Nel dibattito contemporaneo attorno alla revisione del neorealismo (Parigi 2014:10), è possibile rileggere particolari periodi della produzione visiva (fotografica e cinematografica) italiana per collocarne i prodotti culturali entro un ampio sistema di segni che restituiscano l’autenticità dei processi che li hanno generati. In questa sede analizzerò reportage fotografici e film documentari realizzati nell’immediato secondo dopoguerra nel Sud Italia: opere che custodiscono ancora oggi una dimensione simbolica che si fa creazione continua di realtà.
Quello che emerge dalle immagini di quei lavori è la volontà di recuperare la tradizione arcaico-rurale di territori esclusi dal processo ufficiale di costruzione identitaria nazionale e il bisogno di farla dialogare col sopraggiungere di una modernità sempre più invadente. Nel loro manifestarsi come percorso parallelo al neorealismo dominante in quegli anni, ma che lo compenetra e forse lo completa, quelle opere sembrano in grado di preconizzare piuttosto l’elaborazione di una definizione identitaria di territori marginali. In generale, infatti, la nuova italianità “non si costruisce con un semplice gesto di rottura: si declina, invece, come un puzzle contorto, le cui tessere provengono da orizzonti diversi e talvolta conflittuali, apparentemente inconciliabili” (Parigi 2014:8).
Questa analisi vuole tener conto delle ragioni che hanno spinto fotografi e cineasti a scegliere i territori del Sud e a mostrarne il paesaggio come forma simbolica, in cui la ricerca estetica si coniuga con quella antropologica e filosofica (Bernardi 2002: 31). Una visione d’insieme in cui le diverse anime del reale si legano inesorabilmente, si fanno struttura complessa, unica strada per rendere le immagini del mondo sempre interessanti agli occhi mutati dello spettatore contemporaneo.
Cosa resta ora di quelle immagini? Forse è vero che il neorealismo ha rappresentato per la cultura italiana un grado zero, un nuovo punto di partenza non solo per la costruzione identitaria dell’Italia, ma anche perché è stato un “generatore” di simboli, una fucina di immagini sopravviventi, che hanno prodotto e ancora producono discorsi. Ma se, come sosteneva Michel Foucault, le strategie discorsive possiedono un potere di affermazione sugli eventi (Foucault 1971), probabilmente anche i processi collaterali meno noti hanno contribuito al radicamento di categorie estetiche e alla determinazione delle stesse immagini redivive.
Quello che provo qui a dimostrare è che accanto al processo di definizione dell’identità italiana, determinato più o meno programmaticamente dall’affermarsi del fenomeno neorealismo, si sono sviluppati nuovi e diversi discorsi che smentiscono l’idea di un processo di unificazione culturale italiana, ma che anzi evidenziano come alcune questioni irrisolte del processo di democratizzazione del Paese hanno trovato nell’arte, e in quella visiva in particolare, uno strumento capace di leggerle e tradurle in maniera efficace.
D’altra parte non dobbiamo dimenticare che la cultura italiana, dal secondo dopoguerra in poi, è rimasta divisa tra un canone dominante, ufficiale, e forme di attrazione verso riti, simbologie, pratiche regionali: un interesse per la riscoperta del sacro e di modelli arcaici che permanevano soprattutto in alcune regioni periferiche e venivano misteriosamente trapiantati nella modernità, producendo una revisione del rapporto tra passato e presente, mito e storia, invisibile e visibile che chiamava in causa l’antropologia, la scienza che, insieme alla psicoanalisi, l’idealismo crociano aveva etichettato come una non-scienza, confinandola nel novero degli studi irrazionalistici. Nonostante ciò, gli studi antropologici iniziarono ad affermarsi, come dimostra la scelta di Cesare Pavese di raccogliere, nella “collana viola” aperta presso Einaudi nel 1948, gli studi di Theodor Reik, Lucien Lévy-Bruhl, Károly Kerényi ed Ernesto de Martino. Fu proprio quest’ultimo a indagare le processioni, le tarantolate, gli esorcismi elaborando una riflessione sul rapporto fra culture diverse e sul senso profondo del loro connaturarsi come processo di definizione di una più complessa ed eterogenea identità italiana. De Martino è considerato, infatti, il padre dell’antropologia culturale e dell’etnologia applicate alla società meridionale. Oltre che dall’esperienza della militanza politica, la sua visione del Sud è stata influenzata dall’incontro con Carlo Levi, con il poeta contadino Rocco Scotellaro e con Antonio Gramsci. Il suo intervento, se trovava un corrispettivo più alto ed esteso alle dinamiche articolate della cultura occidentale negli studi europei di Foucault e Claude Lévi-Strauss, in Italia conquistava spazio di sperimentazione nella pratica artistica di fotografi, documentaristi e cineasti che scelsero modi nuovi di guardare la realtà: non una antropologia dell’oggetto, ma del soggetto, del modo stesso di guardare. Bernardi ha proposto di leggere nel cinema successivo al neorealismo le tracce di quell’antropologia che mancava nella cultura italiana ufficiale (Bernardi 2002: 92); qui voglio mettere in evidenza alcune pratiche culturali che si svilupparono contemporaneamente all’affermarsi del neorealismo e che, nonostante la prematura chiusura della collana di Pavese, malgrado la mancata circolazione delle opere cine-fotografiche di autori italiani e stranieri presso il pubblico di massa, tuttavia conservano traccia di dinamiche culturali che ancora oggi continuano ad affiorare dalla coltre di dimenticanza cui sono state condannate. Anzi, sono proprio la cultura di massa e l’industria culturale a ricercare nella tradizione il valore necessario per ridefinirsi e riqualificarsi. Si pensi al riscatto del paesaggio e delle sue specificità antropologiche recentemente promosso da certe politiche dell’accoglienza e della valorizzazione che hanno reso il Meridione location privilegiata di set audiovisivi, o ancora al successo delle Film Commission che lavorano sulla stratificazione culturale di esperienze, costumi e visioni del passato per attualizzarli attraverso l’utilizzo delle tecnologie più avanzate.
Se, dunque, ogni territorio è una trama che custodisce un senso sacro e sublime e va affrontato non solo come questione iconografica, ma anche come problema estetico-antropologico, qui proverò a tracciare un percorso possibile di ricostruzione di reportage fotografici e materiali audiovisivi che hanno raccontato i territori del Sud e i loro abitanti, mettendo in evidenza le ragioni estetiche e culturali che hanno spinto diversi fotografi e cineasti a documentare e cercare visivamente quel territorio, ben prima della diffusione delle tecnologie e delle pratiche della modernità. Mi soffermerò, per ragioni di ampiezza dell’argomentazione, sul territorio della Puglia e della Basilicata, ma l’analisi potrebbe estendersi ad altre regioni del Sud Italia che dagli anni del secondo dopoguerra in poi hanno visto il fotogiornalismo prima, il documentario dopo, e infine il cinema italiano d’autore dedicarsi alla ricostruzione e conservazione della memoria storica di quella società rurale di cui oggi non avremmo avuto traccia. Dai fotoreporter della nota agenzia Magnum, David Seymour e Henri Cartier-Bresson, che attraverso l’eredità della lezione del realismo americano documentarono il Sud Italia dando una svolta etnografica alla fotografia, al lavoro teorico e politico di Ernesto de Martino che definì le linee di un “populismo scientista” divenuto modello attraverso le “spedizioni” nel mondo magico del Meridione con i fotografi Arturo Zavattini prima e Franco Pinna dopo, si è avviato quel processo di “iconizzazione” del Sud che ha portato cineasti come Gianfranco Mingozzi, Luigi Di Gianni, Vittorio De Seta, Carlo Lizzani, Lino Del Fra a documentarlo, e che renderà il cinema italiano capace di leggere più delle altre forme d’arte, la trasformazione avvenuta nel modo di guardare prima che nell’oggetto guardato. Poi arriverà la televisione con le sue inchieste e il suo processo di stereotipizzazione forzata, che al cinema Germi, Pasolini e Visconti racconteranno da prospettive nuove e diverse perché diversi saranno gli sguardi e le intenzioni di questi autori. Ma cosa resta dell’autenticità di quei mondi narrati? Come questi prodotti culturali restituiscono al nostro sguardo di spettatori contemporanei la relazione tra realtà del mondo e realtà dell’immagine? Ecco che il realismo sembra ancora l’unica forma in grado di restituirci il senso di quei mondi lontani e delle loro sedimentazioni, cristallizzate nel tempo e nello spazio dell’immagine artificiale.
Possiamo inserire, dunque, questa riflessione nel solco di quel processo di “costruzione sociale dell’ambito visuale” (Mitchell 1986) che è confluito nelle recenti celebrazioni (2015) a Matera del 50° della scomparsa di de Martino, dei 40 anni della morte di Pasolini e dei 70 dalla pubblicazione del capolavoro di Carlo Levi, e che continua a evidenziarsi nei numerosi convegni oltre che nelle esposizioni organizzate nell’ambito di Matera 2019 o dedicate al documentario come nelle ultime edizioni del Festival del cinema del reale di Specchia (LE). Pur prive dei mezzi economici e tecnici di cui dispongono i fotografi e i cineasti di oggi, quelle immagini conservano una memoria storica che resiste all’abuso di software di fotoritocco e di montaggio video e al glamour di narrazioni che si consumano in una narcisistica condivisione istantanea. Questa resistenza alla saturazione dello sguardo è ciò di cui si parla… l’immagine icona sembra sopravvivere.
1 Fotogiornalismo: spedizioni e resistenze
Molto forti sono state le motivazioni estetiche e culturali che hanno spinto fotoreporter alla ricerca di situazioni autentiche e reali nelle zone più marginali del nostro Paese. Spesso si è trattato di vere e proprie commissioni, altre volte di una libera scelta dettata da curiosità e voglia di sperimentare metodi di indagine che si andavano consolidando in quegli anni anche fuori dall’Italia, soprattutto in Francia e in America. Ciò che appare di assoluto rilievo è il fatto che negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, prima ancora che si avviasse il processo di ricostruzione identitaria attraverso le arti (confluito come si è detto in quel fenomeno complesso chiamato neorealismo), prima ancora che le macchine fotografiche giungessero nel Sud Italia, si stava già avviando un processo di costruzione di un immaginario altro, esterno, le cui premesse socio-culturali condurranno fotoreporter stranieri a realizzare il primo reportage in Puglia e Basilicata.
Tra le possibili ragioni per cui oltralpe si è diffusa una certa curiosità per la questione meridionale c’è il trasferimento di Levi a Parigi, dopo la grazia concessagli sulla scorta dell’entusiasmo per la conquista etiope. Dal 1936 al 1942 lo scrittore frequentò gli ambienti culturali parigini portando le suggestioni del confino in Lucania all’attenzione di altri artisti tra cui i fondatori della agenzia Magnum, Seymour e Cartier-Bresson, due fotoreporter europei eredi della lezione del realismo americano nato con Paul Strand che, con le sue pubblicazioni su Camera Work di Alfred Stieglitz, aveva contribuito a dare legittimità al mezzo fotografico distinguendolo definitivamente dalla pittura, ed era stato tra i primi a dare una svolta etnografica alla fotografia.
Ma anche in Italia i fotografi del dopoguerra si trovarono di fronte allo scenario di un Paese devastato e tutto da scoprire, soprattutto a Sud, dove la fine del conflitto aveva messo in evidenza con più forza la gravità di certe condizioni sociali che si sentiva l’urgenza di raccontare (Russo 2011). Anche in questo caso il modello veniva dall’America, dalla crisi prodotta dalla grande depressione che aveva colpito la classe media. Nel 1933 dalla finestra del suo studio Dorothea Lange aveva visto una fila di uomini disperati in attesa di ricevere il pane da una benefattrice. Scesa in strada aveva realizzato White Angel, Breadline, una delle tante opere che, come è noto, costituirà il corpus di fotografie americane che insieme al cinema francese degli anni Trenta influenzerà la produzione neorealista italiana.
L’uscita in Italia del libro di Walker Evans American Photographs del 1938, la pubblicazione delle riviste Corrente e Domus, sono state componenti essenziali di un processo che non ha escluso gli intellettuali italiani. Ne sono importanti esempi la raccolta di foto Occhio Quadrato di Alberto Lattuada e la rivista Il Politecnico (1945), a cui Elio Vittorini conferì un rilevante aspetto grafico grazie all’impostazione di Albe Steiner che usava fotomontaggi di Heartfield e foto documentarie. D’altronde, lo stesso Vittorini corredò il volume Americana (1941) con diverse opere di fotografi americani, soprattutto di Evans, ma anche con foto tratte dalle riviste Life e Look. Più in generale, nel 1945, molti registi italiani “uscirono dagli studi” come avevano fatto i fotografi documentaristi americani degli anni Trenta, spinti da ragioni diverse di natura pratica ed estetica.
In questo contesto, la curiosità per le realtà più isolate della civiltà, condusse Seymour e Cartier-Bresson in territori che si offrivano quasi naturalmente a quello sguardo indagatore. L’Italia del Sud esercitava un fascino intellettuale e visivo che era divenuto vero e proprio shock nelle rivelazioni di Levi. Nel 1948 Seymour scattò a Bari otto fotografie che ritraevano bambini che giocavano per la strada, nei pressi della nursery della Organizzazione Nazionale per la Protezione delle Madri e dei Bambini. Anche in Basilicata i soggetti furono bambini, ma la rappresentazione più articolata recuperava una dimensione arcaica, preistorica, e l’evidenza di una autentica alterità: ogni scatto venne intitolato A Troglodyte Village. Il bianco e nero di Seymour si sovrappose alle parole di Levi per denunciare ciò che agli italiani stessi sembrava impressionante e inimmaginabile.1
Nel 1951, dopo Seymour, anche Cartier-Bresson giunse in Lucania per fotografare Aliano, Craco, Ferrandina, Matera, Metaponto, Pisticci, Rionero, Scanzano e Stigliano. Produsse un corpus di 26 fotografie conservate oggi nel Centro di documentazione “Rocco Scotellaro e la Basilicata del secondo dopoguerra” presso il Comune di Tricarico.2
Se Seymour era giunto nel Sud Italia per aver frequentato Levi a Parigi, Cartier-Bresson lo fece attraverso Manlio Rossi-Doria (Faeta 2006: 131-136), l’economista romano confinato in Basilicata nel 1940 che avrebbe poi fondato il Centro Ricerche Economico-Agrarie per il Mezzogiorno. Ma concretamente fu l’imprenditore piemontese Adriano Olivetti, giunto a Matera nel 1950, a invitare Cartier-Bresson a collaborare con la “Commissione per lo studio della città e dell’agro di Matera”, a cui aveva dato vita e che dal 1951 al 1952 elaborò analisi complete sulla città in previsione di interventi urbanistici per la popolazione sfollata dai Sassi.
In questo primo reportage fotografico, che si ascrive all’itinerario umano, professionale e artistico di Cartier-Bresson confluito nel volume del 1955 Les Européens, egli colse, con grande rispetto degli uomini e dei luoghi, il senso profondo di un cambiamento destinato a sopraffare la popolazione di Val d’Agri che già versava in dure condizioni di vita e quella della città di Matera che presto sarebbe stata stravolta dal Piano Sassi.3
Cartier-Bresson tornò in Lucania vent’anni dopo per ritrarre una realtà economica e sociale profondamente cambiata, anche per effetto dei nuovi insediamenti industriali nella valle del Basento, ove erano stati scoperti giacimenti di metano. Con la sua Leika scelse di raccontare non più uomini e case cristallizzati nella storia, ma “dighe e strade in costruzione, le nuove colture nel Metapontino, il contrasto tra vecchi e nuovi costumi, la mescolanza di miti pagani e tradizioni cristiane, la compresenza di strumenti di lavoro arcaici e più moderni elettrodomestici, nuove masse di giovani delusi nelle loro aspirazioni lavorative e pronti ad un rinnovato esodo emigratorio, sindacati deboli e partiti politici che erano solo ‘aggregati di famiglie e di clientele migranti’”.4
Lo sguardo esterno del fotografo cambiò dalla prima alla seconda incursione in Lucania, ove scorse le avvisaglie di un progresso inevitabile nonostante il difficile attecchimento. Diversamente, lo sguardo interno degli autori autoctoni ebbe cura di preservare la dimensione arcaico-rurale della realtà descritta in un processo di conservazione dell’antico, di archeologia dello sguardo che fece traslare, intatti, temi e figure del passato nell’immaginario della modernità. L’apporto visivo di questi fotografi si affiancò a una serie di studi avviati in chiave etnografica e che trovò nella riflessione di de Martino la sua principale espressione. Fu proprio de Martino a elaborare il modello di indagine antropologica alla base delle ricerche fotografiche italiane.
Nel 1948, anno del primo reportage dell’agenzia Magnum in Puglia e Basilicata, uscì, per la collana di studi religiosi, etnografici e psicologici di Einaudi diretta da Pavese, anche il volume Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo di de Martino. Il contatto diretto con i contadini del Sud e i problemi del Meridione lo portarono ad assumere, come centrale nella propria ricerca, la dimensione folklorico-religiosa della cultura rurale del Mezzogiorno. Fino a quel momento il Meridione aveva costituito un problema di coscienza per i politici, gli economisti e gli intellettuali italiani. De Martino spostò l’attenzione invece sulla cultura contadina intesa come peculiare concezione del mondo e collocata sullo sfondo di una società storicamente determinata. Oggetto delle investigazioni di de Martino furono: il complesso mitico-rituale della fascinazione in Lucania (Sud e magia, 1959); le persistenze del pianto funebre in Lucania (Morte e pianto rituale nel mondo antico, 1958); e il tarantismo pugliese (La terra del rimorso, 1961).
Nel suo primo viaggio in Lucania, nei villaggi collocati tra il Bradano e il Basento, tra l’Agri e il Sinni, de Martino fu affiancato dal fotografo Arturo Zavattini, figlio dello sceneggiatore Cesare, che nel 1952 realizzò a Tricarico una preziosa serie di 150 fotografie in bianco e nero, formato 6x6 con una Rolleiflex 757/f. 35 (Gallini e Faeta 1999: 10-21). Tra il 2015 e il 2016 l’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia ha ospitato nelle sale del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari una mostra antologica dedicata al lavoro di Zavattini, ideata e curata da Francesco Faeta e Giacomo Daniele Fragapane.
Queste fotografie inaugurarono il ricco repertorio prodotto sotto la guida esperta dell’etnologo e costituiranno il corpus più significativo della fotografia etnografica nazionale (Faeta 2006: 113). Altre seguiranno e si caratterizzeranno per il sapore di una vera immersione nella miseria ancestrale delle popolazioni locali, nei loro usi e costumi, tutti debitamente documentati fotograficamente. I soggetti erano i lavoratori della terra, lucani e pugliesi, la stasi dei luoghi della vita domestica e l’azione del lavoro e della vita aggregata. Zavattini veniva dall’ambiente del cinema, aveva iniziato sul set di Umberto D. (Vittorio De Sica, 1952) ma presto aveva appreso la lezione della fotografia realista di Paul Strand con il quale, in seguito, nel 1955, realizzerà il reportage Un paese. Del metodo del realismo americano Zavattini aveva acquisito la sobrietà, la capacità di compenetrarsi nelle questioni legate al mondo degli umili e del sottoproletariato agrario, l’esigenza di dare alla fotografia un criterio di investigazione scientifica della realtà. Dal punto di vista stilistico, sperimentò una fotografia analitica che – come quella di Cartier-Bresson – perseguisse il principio dell’immediatezza, nonostante fosse il frutto di un progetto scientificamente studiato.
Se la prima spedizione era stata una sperimentazione limitata nei mezzi, la seconda spedizione di de Martino nel mondo magico del Meridione venne sostenuta da una nutrita schiera di Enti sostenitori: l’Accademia di Santa Cecilia, la RAI, le case editrici Einaudi e Feltrinelli, la Società Enografica Italiana e il Centro del Teatro e dello Spettacolo Popolare istituzionalizzarono l’impresa che trovò molta attenzione anche da parte di gruppi e partiti politici, oltre che della stampa specializzata. Questa volta il focus della spedizione era la ricerca dei canti popolari attraverso la ricostruzione del ciclo della vita: “dalla culla alla bara” (questo doveva essere il tiolo di un progetto di de Martino e Pinna andato perduto).
Affiancavano l’etnologo Vittoria De Palma, in veste di mediatrice per le donne intervistate, il medico Mario Venturoli, l’etnomusicologo Diego Carpitella, gli psichiatri Giovanni Gervis e Michele Risso, in quanto i rituali di possessione delle tarantate erano ritenuti fenomeni di patologia psichiatrica; la documentazione fotografica questa volta fu affidata a Pinna che, assieme ad altri fotogiornalisti, aveva fondato, sul modello dell’agenzia Magnum, la cooperativa Fotografi Associati. È il caso di ricordare che Pinna, dopo la spedizione con de Martino, collaborerà con numerose testate giornalistiche e da Giulietta degli Spiriti (1865) in poi, diventerà il fotografo di fiducia di Federico Fellini.
Anche questa spedizione attraversava la Lucania e la Puglia delle tarantate e offriva a Pinna l’opportunità di sperimentare con il colore e con formati speciali come il panoramico. Nelle fotografie dei maghi lucani e delle tarantate pugliesi emergeva l’urgenza di compiere una spietata analisi sociale attraverso il medium ma anche la ricerca di uno stile personale. Si specializzò nella documentazione antropologica dei funerali. Di fronte ad un lamento funebre scelse di rappresentare l’avvenimento rispettando la sequenza temporale delle azioni e dando così al servizio un aspetto analitico e para-cinematografico. “Il carattere d’azione e dell’azione attiene alla serie, non più limitata a condensare tutto il senso dell’avvenimento in poche immagini, viene esaltato dalle inquadrature (dall’alto, dal basso, frontale, laterale, posteriore) e dagli spostamenti continui dell’operatore (prima del corteo funebre, dentro e dietro il corteo, tra gli spettatori del corteo)” (Pinna 1996: 303).
Questa pratica estetica implicava una immersione profondissima sul piano visuale nelle storie e negli ambienti fotografati e raggiunse la sua massima sintesi in una delle più folgoranti fotografie dedicata ad una prefica, La lamentatrice di Pisticci, una figura professionale che prestava la sua performance di disperazione in occasione dei riti funebri. L’immagine, che trova nei violenti contrasti del bianco e nero e in un voluto effetto mosso la formula per una sincronica rappresentazione della realtà, nella sua difficoltà tecnica rappresenta una sintesi visuale capace di restituire il forte simbolismo del rito. L’intensità è data da un movimento ascendente che parte da una base nitida e solida per irrompere nell’esplosione patetica della funzione estatica. Questa opera racchiude in sé la potenza distruttrice delle forze naturali, la morte e il dolore ma anche la rassegnazione morale stretta tra il processo di rappresentazione connaturato all’azione messa in scena e la ancestrale rassegnazione di una intera comunità fuori dalla storia.
Riguardo il tarantismo, la spedizione di de Martino (20 giugno-10 luglio 1959) era stata preceduta da una ricerca del 1958 sui canti del Gargano e da un pioneristico servizio fotografico commissionato nel 1955 dal quindicinale Cinema Nuovo a Chiara Samugheo, sull’onda di quell’interesse verso il Mezzogiorno di cui si è detto: un importante documento non solo ai fini della comprensione del territorio, ma anche del ruolo che la donna aveva, in quegli anni, nella comunità rurale pugliese. Nella sequenza delle tarantate sembrava, in anticipo sui tempi, già voler leggere, nel disperato scuotersi dei corpi femminili, il tentativo di liberarsi dai condizionamenti e dalle oppressioni dell’ambiente, nelle urla un grido di rivolta e di ribellione.
Pinna invece procedeva con meticolosità scientifica alla campionatura dei tarantati, della gente che partecipava alla cura dal morso della taranta attraverso musica, danze e riti. Anche in questo caso Pinna adottava uno schema para-cinematografico che si accompagnava ad un procedimento nuovo: la registrazione dei suoni. I corpi raffigurati nella folle danza, il morso, il veleno nei suoi scatti si fanno simboli di un dramma psichico costretto entro immagini primitive. Questo primitivismo dell’immagine contempla in sé natura e cultura per cui le fotografie di Pinna, rappresentando la forza di quella simbologia, rivelano che i riti, le pratiche magiche e religiose, le danze sono strumenti che consentono ad una cultura di preservarsi dalle minacce della storia. I reportage di Pinna in Basilicata e in Puglia sono importanti non solo per aver definito i criteri dell’inchiesta di comunità e per aver introdotto un metodo fotografico contaminato dalla ripresa cinematografica, ma soprattutto perchè radicalizzano quel processo di iconizzazione del Sud che, attraverso il metodo della “sequenza continua” e la tecnica para-cinematografica, presto ispirerà il cinema stesso.
L’immagine di un Meridione perennemente in deficit rispetto al Nord, superstizioso e retrogrado, appare dunque una forzatura rispetto ad una realtà più complessa che le immagini fotografiche riescono a restituirci: un universo di soggetti che reagiscono come possono ai soprusi e alle forze esterne, che si fanno scudo delle proprie tradizioni per salvare una dignità culturale che rappresenta un patrimonio storico-artistico da valorizzare.
2 Documentario etnografico e cinema antropologico
Come già de Martino aveva intuito nella costituzione di equipe multidisciplinari per le spedizioni, la ricerca necessitava sempre più di un respiro multimediale, di una dimensione visuale e sonora che venisse pure affiancata dai testi scritti in grado di conferire rigore scientifico allo studio. Il mezzo più adatto a questo scopo risultò il documentario etnografico perché capace di considerare le singole vicende in stretta relazione con le strutture sociali, i modi di produzione, i rapporti tra classi.
Se la fotografia aveva descritto ed emblematizzato il reale, la cinematografia scoprì i corpi in azione e usò quegli emblemi come forma di denuncia immediata e spettacolare. Il documentario etnografico (Perniola 2004) attraverso il lavoro di registi come Mingozzi, Luigi Di Gianni e Del Fra e con la consulenza di de Martino (Carpitella 1982; Guerra 2010; Gallini 1981), continuò a percorrere la via parallela a quella indicata dalla cultura ufficiale che ancora resisteva al fascino delle tarantolate e delle masciare, perseguendo l’obiettivo più alto di una analisi sociale che fosse efficace per raccontare le miserie del dopoguerra nel Sud Italia. Seguendo lo stesso metodo della straight photography, questi cineasti cercarono quel senso di sconfinamento verso il quale già si erano avventurati i fotoreporter, per cogliere le ragioni della confluenza di modelli arcaici trapiantati nel mondo moderno. Se la cultura ufficiale italiana marginalizzò questa parte così importante della ricerca novecentesca, fu il cinema documentario a farsi carico di affrontare, pur con alterni risultati e non sempre consapevolmente, il confronto tra “il pauroso mondo antico e il pauroso mondo moderno” (Bernardi 2002: 93). Entro quella che è stata considerata “la più incredibile esperienza sommersa della nostra cinematografia” (Guerra 2010: 154), con inclinazioni diverse, i registi si occuparono del sacro cui contribuirono a dare una profonda connotazione simbolica. I luoghi e i volti, di qui fino alle mistiche soluzioni rosselliniane, saranno segno di antiche e persistenti culture, residui di consapevolezza che l’energia vitale è l’altra faccia del dolore e della morte.
Per raccontare questi territori dell’anima si lavorò sullo spazio dell’inquadratura allargando i formati, si abbandonò il vecchio 1,66 per i nuovi più larghi 1,75 e 1,85 (simile al 16/9), si sperimentò la profondità di campo e si usò il plain air come spazio prismatico che moltiplicasse, per dirla con Zavattini padre, i piani del visibile.
Queste soluzioni tecniche rappresentarono la risposta a un’ideologia neo-meridionalista che era già affermata attraverso i cinegiornali LUCE ma che mirava a restituire l’immagine di un mondo contadino rielaborata “sulla base di una concezione trionfalistica, addomesticata e riverente nei confronti del potere” (Sciannameo 2006: 19). Provò a invertire questa tendenza Lizzani con il suo esordio Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949), documentario su testo di Mario Alicata, girato in 16 mm con il titolo Viaggio a Sud, ma distribuito con il titolo attuale solo nel 1964. Si trattava di un film che raccontava un’ampia inchiesta sull’Italia Meridionale da Crotone a Salerno, da Bari a Matera cui parteciparono politici, sindacalisti, intellettuali e artisti. Il film può essere considerato il primo di una lunga serie di lavori audiovisivi sul tema dello sviluppo economico di quegli anni che prosegue con le opere Italia 61 (primo documentario a raccontare i Sassi di Matera del 1961) di Jan Lenica e La Lucania di Levi (1962) di Massimo Mida Puccini e che aveva già innervato il cinema di finzione5 e le nuove inchieste televisive (sulla scuola e sulla casa in Italia, come quelle di Liliana Cavani; le visite istituzionali realizzate dalla Settimana INCOM o Sassi ’63 di Lino Miccichè). Questi lavori vanno tuttavia inquadrati entro un orizzonte più ampio che contempla anche l’affermarsi di un metodo di indagine del reale nuovo. Come si è detto, poiché in seguito alla diffusione dei lavori di de Martino si attestò una stretta collaborazione tra ricerca scientifica e impiego del mezzo filmico a suo sostegno, si può ragionevolmente mappare la produzione documentaria dell’epoca anche attraverso la categoria dell’indagine etnografica.
La produzione dei documentari etno-antropologici si compone di due fasi (Marano 2007). Una prima fase, che si concentra tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta è caratterizzata dalla consulenza scientifica dello stesso de Martino (che morì nel 1965), con una prevalenza di argomenti circoscritti entro il suo campo di interessi (tarantismo, feste e tradizioni popolari, lamenti funebri, riti magici). L’opera manifesto del metodo demartiniano può essere considerata Lamento funebre (1953) di Michele Gandin (Perniola 2004: 127-130; Blasco e Marzocchini 1994), già autore di un documentario etnografico sulla Lucania di Levi dal titolo Cristo non si è fermato a Eboli (1952), che doveva essere, nelle intenzioni dello stesso regista, la prima voce di “un’enciclopedia cinematografica” con intento didattico che tuttavia non fu mai realizzata per miopia istituzionale. Questa fase, che idealmente si apre e chiude con due lavori di Di Gianni: Magia lucana (1958) e La Madonna del Pollino (1971), comprende i lavori di Michele Gandin, Del Fra, Mingozzi (che insisterà sui temi demartiniani fino al 1978, anno del documentario Sud e magia), Mario Gallo, Libero Bizzarri, autori che intendevano conciliare le esigenze scientifiche con la passione civile. Una seconda fase, invece, riguarda il permanere dell’impronta demartiniana nei lavori successivi alla sua morte ed è incentrata, prevalentemente, sulle grandi feste religiose del Sud. Tuttavia entro questa fase potrebbero essere inclusi tutti quei lavori non direttamente influenzati dall’opera di de Martino, ma condizionati dalla diffusione di modelli culturali che trasformeranno i risultati dell’indagine etnografica in attraente stereotipo.
La spettacolarizzazione dei riti magici e delle tradizioni agro-pastorali rientra appieno in quella operazione di iconizzazione di cui si è detto a proposito dei fotoreportage e che riusciva a preservare la tradizione dall’oblio ben oltre i tentativi delle ricerche folkloriche delle autorevoli scuole meridionaliste.
Il primo degli autori che ha beneficiato della consulenza diretta di de Martino è stato Mingozzi, ricordato soprattutto per La taranta (1961), una video-inchiesta girata tra Nardò e Galatina sul fenomeno del tarantismo. Ha poi realizzato Sud e magia (1978), inchiesta in quattro puntate per la RAI che ripercorre le tappe della ricerca di de Martino venticinque anni dopo l’uscita del testo originale e Sulla terra del rimorso (1982), ancora sul tarantismo. Le sue opere (tra cui Li mali mestieri [1963], con i versi di Ignazio Buttitta e Col cuore fermo, Sicilia [1965] con il testo di Leonardo Sciascia) hanno spesso coinvolto autorevoli intellettuali italiani.
Ma è stato Di Gianni il più prolifico tra i documentaristi demartiniani (Carpitella 1982: 73). Il suo Magia lucana (1958), che torna su alcuni temi di Sud e magia e Morte e pianto rituale, e ne ripropone altri nuovi, insiste su riti magici della vita quotidiana dei contadini lucani: prediche contro il temporale, “fatture d’amore”, la “legatura”, il “battesimo delle sette fate”, l’invocazione al sole affinché aiuti il contadino nel suo duro lavoro e lo difenda dalla precarietà esistenziale. Premiato come miglior documentario alla Mostra del Cinema di Venezia del 1958, a dieci anni esatti dai reportage della Magnum, rappresenta un importante esercizio di risignificazione di oggetti e spazi che assumono, nel loro permanere, ogni volta una rilevanza nuova (Ferraro 2002: 55).
Come già aveva fatto Pinna nei suoi scatti (si veda La strega di Colobraro), Di Gianni grazie alla solennità e al rigore del suo stile di ripresa ha reso la magia personaggio delle sue opere: l’apparizione di forze soprannaturali, quasi pagane, si rivela epifania di un’identità radicata e profonda: le braccia al cielo del contadino, l’urlo della partoriente, le mani che accarezzano le pietre, i corpi epilettici sono figure di un Meridione che si cristallizza nella sua perpetua resistenza alla modernità. Sono queste le immagini che migrano nell’immaginario cinematografico della modernità (da Luchino Visconti a Pietro Germi, da Giuseppe Tornatore a Emanuele Crialese) conservando, al di là dello stereotipo, l’essenza di una tradizione che si è voluto preservare.
Di Gianni ha girato in Lucania (Nascita e morte nel Meridione, 1959; Frana in Lucania, 1960, La Madonna di Pierno, 1965), si è spostato in Puglia per il suo lavoro più cupo (Il male di San Donato, 1965), ma anche in Sardegna per le ricostruzioni del rituale melocoreutico per la cura dell’argia (tarantismo sardo) (Perniola 2004: 196-198).
Si potrebbero ancora ricordare Stendalì (1959) (Grasso 2006: 45-54), l’inchiesta di Cecilia Mangini realizzata a Martano sulle lamentazioni funebri, con il testo di Pasolini che rielabora una traduzione ottocentesca in grecanico salentino, o l’indagine di Del Fra La passione del grano, conosciuta anche come Il gioco della falce (1960), sul rituale violento dei contadini che durante la mietitura mettevano in scena la spoliazione del padrone, una sorta di primitiva tendenza al sovvertimento dell’ordine sociale. De Martino non solo approvò l’audacia dei film della Mangini e di Del Fra, ma con quest’ultimo collaborò alla stesura del testo e al montaggio.
Oltre 200 documentari etnografici sono stati girati dal 1950 al 1980, l’80% dei quali di argomento contadino e agro-pastorale. Alla loro uscita alcuni film ricevettero premi e riconoscimenti, ma la loro diffusione fu limitata ad un circuito ristretto di istituti di ricerca e convegni organizzati dalle Università. Ancora oggi questi film sono di difficile reperibilità o le copie in circolazione presentano un cattivo stato di conservazione. Benché confinati in un ruolo marginale dalle politiche culturali, hanno il merito di aver fissato nell’immaginario collettivo una idea di Sud che ha influenzato senza alcun dubbio non solo le produzioni audiovisive italiane e internazionali (si pensi alle commedie degli anni Sessanta e ai tanti film di mafia americani) ma un certo modo di vedere il Meridione che oggi, attraverso le pratiche della valorizzazione territoriale, sono diventate paradossalmente un punto di forza anche in termini economico-culturali: dalle sagre paesane alla produzione di spettacolo, il Mezzogiorno “vende” una immagine di sé magica e arcaica, non così distante da quella raccontata nelle spedizioni di de Martino e nei documentari etnografici.
Bibliografia
Bernardi, Sandro (2002). Il paesaggio nel cinema italiano. Venezia: Marsilio.
Blasco, Luciano e Alessandro Marzocchini (a cura di) (1994). Michele Gandin. Lo spettacolo della realtà. Roma: Bollettino dell’associazione italiana di cinematografia scientifica.
Carpitella, Diego (1982). “Film etnografico e mondo contadino in Italia”. In Cinema e mondo contadino. Due esperienze a confronto: Italia e Francia, a cura di Pepa Sparti, 69-77. Venezia: Marsilio.
Faeta, Francesco (2006). Fotografi e fotografie. Uno sguardo antropologico. Milano: Franco Angeli.
Ferraro, Domenico (a cura di) (2002). Tra magia e realtà. Il Meridione nell’opera cinematografica di Luigi Di Gianni. Roma: Squilibri.
Foucault, Michel (1973) [1971]. L’ordine del discorso. Torino: Einaudi.
Gallini, Chiara (1981). “Il documentario etnografico demartiniano”. La ricerca folklorica, 3: 23-31.
Gallini, Chiara e Francesco Faeta (a cura di) (1999). I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino. Torino: Bollati e Boringhieri.
Grasso, Mirko (2006). Stendalì. Canti e immagini della morte nella Grecìa salentina. Calimera: Kurumuny.
Guerra, Michele (2010). Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta, Roma: Bulzoni.
Marano, Francesco (2007). Il film etnografico in Italia. Bari: Edizioni di Pagina.
Mitchell, William John Thomas (1986). Iconology: Image, Text, Ideology, Chicago-London: University of Chicago Press.
Parigi, Stefania (2014). Neorealismo. Venezia: Marsilio.
Perniola, Ivelise (2004). Oltre il neorealismo. Documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra. Roma: Bulzoni.
Pinna, Giuseppe et al. (a cura di) (1996). Franco Pinna. Fotografie 1944-1977. Milano: Motta.
Russo, Antonella (2011). Storia culturale della fotografia italiana. Dal Neorealismo al Postmoderno. Torino: Einaudi.
Sciannameo, Gianluca (2006). Nelle Indie di quaggiù. Ernesto De Martino e il cinema etnografico. Bari: Palomar.
Strand, Paul (1955). Un paese. Torino: Einaudi 1955.
https://www.magnumphotos.com/newsroom/society/david-seymour-children-of-europe/.↩
La donazione è avvenuta nel 1985 tramite Rocco Mazzarone, per omaggiare il poeta lucano Rocco Scotellaro, che il fotografo aveva conosciuto nel suo primo viaggio in Basilicata. I 26 scatti sono stati recentemente esposti nella mostra fotografica “La Lucania di Henri Cartier-Bresson. 1951-1952, 1973” inaugurata a Torino il 18 maggio 2017 nell’ambito delle iniziative fuori Salone organizzate dalla Fondazione Matera-Basilicata 2019 per il XXX Salone Internazionale del Libro di Torino.↩
https://www.magnumphotos.com/arts-culture/henri-cartier-bresson-the-europeans/.↩
Le due sorelle (Mario Volpe, 1950), Viaggio in Italia (Roberto Rossellini, 1954), L’alfiere (Anton Giulio Majano, 1956), Nonna Sabella (Dino Risi, 1957), Il conte di Matera (Luigi Capuano, 1957), L’Italia non è un paese povero (Joris Ivens, 1960), I briganti italiani (Mario Camerini, 1960).↩