Fra i tanti percorsi proposti dalla 74a edizione della Mostra del cinema di Venezia, uno dei più interessanti ci guida nei territori della non-fiction. L'impressione è di procedere su due direttrici affiancate ma discoste: la non-fiction che tenta di mettere a fuoco il meglio possibile la realtà; e quella che si rassegna a un'inevitabile sfocatura nella sua rappresentazione.
Fra i cineasti che ambiscono alla gestione e al controllo assoluto dei materiali e dell'oggetto del racconto vi è Frederick Wiseman, che ci racconta in Ex Libris. The New York Public Library le persone e le professioni che rendono viva di racconti quella grande biblioteca. La stessa estensione dello sguardo (il film dura 197') testimonia della volontà di Wiseman di mettere a fuoco / sul fuoco il maggior numero di contenuti possibili. Per lunghi minuti ascoltiamo il direttore che, con i suoi colleghi, pare amministrare il sistema come meglio non si potrebbe. Le questioni da affrontare sono numerose, e grazie al montaggio di Wiseman diventano tutte appassionanti: quali libri comprare, considerato che anche la NYPL, come tutte le biblioteche, ha risorse limitate? Bestseller per accontentare il lettore medio a breve termine o libri più di nicchia che hanno minore circolazione ma maggiore durata? La discussione chiama in causa elementi di classe: la seconda opzione rischia di penalizzare chi non ha soldi per comprare i bestseller e conta sul prestito gratuito della biblioteca. La città di New York è scompartizzata, divisa in classi, etnie, quartieri, minoranze, corpi abili/disabili, ognuno con le proprie identità e conseguenti necessità culturali. È emblematico in questo senso come si affronta un altro problema comune alle biblioteche di tutto il mondo, ovvero la presenza di senzatetto. Il direttore sostiene con grande serenità e trasparenza che bisognerebbe rivedere nel complesso la relazione che la gente-con-il-tetto ha con l'homeless, considerato una persona la cui vicinanza va evitata. In biblioteca, dove le barriere invisibili spariscono, l'uomo-con-il-tetto entra in crisi. Gli strumenti della cultura, suggerisce il direttore, potrebbero intervenire anche su questo. Oltre a parlare, bisogna aggiungere, il direttore è molto bravo anche ad ascoltare le voci dei suoi collaboratori. Sia detto ironicamente: il messaggio o la morale dei film di Wiseman sono sempre quelli: parlare fa bene. Alla NYPL non si parla solo nelle riunioni, ma anche agli eventi frontali (presentazioni di libri o autori) che la biblioteca offre. Il film di Wiseman restituisce una serie di contenuti entusiasmanti, parole di conferenzieri, divulgatori, cantautori, poeti. “Sei un poeta politico?”, chiede l'intervistatore allo scrittore afro-americano Yusef Komunyakaa. “Io lavoro con le parole, e le parole sono politica”.
Ci spostiamo decisamente sul sentiero del fuori-fuoco con il documentario di Chris Smith Jim & Andy: the Great Beyond – the story of Jim Carrey & Andy Kaufman with a very special, contractually obligated mention of Tony Clifton, costruito a partire dalle riprese di backstage del miracoloso film di Milos Forman Man on the Moon (1997). Jim & Andy parla di come due personalità possano sfumare l'una dell'altra; parla di mimetismo e schizofrenia; parla della recitazione come arte della reincarnazione. I film interpretati da Jim Carrey, da Ace Ventura – L'acchiappanimali (Ace Ventura: Pet Detective, Tom Shadyac, 1994), a The Mask - Da zero a mito (The Mask, Chuck Russell, 1994), a The Truman Show (Peter Weir, 1998), costituiscono, afferma l'attore, una sorta di autobiografia: la sua determinazione, la sua volontà di mettersi una maschera per avere accesso alla fama si è sbriciolata di fronte alla constatazione della propria infelicità. Nel momento storico in cui Carrey è gravemente colpito da questa consapevolezza, si affaccia nella sua carriera la figura di un genio comico, Andy Kaufman. La comicità di Kaufman è misteriosa. Jim la descrive così: Andy è un bambino che stringe qualcosa fra le mani e dice: qui c'è qualcosa di magico, ma io non te lo mostro. Carrey vuole interpretare a tutti i costi il personaggio di Kaufman nel film di Forman. Nel corso di una pesante crisi esistenziale, Jim si appoggia dunque a Andy per trovare una via di fuga. Andy serve a Jim per riformattare la propria identità, al punto che dopo le riprese si ritrova a non sapere più cosa pensava prima – gusti, tendenze politiche... La sovrimpressione tra attore e personaggio (e tra due prorompenti personalità artistiche) produce una reincarnazione praticamente letterale, se è vero che anche i parenti più stretti di Kaufman si rivolgono a Jim come se fosse Andy. Il documentario di Chris Smith risulta a sua volta un oggetto narrativo non identificato, che restituisce la sfocatura fra i diversi strati che compongono la realtà: dov'è la verità di un film che racconta di un attore che confonde la fiction con la realtà il quale recita la parte di un attore (diviso in due personaggi) che a sua volta confonde la fiction con la realtà? Il gioco di specchi è perturbante, e fa risuonare corde attuali sulla costruzione dell'io e sul rapporto di conversione o osmosi tra identità mediale e identità sociale.
L'ultimo documentario su cui vogliamo concentrarci affronta in modo letterale la questione della sfocatura nel racconto di una vita. Caniba, di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor, è una non-fiction che espone la storia inquietante di uno studente giapponese che, a Parigi, ha ucciso e divorato una ragazza. Tutto il film sta in una lunga intervista con il cannibale e suo fratello. La macchina da presa di Caniba slitta inevitabilmente e per lungo tempo nel fuori fuoco. La sfocatura diventa dubbio sulla capacità di dominio della realtà da parte del materiale filmato. Dal punto di vista psichiatrico, il film restituisce molto bene l'ansia del cannibale di fronte al corpo femminile integro e intero. Anche quando il cannibale disegna e pubblica un manga con la propria storia, il corpo della sua vittima rimane sempre diviso fra le diverse vignette, grande, troppo grande rispetto al piccolo corpo dell'assassino. Il manga trasmette, in tutta la sua allucinante verità, mancanza di pentimento, e persino volontà di replica. Il racconto del cannibale del momento del delitto e successivi è frastornato, frammentario anch'esso, una rivisitazione guduriosa, per lui, soffocante da ascoltare, per lo spettatore. Più ancora che un ragionamento sul cannibalismo, il film sembra però essere una riflessione sul tema delle parafilie, sul rapporto tra normalità e anormalità. In ambito sessuale, fino a dove si può spingere il senso del gusto? Dove finisce il lecito, dove inizia il disdicevole, quando si arriva al criminale? Se inizialmente il documentario si concentra, con un lunghissimo primo piano, sul fratello deviante e criminale, progressivamente lo sguardo si sposta sul fratello “normale”. Scopriamo tuttavia che pratica un masochismo molto violento, infliggendo tagli al proprio corpo, mordendosi, divorandosi, in cerca del – così dice – “dolore perfetto”. La sua è una sessualità non genitale. Gode, in particolare, facendo soffrire il proprio braccio. Anche la pornografia che guarda (VHS dove le censure analogiche coprono, grattano e cancellano ancora una volta i corpi) ha a che fare con queste “passioni” – come Sade chiamava le parafilie. Nei filmini di famiglia che vengono mostrati nel film, i due fratelli, da bambini, appaiono sostanzialmente uguali. Li vediamo anche dal dottore, a torso nudo, in un home movie inconsueto. A parità di pulsioni, dunque, mossi da stimoli paragonabili, un fratello diventa un criminale e un caso psichiatrico, mentre l'altro riesce a evitare entrambe le cadute concentrando su di sé impulsi che non sono più distruttivi ma auto-distruttivi. La sua perversione è socialmente accettabile solo perché la dirige contro se stesso.