L’analogia tra cadavere e statua è fin abusata e si regge su un’evidente similarità di tratti qualificanti: la rigidità, l’immobilità, la consegna a un’unica espressione, sono elementi comuni al corpo pietrificato del morto e al corpo inanimato della scultura. Del resto, la considerazione della statua come “un cadavere stabile ed eretto che, stando in piedi, saluta da lontano i passanti” (Debray 1999: 24) rientra nella più vasta associazione tra immagine e morte, “antica quanto il potere figurativo stesso”, come ci ricorda Hans Belting (2011: 173). Se la funzione dell’immagine come sostituto vivente del morto, “non metafora in pietra dello scomparso ma metonimia reale, prolungamento sublimato, ma ancora fisico della sua carne” (Debray 1999: 25) appartiene certo a una visione primitiva in cui “figurare e trasfigurare sono [...] una cosa sola” (Debray 1999: 25),1 il legame tra immagine e morte è individuato ancor oggi come una delle radici profonde del fare artistico, tanto negli studi di antropologia visiva quanto in quelli di cultura visuale.2 Non solo quindi la genesi storica delle immagini, ma il gesto stesso della loro produzione – pur nella diversità delle forme assunte nel tempo – sembra rispondere alla compensazione di una mancanza: letterale ri-presentazione di un assente, tentativo di riempimento di un vuoto: quello definito dalla morte, innanzitutto. Le immagini, nel dar forma al reale e alle sue crepe, incappano sempre nella morte come inevitabile orizzonte di senso dell’esistenza umana, ma anche come trauma inassimilabile, i cui resti si ripresentano con insistenza con la loro richiesta di redenzione.
In questo quadro, perfino la considerazione apparentemente antitetica delle statue come “corpi vivi”, “così simili al vero da sembrare sul punto di parlare o di muoversi” (Freedberg 2009: 431)3 si lega in modo evidente al desiderio di superamento della morte, redenta attraverso l’animazione dell’inanimato.4
Tra le metafore con cui nel tempo si è costruita la nostra relazione con la morte – il sonno, il sogno, la notte, il viaggio…5 – quella della statua sembra il correlato sia della reificazione del corpo, del “cosificarsi” del cadavere – come una sorta di incarnazione pietrificata –, sia della cristallizzazione del ricordo: monumentum nel senso originario del monere – “far ricordare, ma anche pensare, ammonire, preannunciare” (Pinotti 2009: 28),6 a dire dei tanti fantasmi che animano la memoria –. La scultura sembra dunque completare quel processo di monumentalizzazione e “imbalsamazione” del corpo avviato con la maschera funebre che riproduce la statuarietà del viso del cadavere: calco dell’espressione immutabile del volto fissato nella morte, letterale impronta memoriale del corpo.7 Certo, secondo la ricostruzione di Didi-Huberman, la scultura sembra definirsi in contrapposizione al carattere inanimato dell’impronta, contro la sua “terribile esattezza” di puro ricalco, che “trascina la somiglianza verso la morte” (2009: 109):
Dinanzi all’oggetto ottenuto per impronta – “dal vivo”, come dice bene l’espressione comune –, tocchiamo una morte, laddove una certa idea di arte ci prometteva di vedere una vita, reinventata in una materia che lo scultore, così si dice, ha il dovere di “animare” (Didi-Huberman 2009: 112-113. Corsivo nell’originale).8
Se quindi la scultura è capace di essere “viva” – è una somiglianza che riproduce e ri-anima, una rappresentazione che sembra reale –, l’impronta non riesce a sfuggire alla morte a causa della sua aderenza eccessiva al referente: è un doppio troppo perfetto, spoglia più che immagine. Peraltro, come sottolinea lo stesso Didi-Huberman, su quello stesso processo di calco è possibile costruire un contatto salvifico, capace di presentificare l’inafferrabile: “Non vi è nulla di più facile – la metonimia lo impone – che attribuire all’inanimato dell’impronta il potere magico dell’animazione, con la quale è stato in contatto per un istante e da cui trae la sua stessa natura di impronta” (2009: 81. Corsivo nell’originale).
Il velo della Veronica o la Sindone sono tra gli esempi più noti di questa potenza dell’impronta, della capacità dell’immagine di far apparire la propria “scena originaria”, qualcosa di simile a quella che Benjamin individua come l’aura delle prime fotografie: la traccia (“l’alone”, “l’alito”) di un hic et nunc irripetibile (2012a: 231-235) o, ancora, nella sua definizione più nota, “l’apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina” (2012b: 21).
È proprio questa vicinanza fantasmatica che ritroviamo nelle immagini analogiche e che ne definisce, per certi versi, il rapporto strettissimo con la morte. È ancora da una “relazione fisica” con il proprio referente che si costituisce la fotografia, impronta e calco perfetto del reale, capace di una paradossale restituzione sensibile di un corpo presente-assente. La natura spettrale dei corpi immortalati nelle immagini fotografiche, unita all’arresto del tempo – l’istante fissato dallo scatto come una sospensione immodificabile, che blocca la vita in una forma compiuta, senza avvenire – concorre a definire un’esperienza in cui convivono restituzione e perdita, quasi la fotografia fosse la testimonianza congelata di una vitalità sfuggente.
La natura luttuosa delle immagini analogiche è stata ampiamente analizzata ed è forse uno dei temi centrali del dibattito teorico sulla fotografia, a partire dalle note considerazioni di Roland Barthes per cui la fotografia “è l’immagine viva di una cosa morta”, è quell’immagine che “volendo conservare la vita non fa che negarla” in forza di quella temporalità puntuale, il “ça-a-été”, che ne definisce il noema: non è solo il tempo congelato nell’immagine, ma il tempo trascorso tra la posa e lo sguardo sulla foto a definire in modo evidente la catastrofe di una perdita irreparabile: “quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto” (1980: 11), occultato dietro la “smania di ‘rendere vivo’” (1980: 33). Del resto anche Barthes ammette che la fotografia “ha qualcosa a che fare con la resurrezione” (1980: 83): è quella forza attrattiva che fa esistere l’immagine ai nostri occhi, “una animazione” (1980: 21. Corsivo nell’originale) che non è della foto, quanto di chi guarda ed è in grado di farla avvenire, di trasformarla in un ricordo.
Non possiamo qui ricostruire un dibattito che ha coinvolto buona parte dei teorici dell’immagine,9 è interessante però notare come nell’analisi della relazione tra fotografia e morte frequente sia il ricorso all’analogia con la statua e con il “farsi pietra” del corpo nelle immagini. Per Philippe Dubois la foto è “tanatografia”, una forma di sopravvivenza del tutto simile alla mummificazione, in cui la temporalità è “fissata nell’interminabile durata delle statue [...]. Penetra per sempre in un qualcosa come il”fuori tempo della morte" (1996: 156). L’arresto della continuità del tempo e del reale, l’interruzione del flusso della vita che si realizza con lo scatto fotografico definisce, per il teorico belga, una frattura radicale, simile “all’atto della medusazione”, per cui il corpo è paralizzato, impietrito per essere stato visto:
L’atto fotografico effettuando il taglio fa passare dall’altra parte: da un tempo evolutivo ad un tempo fisso, dall’istante alla perpetuazione, dal movimento all’immobilità, dal regno dei vivi al regno dei morti, dalla luce alle tenebre, dalla carne alla pietra. [...] di questo dunque si tratta in ogni fotografia: tagliare nel “vivo” per perpetuare il “morto”. Con un colpo di bisturi, decapitare il tempo prelevare l’istante e imbalsamarlo sotto (sopra) delle bende di pellicola trasparente [...] al fine di conservarlo e di preservarlo dalla propria perdita [...] Strapparlo alla fuga ininterrotta che lo avrebbe portato alla dissoluzione per pietrificarlo una volta per tutte nelle sue apparenze catturate (Dubois 1996: 157-158. Corsivo nell’originale).
Ancora una volta, il morto e la statua sono equivalenti: entrambi figure dell’inanimato e dell’arresto del tempo. Partiamo allora da qui, da questo corpo di pietra per eccellenza che è il cadavere, e da questo luogo così strettamente legato alla morte e alla sua possibile redenzione che è l’immagine fotografica.
Di seguito analizzeremo alcuni casi esemplari, tra fotografia, cinema e arti visive, che pongono alcune questioni sulla messa in scena della morte e del cadavere, ma anche sulla capacità delle immagini di istruirne il senso e una possibile comprensione. Si tratta di lavori dal dichiarato intento meta riflessivo, che sollevano interrogativi sullo statuto della visione e su alcune convenzioni figurative del corpo in lutto. Per lo più si tratta di opere contemporanee – installazioni, ready-made, film – che riconfigurano, riscrivono o rappresentano immagini che appartengono a uno stesso orizzonte temporale e geografico: la seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti. È questa l’epoca di prima grande diffusione della fotografia, in cui si avvia un processo di trasformazione nei modi di vedere dall’enorme portata epistemologica e sociale. È una svolta percettiva che corrisponde alle nuove forme dell’esperienza definite dalla modernità tecnologica, in una sorta di accordo estetico-cognitivo – o di “incorporazione mimetica”, come sostiene Benjamin10 – con il moltiplicarsi delle stimolazioni visive e nervose nelle società industrializzate. Fotografia e cinema hanno un ruolo essenziale in questa trasformazione non solo come parte e sintomo dell’esperienza moderna della perdita del sensibile, del frantumarsi dell’integrità percettiva e corporea, ma anche nel costruire una nuova relazione sensoriale con il mondo e con le stesse immagini.11
Anche il corpo è sottomesso a questa trasformazione: non solo è reso visibile nelle immagini, ma è pensato come immagine: l’uomo è così come appare, è consegnato al suo corpo, definito dalla posa, fissato in gesti di autorappresentazione che la fotografia sembra accogliere e rendere visibile, più che costruire.
Questo trionfo della superficie evidente, dell’apparenza come luogo di svelamento, trova proprio nel cadavere la figura di massima conferma: la salma ci consegna il senso originario di ciò che è un’immagine: essa non è più un corpo, ma solamente l’immagine di un corpo. Blanchot ha scritto pagine famosissime sulla questione: “il cadavere è la sua propria immagine”, quella di un corpo reso leggibile nella conquistata “somiglianza a se stesso”, quella “pura somiglianza” (1967: 225) che è l’appiglio per rendere ancora presente quel che non è più. Presente e assente nel contempo, il defunto non è più qui, sta per passare altrove, ma è ancora visibile come corpo, impresso in figura nella sua stessa carne.
Dal momento che la maggior parte delle opere che affronteremo sono contemporanee, il loro lavoro sul passato si configura di per sé come un atto di memoria e di restituzione, quando non di esplicita redenzione, replicando il gesto che è la cifra più evidente del rapporto complesso che lega il “qui ed ora” del nostro sguardo all’“è stato” delle immagini.
È nel desiderio di ri-animare il corpo, e insieme l’immagine, che troviamo il filo del nostro percorso.
1 Immortalare
Linda Fregni Nagler – un’artista visiva che ricostruisce, studia, e riconfigura le convenzioni iconografiche della fotografia vernacolare ottocentesca – ha presentato nel 2013, alla 55^ Biennale d’Arte di Venezia, The Hidden Mother, un’installazione che mostra parte della sua collezione di quasi mille fotografie – tintype, cabinet card, ferrotipi, stampe all’albumina che vanno dalla metà dell’Ottocento ai primi del Novecento – raccolte in circa sette anni di ricerche, dal 2006 al 2013.12 Tutte le foto presentano uno stesso soggetto, o meglio una stessa modalità di rappresentazione di uno stesso soggetto: bambini molto piccoli sorretti da figure nascoste, ma visibili.
Le foto erano composte in una lunga teca a due facce che esaltava la dimensione di reliquiario della raccolta. Si potrebbe discutere sul costituirsi dell’archivio stesso e delle collezioni come raccolta feticistica, come un piccolo sacrario consacrato al passato; in realtà non si tratta qui di un recupero filologico o di un accumulo inerte di immagini e documenti, quanto di un gesto, molto frequente nell’arte contemporanea, di ricerca e rilettura di materiali preesistenti, in cui l’atto di archiviazione è vicino all’idea foucaultiana di “archeologia del presente”: come ordine di una promessa, più che di una restituzione, come riorganizzazione di una materia vivente, ridefinita dal processo stesso di archiviazione (Doane 2002: 222).13 Quello che interessa all’artista è la presenza di un fantasma: cercare la nostra relazione con un modo di vedere, che è all’origine del nostro sguardo, ma che in parte non ci appartiene più. In questo caso una precisa convenzione iconografica, che resiste per quasi cento anni in forme tra le più varie, ma che ci appare oggi ribaltata rispetto alla sua funzione originaria: certo noi non vediamo o meglio non guardiamo quel che la foto mostrava indubitabilmente e senza turbamento ai suoi contemporanei, e cioè il bambino. Vediamo soprattutto il nascondimento esibito, questo trucco grossolano e naif dell’occultare la madre rendendola un fagotto, una sorta di mummia ingombrante, resa “sfondo” con l’ausilio di un tappeto o di una coperta dai bordi slabbrati.
Questa riduzione delle madri (o chi per esse) in tappezzeria, in corpi inanimati eppure presenti, era funzionale, in quella stagione in cui i tempi di posa erano lunghi e richiedevano l’assoluta immobilità del soggetto ripreso, a tener fermo il bambino, l’unico a dover essere immortalato. Le madri sostituiscono quindi l’apparecchio invisibile all’obbiettivo che manteneva eretto il soggetto nelle lunghe sedute di posa, quel “poggia-testa” che, secondo Barthes, reggendo “il corpo nel suo passaggio verso l’immobilità (...) era lo zoccolo della statua che io stavo per diventare, il busto della mia essenza immaginaria” (1980:15). Nelle Hidden Mother il dispositivo di immobilità è reso evidente, è letteralmente in scena, svelando l’atto su cui si costituisce l’immagine: il “farsi pietra” del corpo, che coinvolge qui non solo il bambino ritratto – fissato nella posa ieratica di questa stagione della fotografia, sottomesso a sua volta a un “processo di mummificazione” –, ma lo stesso “apparato” che deve consentire l’operazione d’arresto dell’immagine.
Anche l’ambigua qualità della fotografia, la paradossale presenza-assenza dei corpi catturati nell’immagine, trova qui una sorta di esplicitazione, come se quel nascondimento grossolano dichiarasse la condizione stessa dell’immagine fotografica: rivelare un’assenza proprio nel momento in cui la rende presente: “In the background we can make out the veiled shape of the mother, concealed and motionless, herself transformed into a mummy, as if practicing death, preparing to become a corpse” (Gioni 2023: 2).
All’origine di questo singolare sottogenere del ritratto fotografico c’è una funzione “funeraria”: le Hidden Mother possono essere considerate dei ritratti pre-post mortem, assai frequenti in un’epoca in cui la mortalità infantile era altissima e la possibilità di conservare un’immagine viva di un figlio rispondeva a un desiderio profondissimo di presenza, assegnando grande fiducia al potere di restituzione delle immagini. Si consideri che la memorial photography che si sviluppa negli Stati Uniti durante il XIX secolo riconosceva la morte come unica motivazione per conservare una persona in un’immagine. L’immagine fotografica non ha certo un valore magico di sostituzione e nuova incarnazione del corpo ma, come fissazione di una memoria, con la qualità di impronta della ripresa fotografica, sollecita il ricordo promuovendo una forma di “incarnazione interiore”, spostando – come sottolinea Belting – su un piano individuale, privato, affettivo e mentale, la pratica collettivo-figurativa del culto dei morti (2011: 221-225).
Nelle foto di The Hidden Mother, la forza di presentificazione è a tal punto riuscita da “non far vedere” quell’occultamento palese, quanto meno dal renderlo irrilevante. Semmai, come sottolinea Geoffrey Batchen, “The presence of a cloth-covered parent behind the child therefore signaled at least one important thing to any viewer: this child is still alive” (Batchen 2013: 4). Siamo di fronte a un nascondimento esibito, in una sorta di commedia dell’apparenza inapparente, o, secondo alcune interpretazioni femministe, della presenza in fondo neppure tanto fantasmatica del super-io materno.
La singolarità di questa forma di rappresentazione è tanto più evidente perché tradisce un canone dell’iconografia della madre col bambino: Theotokos, la santa madre che regge sulle ginocchia il pargol divino. Questa formula, se da un lato traduce visivamente uno dei miti fondativi della fotografia e del suo “inconscio” – il fantasma della madre su cui Barthes ha scritto pagine notissime, senza mai mostrarcene la foto – dall’altro dichiara quanto all’immagine fosse consegnata una possibilità di redenzione, tanto più forte in quella traccia “sensibile” della vita che è la fotografia.
Infine, ma forse in primo luogo, queste fotografie – come evidenzia Fregni Nagler nel volume che raccoglie l’intera collezione (2013: 9-16) – svelano l’atto fotografico come rapporto tra visibilità e nascondimento, un rapporto che è sempre il risultato di una visione, cioè di un modo di vedere, di una forma dello sguardo culturalmente definita. Sotto questo aspetto l’immagine fotografica, quasi fosse la forma dell’inconscio sociale, diviene la cifra di un modo comune di vedere, più ancora che l’impronta di una forma del vivere. The Hidden Mother individua un’iconografia seriale che è molto più di una semplice formula visiva; allineando le immagini, la raccolta svela uno “sguardo comune”, smascherandone l’apparenza: l’ordine culturale che dà forma ai nostri bisogni e che piega ai nostri desideri perfino l’evidenza realistica dell’immagine.
È quanto del resto fa la fotografia post mortem di epoca vittoriana con il suo nascondimento esibito della morte presentando il cadavere in forma vivente. Si tratta di immagini in cui vita e morte si intrecciano in modo esplicito, soprattutto là dove il cadavere del bambino viene mostrato in mezzo ai cari ancora viventi, la famiglia, ma più spesso i fratelli, a volte gemelli, in una evidente specularità di vita e morte nello stesso corpo.
Di queste immagini, su cui ci sono moltissimi studi,14 mi preme sottolineare la forza di attestazione di vita e la volontà di nascondimento del cadavere nel suo stesso corpo, vero e proprio corpo di pietra animato. La morte è aggirata in una messa in scena “vitale”, attraverso un gesto apparentemente opposto alla costrizione all’immobilità cui sono sottomessi i corpi vivi delle Hidden Mother, pur nella comune, paradossale, invisibilità di quello che abbiamo sotto gli occhi. Analogo è del resto il gesto di occultamento – tanto del morto quanto del vivo – che, ancora una volta, in entrambi i casi, chiama in causa il “farsi pietra” del corpo.
Come rileva Rosalind Krauss, la fotografia post mortem è un esempio della ricerca di visibilità dell’invisibile che connota la fotografia delle origini, il suo “sentimento di mistero”, la sua qualità di redenzione (1996: 16). Proprio su questa capacità di “dar vita alle ombre” è costruita una lunga sequenza che ricostruisce la seduta fotografica per immortalare il cadavere del bandito Jesse James, nel film di Andrew Dominik, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford, 2007). Siamo dentro una leggenda, il cui mito si è alimentato di immagini. L’assassinio avviene nel 1881 e il defunto è oggetto di diverse rappresentazioni, in cui centrale è la presenza di un “corpo vivo”: sia quello del bandito – immortalato nell’unica fotografia che gli dà un corpo e un volto –, sia quello dell’omicida, che mette in scena uno spettacolo teatrale che ricostruisce la dinamica dell’assassinio.
La sequenza dello scatto fotografico inizia con un arresto prolungato, imposto dalla tecnica fotografica del tempo tanto quanto in sintonia con la fissità cadaverica.
Legato a una tavola, sollevato in posizione eretta, disposto come se stesse riposando, il cadavere del bandito impone la sua stessa immobilità al coro dei testimoni che assiepano la camera ardente, accorsi per verificare la realtà della fine del bandito. Il movimento dei presenti, subito dopo la posa, produce un’animazione vitale e oltraggiosa, come un brusio indifferente, e sottolinea per contrasto l’immobilità statuaria del cadavere. Il fotografo, con una lunga tunica nera, sembra un prete, ed è il suo rito laico – cui gli astanti hanno assistito immobili, in rispettoso silenzio – che garantisce una nuova vita al cadavere. Come dichiara la voce narrante fuori campo, la fotografia di Jesse James circola: viene venduta per due dollari, esposta nelle vetrine, pubblicata sui magazine e animata allo stereoscopio insieme alle meraviglie esotiche delle Catacombe e del Taj Mahal, costruendo un nuovo percorso vitale che alimenta la fermentazione mitica della leggenda del bandito. La sequenza non è un omaggio o una citazione, ma un’attenta ricostruzione di una forma dello sguardo e del desiderio a cui risponde: dietro un bisogno molto antico di eternare le morti eroiche, riconosciamo le forme moderne di una spettacolarità da baraccone, preludio al culto delle immagini che seguirà nei decenni successivi. Il corpo di Jesse James adagiato su grandi blocchi di ghiaccio, preservato dalla decomposizione della materia, ha un suo doppio affascinante nell’immagine addomesticata della morte, riconoscibile almeno nel suo apparire. L’immagine sostiene la costruzione mitica del personaggio e l’attiva, alimentando la leggenda, ma anche mantenendone viva la forza, come fosse una reliquia; insieme impedisce la dissoluzione dell’identità prodotta dalla morte, conservando un’impronta “realissima”, di un corpo reso immortale, come di pietra.
Fuori dall’ordine leggendario delle figure mitiche, la dissoluzione dell’identità che riguarda il morto si trasferisce per contagio ai familiari e nello specifico alle vedove. Tra le forme figurative del lutto e della sua messa in scena si è persa una tradizione singolare e vitalissima tra il 1870 e il 1890, almeno negli Stati Uniti, quella delle cosiddette Grieving Widow: le vedove addolorate riprese in un gesto che ne fissa icasticamente lo stato, la condizione di perdita. Frequentissima era la pratica di realizzare delle carte de visite – quindi delle immagini destinate a circolare e a rendere pubblico il lutto – in cui il soggetto rappresentato non era necessariamente la vedova in questione, ma spesso una modella recante tutti i simboli del lutto (gli abiti scuri, le perle…). Proprio a partire da quella tradizione iconografica, Linda Fregni Nagler ha realizzato Unidentified Mourners (2008), un lavoro di ricostruzione che riproduce fedelmente le pose di quelle mortuary pictures, riconfigurandone però il significato, operando uno scarto estetico rispetto alla forma originale. Ad esempio, il gesto di coprirsi il volto che dichiara il dolore ma anche la perdita d’identità – in un evidente richiamo all’iconografia delle pie donne ai piedi della croce, o più banalmente di certa pantomima – non ha per noi lo stesso immediato valore simbolico, né la stessa funzione comunicativa. Oggi è impossibile comprendere quel gusto e quella cultura del dolore e del lutto. Fregni Nagler nella ricercata composizione simmetrica delle figure, con un raddoppiamento speculare dei corpi che costruisce come delle macchie di Rorschach, consegna all’osservatore il compito di dare un senso alle immagini. Come dichiara l’artista: “The onlooker is thus invited to decipher what he sees”. Ancora una volta, l’evidenza delle immagini fotografiche tradisce un enigma: la loro illeggibilità fuori dal contesto culturale che le sostiene. Non possiamo che riconoscere la nostra incapacità a comprendere fenomeni che pure appartengono a quella disciplina dello sguardo su cui si è costruito il nostro modo di vedere. Ri-animarne il senso è già un atto di restituzione.
2 Mettersi in viaggio
Ri-presentare, ri-animare i corpi, ma anche lo sguardo e le forme della visione, i modi attraverso cui vediamo e riconosciamo. L’immagine è sempre il deposito di molte memorie stratificate al suo interno che il tempo e le trasformazioni culturali rendono a volte illeggibili, in un’altra forma di estinzione e di morte.
Tra le immagini ricorrenti nella fotografia della seconda metà dell’Ottocento, sia in Europa sia negli Stati Uniti, ci sono le cosiddette Photo des rêves: fotografie di un sogno e di un desiderio, di solito incarnato dai moderni mezzi di trasporto: automobili, aerei, ma anche cavalli, a dire soprattutto di un desiderio di movimento che le immagini possono ancora solo evocare. L’animazione, il movimento, diverrà una delle forme specifiche della rappresentazione cinematografica della morte – l’ultimo viaggio – a partire anche qui da un’iconografia antichissima legata a riti religiosi. “Ridare vita” al cadavere può voler dire metterlo in viaggio, costruendo un movimento simbolico di cui i vivi (i sopravvissuti) si fanno carico. È quanto sostiene Ando Gilardi che interpreta in chiave funebre un motivo iconografico frequente nelle fotografie di studio che ritraggono orfani o vedove issati su piccole imbarcazioni, come in questa fotografia anonima della seconda metà dell’Ottocento:
Quello a sinistra è un orfano naturale: il padre morto di malattia è da poco seppellito. L’immagine, secondo l’uso del tempo, è celebrativa dell’evento. Comunica ai parenti molte cose: ormai è il ragazzo l’uomo di casa. Ramingherà per la madre attraverso il mare della vita. [...] A guardar bene non tiene il remo: il remo tiene lui fermo quanto basta per la posa fotografica. (La barca è il simbolo di una bara). La madre come la Morte accompagna implacabile il disgraziato verso i lidi della malinconia… (1981: 329).
Si può non essere d’accordo sull’interpretazione di questa fotografia, soprattutto con la lettura dell’imbarcazione come bara, considerando quanto anche questo sia un set e un genere molto diffuso e per niente legato al lutto. Ma certo nel caso specifico di questa foto si può pensare a una sorta di adattamento simbolico, di trasferimento di un altro significato, non del tutto estraneo o incoglibile. Del resto è la stessa immagine fotografica ad adattarsi a un modello figurativo precedente: la pittura d’illusione con tutto il suo carico di evidenza simbolica. Della fotografia e del suo potere di calco mimetico restano qui solo i corpi “reali” del ragazzo e della madre, immersi in una messa in scena, cioè in un campo di costruzione esibita della figura e del senso, che deve rendere comprensibile, forse a loro stessi, la loro condizione.
Il rianimare non riguarda qui il cadavere, ma l’idea del viaggio, metafora antichissima per dare forma all’esperienza della morte, per certi versi superata attraverso l’animazione del movimento.
Al viaggio è consegnato il corpo morente di William Blake, il protagonista di Dead Man (J. Jarmusch, 1995), un film sulla morte – come dichiara fin dal titolo – ma anche sul cinema e sulla sua qualità fantasmatica, sul suo potere di dar vita alle ombre e di sopravvivere alla fine. Il protagonista del film è una sorta di fantasma che si aggira in un paesaggio spettrale – siamo al confine tra Stati Uniti e Canada, nel 1870, in terre un tempo selvagge – guidato da un indiano che lo conduce alla scoperta di un mondo in via di estinzione. È l’indiano a depositarlo, ormai moribondo, in una piroga rivestita di rami di pino per l’ultimo viaggio che lo condurrà alla casa dei padri: il corpo di Blake è agghindato coi simboli del rito funebre, tra cui riconosciamo, come una presenza incongrua di “aggiornamento”, la foto incorniciata dell’indiano, compagno anche in questo viaggio finale. È dal fiume, in una sorta di visione appannata, che Blake vede l’amico morire, in uno scontro improvviso e imprevisto con un bandito da tempo sulle loro tracce.
La scena che si presenta di fronte a Blake è in tutto simile a un film western, con il duello tra l’indiano e il cowboy in campo lungo, a una giusta distanza che consente di vedere tutti gli elementi in azione. È la propria morte che il protagonista vede “sullo schermo”, di fronte a sé, forma e figura di qualcosa che gli appartiene. Proprio questa scena di morte in cui tutto è vitale e animato, salvo il corpo costretto nella piroga, dichiara la capacità del cinema di fondere ricordo e attesa, superando, grazie al movimento, la pietrificazione fotografica: le immagini cinematografiche non ci restituiscono solo i fantasmi del passato, i corpi di pietra di un eterno presente, il tempo del lutto e della nostalgia per quel che non è più – come nella fotografia –, ma ci consegnano l’esperienza della morte: il suo costituirsi come frattura nella durata, interruzione interna al movimento, dentro la vita e nell’orizzonte aperto del tempo, che spinge in avanti. Come la corrente inarrestabile di un fiume.
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Gilardi, Ando (1981). Storia sociale della fotografia. Milano: Feltrinelli.
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Macho, Thomas (1987). Todesmetaphern. Zur Logik der Grenzerfahrung. Frankfurt an Main: Suhrkamp.
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Pinotti, Andrea (2009). “Antitotalitarismo e antimonumentalità. Un’elettiva affinità.” In Memorie di pietra. I monumenti delle dittature, a cura di Gian Piero Piretto, 17-33. Milano: Raffaello Cortina Editore.
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Von Schlosser, Julius (1911). Geschichte der Porträtbildnerei in Wachs. Ein Versuch.
Sulla fin troppo facile equivalenza tra primitivo e magico e sul progressivo legarsi delle qualità “vitali” delle immagini alla somiglianza, più che a una dimensione magica, si veda Freedberg 2009.↩
Per una ricostruzione delle teorie dell’immagine cfr. Pinotti e Somaini 2016 e 2009.↩
Un’analisi degli esempi letterari e artistici di statue che si animano in Franzoni 2006.↩
Il bisogno di ritrovare il movimento della vita nelle sculture emerge perfino nella trama lessicale. Come evidenzia Claudio Franzoni, “è notevole che dei sette vocaboli che denotano la statua in greco, quattro siano di genere inanimato (bretas, xoanon, agalma, edos) e tre animato (kolossos, andrias, eikon)” (Franzoni 2006: 4).↩
Sulla costruzione di metafore come tramite per comprendere la morte cfr. Macho 1987.↩
Non consideriamo qui la scultura funeraria dall’esplicita finalità commemorativa.↩
Sulla maschera funebre si veda Von Schlosser 1911; Freedberg 2009; Didi-Huberman 2008.↩
È evidente che nella considerazione della qualità artistica delle immagini pesa un pregiudizio: l’estrema somiglianza e il naturalismo mimetico appaiono a lungo come un puro risultato meccanico privo di artisticità. È chiara la contrapposizione tra esattezza e bellezza. Su questi temi cfr. Freedberg 2009: 292-367.↩
Sul legame tra fotografia e morte si veda almeno Bazin 1999; Castel 1972; Sontag 1978; Barthes 1980; Dubois 1996.↩
Ci riferiamo al concetto benjaminiano di “innervazione” come forma di adattamento e di incorporazione della tecnologia. Si tratta di una sorta di facoltà mimetica, un modo di assimilazione capace di aprire una nuova dimensione percettiva dell’esperienza che non oppone più uomo e macchina, soggetto e tecnica. L’analisi benjaminiana delle nuove forme di percezione, in cui alla contemplazione si sostituisce una più ampia sollecitazione sensoriale, appare fondamentale nel cogliere una sorta di risposta fisiologica, antropologicamente fissata, al moltiplicarsi delle stimolazioni nervose nelle moderne società tecnologiche. Per la comprensione di quest’aspetto del pensiero di Benjamin e, in generale, del dibattito teorico sul costituirsi dell’esperienza moderna, rinviamo agli studi di Miriam Hansen, in buona parte raccolti nel suo ultimo volume (Hansen 2013).↩
Sul costituirsi di un nuovo regime scopico in sintonia con la nuova esperienza del moderno cfr. Crary 2013; Sorlin 2001; Casetti 2005.↩
The Hidden Mother era esposta nella sala curata da Cindy Sherman all’interno de Il Palazzo Enciclopedico della Biennale di Venezia del 2013. L’opera e l’intera raccolta, indivisibile, sono ora parte della collezione permanente del Nouveau Musée National de Monaco.↩
Sulla collezione come forma d’arte cfr. Grazioli 2012. Sull’archiviomania nell’arte contemporanea si veda Baldacci 2016.↩
Cfr. Burns e Burns 1990; Ruby 1995; Orlando 2013.↩