lì soprattutto per dare rilievo a quello ideologico (nello specifico, ancora una volta, il lavoro e la dedizione alla Patria). Si prenda il primo di questi incontri che avviene in segreto, di notte, in un bosco e sotto la luna piena,3 in un’atmosfera intrisa da un evidente ‘romanticismo’. Wong Bong, l’uomo, ne sembra infatti totalmente succube e, sin dalle prime battute, è evidente il suo desiderio di esprimere i propri sentimenti verso la donna amata. Song Rim, dal canto suo, cerca invece di spostare la conversazione verso lidi meno perigliosi, cercando rifugio di là da un albero. In gioco non è tanto una scontata ritrosia femminile, peraltro in parte presente, quanto una vera e propria dimensione etico-ideologica che spinge la donna a orientare la conversazione dall’ambito del sentimento a quello del dovere: il lavoro che entrambi sono tenuti a fare per modernizzare il villaggio. Si stabiliscono così, in modo netto e sin dall’inizio, i tratti fondamentali dei due personaggi che il resto dell’intreccio non farà che confermare: lui sempre a un passo dal cedere ai propri desideri individuali (e difatti finirà col lasciare il villaggio per cercare fortuna in città), lei invece saldamente legata ai propri principi (non lascerà il villaggio e contribuirà col proprio lavoro a renderlo un ‘paradiso comunista’).
Anche in Urban Girl è presente più di una scena d’incontro che da premesse sentimentali vira decisamente verso sviluppi ideologici. Si veda la più clamorosa, che si avvia con l’inquadratura di un mazzo di fiori dietro il quale si scorge, in camera sua, Ri Hyang farsi bella – cosa non così frequente nel cinema nordcoreano – per recarsi a un appuntamento con Song Sik. L’incontro è all’aperto, davanti al più struggente dei tramonti, con i due seduti l’uno a fianco dell’altro. L’uomo, finalmente, le dichiarerà il suo amore? Le prenderà la mano? La bacerà? Niente di tutto ciò. Le parlerà, invece, dell’abbondante crescita del riso e del piacere che i contadini ne trarranno al momento del raccolto, dell’impegno che è stato necessario per rendere fertili i campi, dell’amore per la sua terra, e, soprattutto, del Grande leader, delle sue diverse visite alla fattoria, del suo invito a non lasciare quelle terre e a lavorare duro per realizzare il comunismo. Il tutto in un gioco di campi e controcampi sapientemente costruito, con appropriati piani d’ascolto di lei sulle parole di lui – quelle che devono lasciare il segno – rafforzato da una conclusiva carrellata ottica in avanti sul volto di Song Sik quando chiuderà il suo discorso – con uno sguardo quasi misticamente rivolto verso un indefinito altrove – auspicando che lui e la sua gente riescano davvero a fare del proprio paese natale un ideale villaggio comunista.
4 Testimoni e addii necessari
Con l’eccezione del più datato Lighthouse, entrambi gli altri film presi in esame non si esimono dal rappresentare dei momenti di contatto fisico fra i due amanti: qualche mano che si sfiora e, addirittura, qualche abbraccio. Spesso, però, ciò accade in conformità a determinate condizioni: la presenza d’indiscreti testimoni e l’imminenza della separazione. In A Broad Bellflower, il secondo incontro solitario dei due amanti avviene ancora in un bosco, sebbene in pieno giorno, iterando in parte i contenuti del primo che abbiamo già descritto. Questa volta, tuttavia, Wong Bong si fa più ardito: dice esplicitamente alla donna che la vuole sposare, arriva ad abbracciarla e, forse, anche a baciarla. ‘Forse’ poiché tutto accade in un fuori campo interno, dietro il tronco di un albero che impedisce allo spettatore una piena visibilità dell’evento.4 Ciò che però questi non può vedere, lo vede Song Hwa, la sorella minore di Song Rim, appollaiata su di un ramo di quello stesso albero. Il suo sconcertato – e quasi comico – stupore, per quel che accade davanti ai suoi occhi, è evidenziato dal più classico dei reaction shot. Wong Bon e Song Rim torneranno, poi, ad abbracciarsi ancora in occasione del loro addio, questa volta sotto il forse ironico e altrettanto allibito sguardo di un cane.
Prima di fare alcune brevi considerazioni su queste due scene vediamone una simile, che in qualche modo le sintetizza, di Urban Girl, quella in cui i due amanti, sorpresi da un improvviso temporale, si rifugiano in una sorta di capanno rialzato da terra. D’un tratto l’uomo si rabbuia, esprimendo il suo disappunto per l’imminente ritorno in città di lei, e le copre le spalle con la giacca per ripararla dal freddo, finendo, così, con l’abbracciarla. Anche in questo caso i due sono inconsapevoli della presenza di una coppia di testimoni, un uomo e una donna, che proprio sotto il capanno sospeso seguono interessati gli sviluppi della situazione.
In entrambi i film, così, i momenti di maggiore vicinanza fisica accadono in prossimità di una non voluta separazione, quando l’imminenza dell’addio viene a giocare in qualche modo una funzione disinibente rispetto alla precedente ritrosia. Ciò che è più interessante è che tale intimità è in qualche modo attenuata dalla presenza d’indiscreti testimoni che ne minano in una certa misura la privacy e, soprattutto, spostano, con le loro reazioni, su un piano quasi comico una situazione altrimenti segnata da una ‘eccessiva sessualità’ (almeno per quelli che sono gli standard del cinema nordcoreano).5
5 Il rimosso sessuale del cinema nordcoreano: la pietra, il bastone e la campana
Di là da quello religioso, non esiste forse cinema più casto di quello dei paesi comunisti.6 In mondi dove l’unico grande amore possibile è quello per l’Ideale, la Nazione e i suoi Leader, non solo c’è poco spazio per l’amore come puro sentimento, ma ancor meno ce n’è per quello sessuale.
Non è un caso che, nei film nordcoreani, tale sentimento tenda spesso ad assumere dimensioni fraterne. In The Lighthouse, Chon Duk e Som Wol, entrambi orfani, sono cresciuti come fratelli adottati da una stessa famiglia. Dal canto suo, Ri Hyang, in A Broad Bellflower, ci tiene in più di una circostanza a dire a Wong Bong di amarlo come se lei stessa fosse sua sorella.7
Tuttavia, in una chiave metaforica, o implicita, i due film appena citati contengono alcuni passaggi dal carattere quasi ‘scandaloso’. Sempre in A Broad Bellflower, alla scena già presa in esame del primo incontro notturno fra Wong Bong e Song Rim – quella in cui l’uomo non riesce a trattenere i propri impulsi, si avvicina ripetutamente alla donna e questa cerca in ogni modo di frenare il suo desiderio – segue quella del rientro a casa della protagonista. Qui Song Rim si stende nel suo letto, che divide con la più giovane sorella, stringendosi a lei e accarezzandole il viso. Non è il caso di evocare fantasmi incestuosi, né una qualsivoglia intentio personae, tuttavia la situazione che si viene a creare evoca un’idea d’intimità, di vicinanza di corpi e di contatto fisico che è il contrario di quel che era appena accaduto fra la stessa Song Rim e Wong Bong. La contiguità fra le due scene e il contrasto che le segna fanno sì che la seconda appaia come una sorta di traslazione del desiderio inconscio della donna, la quale sembra dar corpo con la sorella a quella prossimità fisica che non ha voluto, o non ha potuto, realizzare con l’uomo amato.
Si potrebbe leggere la scena appena citata di A Broad Bellflower come una rappresentazione implicita del rimosso sessuale del cinema nordcoreano, cosa ancor più vera per due passaggi davvero ‘oltraggiosi’ di The Lighthouse.
Su di una spiaggia,8 dopo aver deciso di tornare sull’isola solitaria per rendere i suoi servigi alla comunità, Chon Duk tenta di convincere Som Wol a sposarlo e a seguirlo, ma, per il momento, questa si rifiuta di farlo. La scena si apre col piano ravvicinato di una montagnetta di sabbia su cui lo stesso Chon Duk ha infisso una pietra dalla forma allungata. Quando l’uomo invita la donna a sedersi al suo fianco, questa inizia a toccare con un dito la sabbia vicino alla pietra. Nel momento in cui Chon Duk le chiede di andare sull’isola, il movimento della mano della donna si fa più nervoso, tanto da far cadere la stessa pietra. L’uomo, umiliato dal rifiuto, non può fare altro che raccoglierla e allontanarsi, tenendola fra le mani.
Ora è evidente che, a un primo livello, la pietra sta per il faro, che la donna in qualche modo fa cadere (vorrebbe non esistesse più) e l’uomo, invece, raccoglie e tiene con sé (non ne può fare a meno). Ma è altrettanto evidente che su un altro livello – legato a un contesto in cui un uomo chiede a una donna di sposarlo e andare a vivere con lui, e questa non accetta – la pietra eretta, il ‘malizioso’ giocarci intorno, prima, e il farla cadere, poi, così come il gesto dell’uomo di riappropriarsene assumono valenze di ordine sessuale.
Che tale interpretazione stia più sul versante dell’intentio autoris, che su quello dell’intentio operis, o addirittura lectoris, lo conferma un’altra sequenza del film, quella in cui, sull’isola, Chon Duk fa risuonare una campana battendola con un bastone, mentre in mare Som Wol, finalmente decisasi, cerca di raggiungerlo. Le ripetute immagini di Chon Duk che impugna il grosso palo e colpisce ripetutamente la campana, già in sé fortemente indiziarie, vedono rafforzarsi il loro senso di metafora sessuale grazie alle soggettive immaginarie dello stesso Chon Duk che si traducono nella sovrimpressione del volto della donna sulla campana.
6 Immagini d’amore
Concludiamo queste osservazioni con alcune notazioni di linguaggio filmico, prendendo in esame una diversa scena dal carattere sentimentale per ognuno dei tre lavori, dove diverse modalità di rappresentazione – in particolare le carrellate ottiche e il montaggio – sono in gioco per esprimere l’interiorità di questo o quell’altro carattere. In The Lighthouse, il primo incontro fra Chon Duk e Som Wol avviene quando questi, dopo dieci anni di segregazione sull’isola, rientra presso la famiglia adottiva. Quasi come nell'incipit di The Searchers (Sentieri selvaggi, John Ford, 1956), il ritorno a casa dell’uomo è mostrato attraverso lo sguardo della donna di lui innamorata, che lo vede uscendo dalla porta di casa e lo porge allo spettatore. Le convenzioni vogliono che Chon Duk saluti per prima la madre adottiva, mentre Som Wol si allontana con discrezione collocandosi in disparte. Sarà il montaggio, in un classico gioco di campi e controcampi, a correlare i due giovani attraverso ripetuti raccordi, che mostrano lei guardarlo, in mezzo primo piano, e lui fare altrettanto, in mezza figura, insieme alla madre. Che l’uomo sia, di fatto, nei pensieri (e nei desideri) della donna, il film lo ribadisce attraverso la più diffusa delle figure di discorso del cinema nordcoreano: la carrellata ottica in avanti, che qui arriva a mostrare Som Wol in primo piano, la quale finalmente sorride. A quest’ultima e decisiva immagine della donna, segue, ancora una volta, un’inquadratura dell’uomo che, a differenza delle precedenti, lo vede come lei sorridente, in posizione più ravvicinata e senza la madre al fianco. Lo spazio del film diventa così tutt’uno con quello dei sentimenti dei due giovani.
In A Broad Bellflower, dopo aver maturato l’idea di andarsene, Wong Bong è costretto a mutare le sue strategie di seduzione. Non si tratta più tanto di esternare i propri sentimenti alla donna – sperando che questa faccia altrettanto – quanto di convincerla a seguirlo in città. È ovvio che i suoi tentativi saranno vani: cittadina modello, Song Rim, non sacrificherà sull’altare dell’amore il proprio dovere verso il paese natale, anche se ciò le provocherà non poco dolore. La scena notturna in cui l’uomo rivela alla donna le sue intenzioni – tutta giocata sul contrasto fra chi crede sia inutile tentare di cambiare il villaggio e chi, invece, ritiene che ciò sia possibile – ha una chiusa dall’intensa espressività che bene visualizza i sentimenti affranti della donna. Quando ormai è chiaro che non esistono più possibilità di mediazione, un primo piano di profilo di Song Rim la mostra contro una gelida parete di ghiaccio che è tutt’uno con l’irrigidirsi del rapporto fra i due. A questo punto, un movimento di macchina sale lungo la parete, mettendo fuori campo la donna. Il piano seguente, che appartiene alla scena successiva ma chiude idealmente questa, mostra un albero che abbattuto sta per schiantarsi a terra: è il crollo dell’amore fra Wong Bong e Song Rim.
Si è già notato come la carrellata ottica in avanti sia la figura discorsiva più ricorrente nel cinema nordcoreano,9 e A Urban Girl ne è tutto un proliferare. Nel film non sono solo presenti ovunque singoli zoom in avanti a evidenziare i sentimenti o le parole di qualcuno, ma in talune circostanze tali carrellate ottiche si raddoppiano o addirittura si triplicano. Quando Song Sik rientra a casa senza essere riuscito a salire su quel treno in corsa nel quale avrebbe dovuto trovarsi Ri Hyang, scopre che la donna non è partita ma è lì ad aspettarlo. Ella gli appare immacolata più che mai col suo vestito bianco, vicino al recinto delle oche (lì a significare come la ‘donna di città’ sia pronta a farsi ‘donna di campagna’). A un controcampo sull’espressione di stupore dell’uomo (un altro reaction shot) segue una sua soggettiva che mostra di nuovo la donna. Ed ecco che a una prima carrellata ottica sul volto di lei, da figura intera a piano americano, ne seguono immediatamente altre due, senza transizione alcuna, che arrivano a un suo primo piano. Questo triplice zoom in avanti è davvero tutt’uno con l’agitarsi dei sentimenti dell’uomo di fronte all’insperata apparizione – perché di una vera e propria apparizione si tratta. Se una delle differenze fra il cinema d’autore e quello popolare sta nel fatto che il primo suggerisce quel che il secondo, invece, rimarca con evidenza, questa ripetuta carrellata di A Urban Girl fa davvero del film un perfetto esempio di cinema popolare.
La scena prosegue con l’abbraccio dei due e le parole della donna che afferma: «Pensi che sia tornata per te? Sono tornata per vedere un giovane uomo che ama la sua terra e dedica tutto se stesso a essa», ribadendo ancora una volta come nel cinema nordcoreano non ci s’innamori di un uomo, o di una donna, ma dell’ideale di fedeltà al lavoro, al paese e al suo leader, che questi può rappresentare.
Bibliografia
Fischer, Paul (2015). Una produzione Kim Jong-Il: La storia incredibile ma vera della Corea Del Nord e del più audace rapimento di tutti i tempi: Milano: Bompiani.
I, Hyo In (1992). “Il cinema nordcoreano e la teoria del «juche»”. In Il cinema sudcoreano, a cura di Adriano Aprà, 137-144. Venezia: Marsilio Editori / Mostra Internazionale del Nuovo cinema di Pesaro.
Kim, Jong Il (1989). On the Art of Cinema. Pyongyiang: Foreign Language Publishing House.
Kim, Suk Young (2010). Illusive Utopia. Theater, Film and Performance in North Korea. Ann Arbor: The University of Michigan Press.
Lee, Hyang Jin (2006). Il cinema coreano contemporaneo. Identità, Cultura e politica. Milano: Obarra O Edizioni. Schönherr, Johannes (2012). North Korean Cinema. A History. Jefferson: McFarland & Company.
Nel cinema coreano, come in molto cinema asiatico, è assai diffusa la presenza di canzoni il cui compito è di esplicitare il “seme” del film, ovvero, secondo la terminologia cara a Kim Jong Il, i sui dominanti contenuti ideologici.↩
La rappresentazione del villaggio come ‘paradiso terrestre’, presente sia in A Bellflower, sia in Urban Girl, è assai diffusa nel cinema nordcoreano, soprattutto in qualità di metafora della stessa Corea del Nord.↩
La presenza della luna è enfatizzata dall’immagine del suo riflesso nelle acque di uno stagno, che apre e chiude la scena stessa.↩
Il primo bacio della storia del cinema nordcoreano è quello, pur velato, di Sarang, sarang, nae sarang (Love, Love, My Love), un adattamento della celebre storia medievale di Chunhyang, diretto nel 1984 da Shin Sang-ok, il regista sudcoreano che, secondo le sue dichiarazioni, fu rapito da agenti speciali di Kim Jong Il nel 1978 e costretto a realizzare in Corea del Nord sette film fra il 1983 e il 1984.↩
Anche la vicinanza dei corpi degli amanti, peraltro, può essere in qualche nodo mediata e riscattata dal lavoro. In A Broad Bellflower la prima volta che le mani dei due protagonisti si toccano, è quando sono entrambi impegnati a spalare… letame.↩
Nel caso della Corea del Nord, come in quello della Cina, una tale castità è probabilmente conseguente al permanere degli influssi del confucianesimo, evidenti anche nella dimensione paterna fatta assumere al Grande leader.↩
A questo proposito sarebbe interessante prendere in esame un film come Chunganggonggyoksu (Centre Forward, Pak Chok Song, Kim Kil In, 1978) incentrato sulle vicissitudini di un giovane calciatore che riuscirà a primeggiare solo grazie a un duro sacrificio e agli insegnamenti del Grande leader, trasmessigli dal suo coach. Il film non implica alcun sotto intreccio sentimentale, tuttavia il ruolo della fidanzata di turno, qui assente, è in qualche modo fatto proprio dalla sorella del protagonista: le sue attenzioni, i suoi sguardi, la ripetuta ricerca di un contatto fisico sono davvero simili a quelli di una donna innamorata.↩
La scena si svolge sulla stessa spiaggia dove Chon Duk era venuto a conoscenza di come il suo faro salutò il rientro in patria di Kim Jong Il dopo la vittoria sui giapponesi. Così il fantasma del Grande leader può tranquillamente aleggiare anche sulla conversazione fra i due amanti.↩
Se dovessimo immaginare i tre ‘tesori’ del cinema nordcoreano, potremmo dire che essi sono, sul piano linguistico, la carrellata ottica in avanti; su quello narrativo, il flashback; su quello profilmico, i fiori.↩