“Poi mi guardava che m’ero alzato per andare via e mi prendeva per una mano, mi tirava per farmi rimettere a sedere” (p. 30). Crediamo che il maggior rompicapo affrontato da Emidio Greco per trasporre in sceneggiatura e in film il racconto di Franco Lucentini (Notizie degli scavi, (1964). Milano: Feltrinelli, insieme con La porta, del 1947, e I compagni sconosciuti, 1950; ora, Scarpa, Domenico, a cura di. Scavi nelle notizie: 65-91, Oscar Mondadori, ivi 2001: 2011) consistesse in imperfetti siffatti, atipici, puntuali e non durativi, come invece risulta quello dello scioglimento: “Stavamo lì che ci stringevamo con queste mani che stavamo a piangere, che nemmeno sapevamo dove stavamo. / Stavamo stretti appoggiati a questo muraglione” (p. 60). Puntuali, nel senso che corrisponderebbero alla immediatezza del passato remoto (il ‘preterito epico’ studiato da Käte Hamburger come l’assoluto della narrazione; per tutto questo è sempre d’obbligo il riferimento a Weinrich Harald, (1964). Tempus. Besprochene und erzählte Welt, Stuttgart: Kohlhammer; tr. it. di M.P (1978). Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, La Valva, Bologna: Il Mulino.), ma esprimono l’oscura volontà, nel personaggio del Professore, di dilatarlo a suo modo, il tempo trascorso fattosi memoria, come a bloccarlo e a renderlo eterno, a portarlo sempre con sé. E s’intende, problema interno, per lo sceneggiatore-regista, alla parlata in prima persona del racconto letterario, affidata allo ‘strano’ personaggio; questione sempre complessa per il cinema, ch’è fatto d’immagini, azioni e reazioni significate dal montaggio: se non si voglia ricorrere a una ‘comoda’ voce fuori campo, artificio spesso ridondante cui Greco rinuncia del tutto, interessandogli il puro racconto filmico con la parola dentro l’azione. Donde, in Lucentini, le sistematiche sgrammaticature proprie di un antieroe, colui che viene chiamato appunto il Professore (garbata ironia? sfottò? implicito riconoscimento di misteriosa saggezza?), goffo e tecnicamente ritardato, che si sforza di farsi capire attraverso un’antilingua – come Eco definiva quella, tutta formule e clausole arcaizzanti, dei brogliacci di polizia – pure così comunicativa ed efficace. Con scelta radicale Greco intende tradurla in immagine, quell’antilingua, spostando per quanto possibile nel dialogato le riflessioni ‘private’ del personaggio e per il resto risolvendo in perspicua nettezza di procedimento espositivo – classica, quasi canonica – quanto nel testo d’origine è aggrovigliato resoconto inseparabile dallo stato mentale del personaggio ed esprimibile col forte realismo mimetico di un caos ben regolato.
La storia è tutta lì, nel racconto che, dopo le avvisaglie preparatorie del 1948-49, forse ardite per i tempi e certamente per lui stesso, Lucentini riprendeva e recava a compimento nel 1964. Intanto, Greco avrebbe dilatato di suo quel già lungo rimandare nel tempo, aprendosi verso un racconto appena pubblicato (me ne accennava, riaffiora il ricordo, in un’antica conversazione) al punto da cavarne una sceneggiatura per le selezioni di ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia; e finendo con l’immaginare quel cimento come l’opera di una vita sino all’esito attuale: aveva dunque ragione quando dichiarava che quest’ultimo film era per lui anche il primo. Per siffatto procedimento interiore è pressoché d’obbligo trasvolare al Kubrick che aveva ‘da sempre’ nel cuore la Traumnovelle di Schnitzler (una novella del sogno insieme ‘letterale’ e fantasticante, divenuta nelle correnti versioni italiane più imitativo Doppio sogno: ci limiteremo a ricordare quella autorevole di Capriolo, Paola (2002), Torino: Einaudi) e pensava di poterla finalmente comporre nell’estremo, incompiuto per eccesso, Eyes Wide Shut, licenziato al pubblico, per ovvia volontà di distribuzione e amicale intervento di Steven Spielberg, solo dopo la morte improvvisa dell’autore. Opere che ti porti dentro durante una vita: in Lucentini concludendo un’intera fase del suo lavorare, in Greco coronando una lunga fedeltà cui consacrare le intere risorse del ‘classico’ (un classico, va da sé, di straniato postmodernismo) dopo le altezzose solitudini, il solipsistico vagare in cerca dell’Altro e di se stesso, nel precedente L’uomo privato: Kubrick per Kubrick, sarà il caso di aggiungere come, vuoi per difficile ricerca di finanziamenti vuoi per interno meditare (la prima condizione consente e quasi ‘costringe’ all’altra), gl’intervalli di Greco tra due film s’assomigliano anch’essi ai tempi lunghi di quel grande, al netto della nevrosi da perfezionismo come singolare corollario del Genio, che vagamente accomunava per opposizione il nostro Stanley alla nevrosi ipercinetica dell’altro massimo ebreo newyorchese, quel Woody Allen che mentre gira un film ne pensa un altro. I tempi lunghi per necessità e virtù di Emidio Greco funzionano come modi soltanto suoi di costruire una drammaturgia del discorso filmico, per la quale gli avranno giovato i rapsodici cimenti del radiodramma coi suoi tratti singolari, formalmente negatori della visività propriamente rappresentativa ma così capaci di rendere a voce i classici della modernità: un gustoso pot-pourri che include Savinio e Feydeau, Mamet e il nostro amatissimo Hofmannsthal, di cui il creatore di un ardito L’uomo privato, con le sue anticomiche filmicissime scontrosità, ci ha ‘trasmesso’ la perfetta fra le commedie di seria conversazione, Der Schwierige-L’uomo difficile.
Non staremo qui a raccontare i dettagli di una storia ch’è per larghi tratti sovrapponibile in Lucentini e in Greco: mai trasposizione fu più fedele e pure, per ossimorica limpidissima virtù, più personale. Rileveremo semmai che l’onnipresente e straripante, sin dal fisico, Giuseppe Battiston, variamente capace di progressioni comiche o seriocomiche, nelle mani modellanti del nostro regista sbalordisce: dovremo essere grati a Greco per aver fermato la naturale estroversione dell’attore, a rischio-dispersione nella sua molteplicità, in un che di assoluto, di unico. C’è un vario girotondo femminile intorno alla maschile unicità del Professore (che sbrigando faccende da factotum di più che buona ancorché maldestra volontà, e anche per associazione col titolo italiano, Ragazzo tuttofare, ci fa venire in mente un gioiello di Jerry Lewis, The Bellboy, esordio nella regìa del 1960: dove il personaggio è muto, mentre in Lucentini ‘pensa’ raccontando e in Greco ‘parla’ dialogando, ma pressoché tacendosi a Villa Adriana), dentro una casa che sarebbe riduttivo e persino ingiusto bollare come pensione di eros prezzolato e illegale, dopo la chiusura imposta dalla legge Merlin all’ufficialità prostitutiva italiana (“Nella Roma umida e scalcagnata dei primi anni Sessanta il 'professore' è un giovane minorato che lavora come tuttofare in una pensione equivoca”: recita un retro di copertina sin troppo esplicito per un racconto così poco determinato nella sua fascinosa vaghezza), perché è gineceo e nido di calore: dove il Professore, nonostante le momentanee asprezze della Signora (per Greco, Iaia Forte s’è prestata a un ruolo d’intensità inversamente proporzionale alla durata), si sente a casa, e ansiosamente teme di perderlo, quel luogo di rifugio e di difesa, perché certi personaggi s’identificano psicofisicamente con una casa (vedi, per intrigante analogia, lo strepitoso Franzy “Gardener”, ma proprio giardiniere, in Being there di Hal Ashby dal romanzo di Jerzy Kosinski: un lapidario Esserci che diventa nell’edizione italiana un diversamente bello, perché più vago, Oltre il giardino. Dove il personaggio candido sino all’idiozia, che meravigliosamente si compie in Peter Sellers, può serrare una misteriosa saggezza imperscrutabile da se medesimo eppure in grado di raggiungere e penetrare gli altri come radiance; e se infine il giardiniere Giardiniere, segretamente destinato a grande futuro politico, cammina sull’acqua d’un tratto stupendo se stesso, davvero si può credere che siano beati i poveri di spirito, perché di essi è almeno il regno di questa terra, nella favola bella d’Utopia). La situazione perdura, in Lucentini e in Greco, almeno finché il Professore incontra la Marchesa, una ragazza già professionista in quella casa (dove i legami risultano liberamente contratti, revocabili o riallacciabili) e che s’era data a un amore di coppia femminile, poi abbandonata senza cattiveria dalla compagna, Lea (nel film Giorgia Salari), dispostasi a una coniugalità più rassicurante: come spiega dispiaciuta ma determinata al Professore incaricandolo di qualche necessaria consegna presso l’altra. Da quel piccolo mondo femminile e dal suo ordine consuetudinario (che attoricamente, con la Wanda di Francesca Fava, comprende la più intrecciosa Gina di Annapaola Vellaccio) si stacca appunto la Marchesa, una melanconica Ambra Angiolini già felicemente saggiata in Saturno contro da Ferzan Ozpetek: stesa in un letto d’ospedale per velleità di suicidio e visitata dapprima in affanno poi con goffa tenerezza dall’imbambolato bamboccione in ignara ricerca di educazione sentimentale.
E qui Greco interpone qualche distanza da Lucentini, il cui racconto è da considerarsi tra i più radiosi, nella scontrosa alterità irriducibile alle maniere ufficiali o alle mode, del secondo Novecento italiano: e felice chi, come noi, ha potuto e voluto conoscerlo solo dopo una ricezione filmica mediamente più ardua per un artista così coerente, diversamente coerente, verso una propria concezione di poetica (eravamo all’Arena Argentina di Catania, in prima serata, il mercoledì 7 settembre del 2011, frammisti a un pubblico meno folto e più mirato del solito: attento, in parte perplesso, come insidiato da tanta parsimonia di stilèmi spettacolari, infine turbato e forse conquistato da quella chiaroscurata armonia). Due chiavi diverse per disserrare la metodica chiusura in se stesso del racconto letterario. Per l’un verso, si pedina l’intero articolarsi di un inedito rapporto binario, uno stranitissimo delîre à deux tra la Marchesa e il Professore, ovvero un’ascensione, già corposamente concisa in Lucentini (dentro le pp. 59-61), alle vette sempre un po’ misteriose dell’Amore, che negli umani assume mille forme e qui e ora si affida a due solitudini in cerca reciproca; per l’altro verso, s’impone quell’elemento tematico-narrativo – figurativo solo allusivamente, per statuto stesso di letterarietà, e verbalizzato con alquanto frigida mimèsi in Lucentini – ch’è il motivo degli scavi, di quella Villa Adriana visitata dal Professore negl’intervalli vuoti del suo scortare un’agrodolce ‘donna di casa’, Gina, ai suoi professionali appuntamenti esterni, di cui recepiamo soltanto la puntuale organizzazione oraria. Le due linee s’intrecciano, convergendo nel solitario confronto finale fra la Marchesa e il Professore, che con climax forse inaspettata culmina in un pianto reciprocamente liberatorio, di bella evidenza patetica già nel racconto di Lucentini: “Si mise a piangere. / «Ma io voglio andare dove ti pare,» si mise a piangere. «Dove ti pare. Voglio andare dove ti pare. Dove voglio andare, io? Dove ti pare.» / Piangeva forte, appoggiata al muraglione. / Poi tirava la mano che gli stavo a tenere questa mano, mi faceva sentire che era tutta bagnata pure lei sulla faccia che era stata a piangere”. E poi i due capoversi riportati in apertura: “Stavamo lì […]”.
Come procede il film di Emidio Greco? ‘Approfitta’, logicamente, dell’aspetto durativo di quegli imperfetti, dinanzi a tanti altri che sanno, sostituendo i passati remoti, di arcaico e di favoloso, ricapitolazione memoriale di un mondo senza tempo, e rispondono alla confusività temporale di una mente disturbata. Spiega come nessuno una certa condizione mentale, ovvero quel nontempo psichico-psicotico, uno psichiatra davvero emerito quale Eugenio Borgna, che mescola sàpide e documentate aperture tra scientifiche e artistiche con postfreudiani casi clinici: «Nelle esperienze vissute di Liliana sono evidenti le modificazioni del tempo interiore che si accompagnano alle modificazioni dello spazio vissuto: distorta esperienza del tempo e distorta esperienza dello spazio si alternano, e si susseguono, senza discontinuità: in intrecci originali che solo la psicopatologia consente di intravvedere nella loro complicata significazione» (Borgna, Eugenio (2003). Le intermittenze del cuore, Milano: Feltrinelli, 166). Tale prospettiva può intraleggersi in una buona metà del racconto (IV, V, VI), attraverso lo speculare intersecarsi dei momenti di Villa Adriana, che a ritmo intermittente si riaffacciano, con gli altri ‘spazi-tempi’ che vi s’intrecciano: fino al cronòtopo assoluto dello scioglimento. Greco, di suo, cerca e consegue l’evidenza per più aspetti dilatata di uno scenico racconto d’immagini dove sciogliere l’arbitrarietà soggettivistica della pagina letteraria, la cui sgrammaticata ridondante ossessiva intermediazione, memoriale e linguistica, è il cuore stesso di un raccontare ‘autobiografico’ sia retoricamente, perché in prima persona, sia concettualmente, pertinendo a fatti vissuti, evocati come vissuti, dal personaggio-narratore. Con la secca cancellazione o la metonimica dialogizzazione di quella componente affabulatoria già affidata da Lucentini alla ‘garanzia’ di un raccontatore che sa tutto perché tutto suo è il racconto (così faceva, con robusta e tornita squadratura linguistica, Gustave Flaubert nei suoi Mémoirs d’un fou: se ne può vedere la versione a più voci curata da Ilaria Piperno, Memorie di un folle, Giulio Perrone Editore, Roma 2007), cambia in radice la prospettiva con cui guardare al protagonista: che nel film non è più un semiallucinato rimemoratore per le vie impervie di una lingua imitativa del di lui stato mentale epperò cognitivamente riduttiva (una trentina di termini, s’è detto) e, insieme, grammaticalmente immaginativa nel suo disordine sempre un po’ esaltato. E soccorre un’altra un’analogia kubrickiana, con Lolita: Humbert Humbert è rigorosamente personaggio, che racconta sì – attraverso quel tema della ricerca e uccisione di Quilty posto a incastonare il film – una storia in flash-back donde svettano due assi del recitare in inglese del calibro anche stilistico di James Mason e Peter Sellers, ma pressoché nulla condivide con l’ossessivo maniacalismo del suo parente romanzesco. In Nabokov si finge la ricomposizione letteraria, luccicante (ricordate la ‘luccicanza’ di Shining?) ed espressivistica, di un caso clinico: un pedofilo schizofrenicamente fuori da residui schemi di ragione, che ci lascia in cornice uno scritto-documento di rigida assolutezza psicotica (un italiano, o un austriaco, penserebbe subito, in chiave di saggia implacidita ironia, al terzo romanzo di Svevo, a Zeno e al dottor S.; e a noi torna in mente lo spettacolo teatrale di Luigi Squarzina nell’adattamento televisivo di Kezich-D’Anza e la regìa di un antico maestro, così legato ai nostri ricordi di televisionari in erba, quale Daniele D’Anza – Rai 1966, ancora in bianco e nero, oggi disponibile in una collana Fabbri –, con la capricciosa sornionerìa di Alberto Lionello e la felpata ironia con lampeggi luciferini di Ferruccio De Ceresa). In Kubrick è il resoconto tragicomigrottesco di un’ossessione d’amore che prende e consuma e travolge uno stimato intellettuale europeo in professionale trasferta americana, presto tradita, con la di lei madre, per indicibile passione di fanciulla: e sarà lecito illazionare che Kubrick volgesse tra le righe in dark comedy, col Nabokov sceneggiatore presunto, rivoli consistenti di un certo Thomas Mann, quello densissimamente brevilineo di Der Tod in Venedig, poi destinato per rivestimenti mahleriani e travestimenti bogardiani (non ironicamente ‘bogartiani’ alla Humphrey Bogart, ma stilizzatamente ‘bogardiani’ alla Dirk Bogarde) dentro i luministici disfatti struggimenti d’un Visconti.
Ma Emidio Greco è rimasto come sospeso in aria, di mezzo alle nostre (im)pertinenti divagazioni: riportiamolo finalmente tra noi. Rinunciando del tutto alla prima persona, e dunque alla voce off, in nome di un’apparentemente semplice ‘purovisibilità con parole’, l’artista nato pugliese, a Leporano cittadina del Tarantino, trapiantato a Torino e poi di romana dimora, riscatta di fatto il debordante Professore dalla sua stessa minorità, ormai sfondo controllabile per quel dominante primo piano in che consiste l’agire, più che il pensare, di lui: continua sì a parlare con goffa schiettezza e candide paure, ma passando attraverso il corpo-lingua battistoniano e nitidamente componendosi in immagine parlata sin dall’incipit della telefonata e dell’appuntamento con Lea (andrà qui segnalato, anche per i colorati calori di quell’interno dove prende vita un gruppo di famiglia, in parallelo tutto nostro con le luci di Pasqualino De Santis per Visconti, il lavoro in fotografia di Francesco Di Giacomo: luminoso, caldo, netto o sfumato, nitidamente en plein air o diafanicamente notturno). Il corpo del Professore: mostrarne e celebrarne l’ampiezza suggerisce bonomia e persino bontà nel suo placidume contagioso, agìto dall’attore-personaggio con una dismemore noncuranza che comunica abbandono, scioltezza, simpatia; e subito s’insinua per evidenza d’immagine (femminile) quella complicità della carne cui dedica un capitolo (24) della sua gaia scienza Umberto Galimberti (Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983, nuova edizione 2006). Per dire: in Lucentini il Professore è una sorta di ritardato mentale in quanto rimemoratore, narratore, affabulatore; è l’iperlinguistica antilingua della sua ricostruzione di eventi, infatti, a imporcelo come caso di psicopatologia sovraquotidiama. In Greco quel goffo tenerissimo parlare, che serba qualcosa di un festoso abbaiare, di un bamboccesco interloquire che lo familiarizza con le ‘donne di casa’ e, disarmandolo, lo protegge per compatimento o compartecipazione, di fatto (testualmente) rovescia un rapporto parola-azione così sbilanciato, nel racconto, verso la prima, abituando e come educando lo spettatore a convivere e simpatizzare con quello schivo ciccione onnipresente: è lui, a fare il film. Drammaturgicamente inscenata nello spazio, nel tempo, nella parola dal suo autore fattosi narratore tutto implicito, e non più narratologicamente ricostruita da un io narrante in perenne ‘soggettiva’, la vicenda del Professore e della Marchesa si compone dinanzi ai nostri occhi e orecchi, acquisendo una verità piena e credibile perché rigorosamente testuale; e chi filmicamente drammatizza non ha ragione alcuna d’ingannare lo spettatore, se non voglia farlo intenzionalmente col suggerire sogni, visioni, immaginazioni: e non è questo il caso. Possiamo esser certi, pertanto, che il nuovo sentimento allo stato nascente tra i due derelitti, così belli così dolci (Ambra lo è di suo, Battiston magari lo diventa: e molto i due devono a Greco, che vi ha creduto ed è stato ripagato), stia davvero accadendo mentre noi vi assistiamo, e che siano autentiche, concrete nella finzione filmica (il latino fictio trasvola ormai all’angloamericano fiction) quelle parole di timido – anche una giovane prostituta può essere timida e tenera, e timida tenerezza può suscitare – sorgivo neoamore che Lucentini ci ha donato e Greco, incorporandolo (il corpo di Gina, il corpo di Lea, in prospettiva il corpo stesso di Ambra, a imporre con insostituibile tornitezza sessuale e omosessuale la natura irresistibilmente femminile di Eros, almeno nell’immaginario postclassico, cristiano, germanico o romanzo, antico o moderno, credente o agnostico, che resta il nostro di occidentali: nell’ultima scena della sua duplice Lulu, Wedekind simboleggia incarnandola nella mano sanguinaria di Jack, che poi sarebbe il famigerato The Ripper, quella dell’Uomo che strappa alla Donna quanto possiede di assolutamente femminile, e ne risparmia la povera Geschwitz, che non è per lui minaccia avendo amato e amando, senz’essere amato amando – rovesciamo impietosamente Violetta e La traviata – come una donna e solo una donna può amare una donna), Greco – ripetiamo, incorporandolo – ha rispettato sino alle soglie di una pudica liricheggiante apologia, che rinnovella la Marchesa attraverso il suo volto già segnato dal dolore, morale ben più che fisico, poi in graduale rasserenamento, infine d’inedita sorridente letizia: “Si fermava a una vetrina che diceva articoli casalinghi, che dietro al vetro era scuro, e si guardava la faccia, s’aggiustava i capelli. Guardava nel vetro che la stavo a guardare e rideva. Guardava contenta che era carina. / «Tu,» disse, «adesso gli fai un bel sorriso a questa signorina. Sì?»” (p.61). Anche in Lucentini sono credibili queste parole, se è vero che la drastica abolizione dei congiuntivi, con gli in luogo di le, riempie da tempo il nostro quotidiano televisivo, giornalistico, conversativo, e persino si fa vezzo, pour être à la page, in qualche parlata narcisisticamente cerebrale. Ma si legga quanto segue, a sigillare il racconto: “Gli facevo questo sorriso in questo vetro, che dietro si vedeva la strada con quelli che passavano e poi più indietro dall’altra parte della strada, nello scuro del parco Tiburtino, s’incominciavano pure a vedere questi articoli dietro la rete della serranda abbassata, che parevano pure qui tutte tazze, bicchieri, altri pezzi che non si capiva, e in mezzo questi che pareva che eravamo noi che stavamo a guardare, ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era”. Qui si torna in pieno soggettivismo, esaltato da quella violenta sgrammaticalità che momento per momento, e in luoghi istituzionalmente forti come l’explicit, ci martella lo stato mentale del Professore. Può essere, s’intende, tutto veritiero, e persino più vero del vero, come forse solo un diverso sa essere per prepotere di umanità soffocata o celata. Può essere tutto o parzialmente inventato, come ipotizzabile per qualsivoglia raccontare in prima persona: se la sente qualcuno di assicurarci che Mattia Pascal dica tutta la verità raccontando la propria storia a cose finite, e finite più male che bene? E ancor più perspicuamente, per restare nel pluriprospettico immaginario pirandelliano: dinanzi alla lucida razionale follia di Serafino Gubbio, operatore cinematografico sedicente autore di quaderni (ma a questi possiamo credere perché, nella finzione di ogni opera rappresentativa, ci si offrono con materiale simbolismo come romanzo), il quale racconta la sua storia con freddo dolore e cruda saggezza da disincanto, dopo il trauma che l’ha reso muto e ha fruttato tesori alla Casa perché quegli ha filmato, eccezionalmente, una ‘storia vera’ carica di sangue (la Tigre pronta a sbranare dinanzi alla Macchina), come facciamo a sapere se quell’uomo ci dica tutta ma proprio tutta la verità? Sarà piuttosto la sua verità, ch’è ora quella di un allucinato paranoide: e al suo forbito italiano toscaneggiante, tirato a lucido e politamente sproloquiante, denso di quella clarté abbacinata propria degli stati di sovreccitazione, di euforia da melanconia, di esaltazione fissata (Binswanger, Ludwig. Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo, trad. it. di E. Filippini, Garzanti, Milano 1978 [Il Saggiatore, ivi 1964]; ediz. orig. Drei Formen Missglückten Daseins, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1956), potrebbe assimilarsi, per comparazione contrastiva, il semiromanesco soliloquio – termine pirandellista, se non pirandelliano – del Professore cui dà voce Lucentini; mentre la dizione profondo nord dell’udinese Battiston, nel cuore di un Friuli per noi e per sempre pasoliniano (s’è letto da qualche parte che originariamente Greco aveva pensato al siciliano messinese Leopoldo Trieste: e sarebbe stato tutt’altro affare, con quell’allampanato personaggio proveniente dai realfantasmagorici Vitelloni del precocissimo Fellini e dal ‘grottesco con brio’ Divorzio all’italiana del Germi ipernazionale, e poi dall’ilarotragedia del medesimo, Sedotta e abbandonata), qualora immaginosamente trasferibile al ricordare e affabulare del personaggio letterario, finirebbe con l’accentuare a dismisura, attraverso un pastiche paragaddiano (molisano è l’Ingravallo romanizzato dal Gran Lombardo: e Germi dovette rinunciare a tutto questo, per darci un capolavoro di prosciugata autonomia come Un maledetto imbroglio, che piacque, a denti stretti ma piacque, assai, al fustigatore Pasolini…), la diversità del Personaggio, che in Greco manifesta questo tratto di ulteriore alterità come in absentia, una volta cancellato il monologante soliloquio.
Tutto ciò significa che il nostro artista di cinema (regista non basta: idea e scrive, quasi sempre da solo, i propri film) ha inteso rimodulare – e non l’avesse fatto da sé, ci ha pensato per lui la sua opera – il personaggio di Lucentini sino a renderlo di Greco medesimo, ‘scritto da esso’. Nei modi della latina manumissio lo ha affrancato, riscattandolo da una dorata prigione iperletteraria – dov’era ‘ristretto’ a dire di sé: come autisticamente – a gran prezzo simbolico, etico, passionale, oltreletterario. L’operare di Greco serve essenzialmente a far vivere e crescere l’artista in un rapporto dialogico ch’è innanzitutto con le proprie interiori necessità, spesso svelate da un testo altrui, e solo dopo verso un pubblico disponibile a capirlo, se del caso amarlo. Pensiamo ai film più arditamente individuali dopo l’incipitario e archetipico L’invenzione di Morel (da Bioy Casares, 1974): da Ehrengard (Karen Blixen, 1982) a Milonga (1999) a L’uomo privato (2007), con particolare riguardo sperimentale, di là dai singoli esiti, per la ricerca ‘pura’, non mediata da fonti letterarie, di Un caso d’incoscienza, 1984-1989 (che non conosciamo), di Milonga, geniale e meraviglioso nella sua irrelata arbitrarietà associativa: il Greco s’era a suo modo premunito contro i colpi di fortuna – leggi: produzione, distribuzione, ricezione – affidandosi ai corpi suadenti e acclamati di Giancarlo Giannini, con quella sua voce un po’ sdegnosamente stilizzata che ha fatto rivivere lo Helmut Berger di Ludwig e vari grandissimi Pacino, da Carlito’s Way dell’altrettanto grande Brian De Palma a Il mercante di Venezia dell’assai meno grande, ma shakespeariano infine attendibile e piacevolmente figurativo, Michael Radford; e di Claudia Pandolfi, ch’è una bella e buona attrice portata dalla Radiotelevisione Italiana nelle case di tutti gli italiani (e magari lasciamo da parte il massimo Carlo Cecchi, che nella sua burbanzoserìa anche dizionale poteva solo recar danno alla tenuta media del film; geniale, anarcoide, iperespressivo, l’eccentrico scolaro, lui fiorentino!, di Eduardo inventa un suo pubblico come attore-regista-travestitore teatrale: al “Verga” di Catania fu capace di stupefarci, si fa per dire, con La serra di un Pinter senza aggettivi possibili, propinandoci un tirannello tosconapoletano di formidabile pertinentissimo istrionismo; e pareva il Bassolino d’antan, in certa enfasi dialettofona, compiaciuta e popolaresca in grado di sedurre con autentica gittata interclassista). Premunitosi il Greco quanto si voglia, risultò tutto vano perché Milonga circolò pochissimo, e nell’inverno del nostro (s)contento l’Emidio spiegava come qualmente, per usufruire di certi contributi, alla distribuzione convenisse non distribuirlo che per assaggi, quasi firme di presenza (anche questa dovevamo apprendere: una distribuzione che preferisce non distribuire…).
Sul piano del cinema ‘letterario’, che s’è visto quanto appartenere alle originarie stimmate d’autore, non occorrerebbe postillare che Greco condivide con Elio Petri il merito-primato di due film da Sciascia: Una storia semplice (1991), aiutato in sceneggiatura da Andrea Barbato (quanto ci manca, quel severo costume culturale e politico servito in salsa tutt’altro che piccante, anzi di semplice bonarietà: offertoci con un’actio di civile e rispettoso garbo umanistico?): ovvero l’estrema novella finita in punto di morte (1989), mirabilmente gestita in cinema da persone-personaggi come Ennio Fantastichini, Massimo Ghini, Omero Antonutti, Tony Sperandeo, con la superiore dominanza dell’ipersciasciano Gian Maria Volonté; e Il Consiglio d’Egitto (2002), un’antonomasia del Gran Racalmutese adattata col figlio Lorenzo Greco: cast così dovizioso sugli sfondi sensualmente arabeggianti del romanzo breve, da riuscire, in una coi siciliani e palermitani palagi o côté d’epoca, perfino barocco – perché gli attori seri accorrono, dov’è qualità: da Silvio Orlando a Renato Carpentieri, da Tommaso Ragno ad Antonio Catania a Leopoldo Trieste, fino alle misurate opulenze di Marine Delterme, a teatranti toti nostri come un risentito Pietro Montandon di lucido cranio e sferzante alterigia, con la sua aristocratica sprezzatura anche nell’ironia dell’ammiccamento triviale. Annoteremo quasi di soppiatto che sul Consiglio scrissi una pagina dove sintetizzavo il frutto di alcuni interventi conversativi sul film, presente Greco: almeno credo, perché quella pagina si giace sepolta da qualche parte, oggi introvabile (sì bella e perduta? Se non ci stracceremo le vesti noi, figurarsi un nostro eventuale lettore!); vi accennavo comunque a Tommaso Ragno, un avvocato Di Blasi il cui giacobino finalismo rivoluzionario non comporta l’ascesi, contemplando per fortuna il culto mentale e carnale (perché Eros non è solo intelletto e non è solo senso) del corpo-anima femminile; e v’insistevo soprattutto perché la sua dizione impostatissima, nazionalmente perfetta sino a un frigido effetto di straniamento, di mezzo a tanti di cui Greco accettava o chiedeva la sicilfonìa, m’induceva a leggere quell’effetto come – calcolato? circostanziale? Testuale, comunque – segno tangibile e simbolico di una tal quale estraneità, o meglio di una radicale alterità del bel sovversivo verso il contesto autentico della Sicilia cortigiana e contadina di maturo Settecento: la proverbiale, ormai da canone scolastico, astrattezza giacobina che un Vincenzo Cuoco, col sano empirico liberalismo calato nella vita quotidiana di tutti, finiva con l’appuntare senza rigori moralistici ai rivoluzionari della Repubblica Partenopea del 1799, e generalmente imputata ai generosi protagonisti di tante sfortunate spedizioni risorgimentali, dai Bandiera a Pisacane. La centralità di quel personaggio nel cuore di una poetica trova conferma in una semplice rilevazione: la sua ultima frase, rivolta al boia che dall’esecuzione caverà un personale beneficio, Pensa alla tua libertà, intitola un bel libro sul Cinema di Emidio Greco curato da due intellettuali della qualità di Franco Cordelli e Andrea Cortellessa (Falsopiano, Alessandria 2002): saggista e narratore l’uno (ricordiamo fra le cose meno lontane Il Duca di Mantova, Rizzoli 2004, romanzo in forma di pamphlet sulle tristizie berlusconiane – quelle fin lì conosciute, s’intende; e tra le più recenti La marea umana, Rizzoli 2010), stilettato critico teatrale del «Corriere della Sera»; docente universitario e critico letterario il Cortellessa, di cui ci è singolarmente cara una splendida, per concezione contenuti apparati, antologia della poesia italiana nella Prima guerra mondiale, Le notti chiare erano tutte un’alba, Bruno Mondadori, Milano 1998. Ricorderemo en passant che con Cordelli Greco curò un volume, Il mondo di Francesco Savio. Tutte le recensioni 1973-1976, Falsopiano 2002. Un discorso sul giacobinismo e sul socialismo risorgimentale, con al vertice il Carlo Pisacane della prassi politico-militare e del libro capitale La rivoluzione (ma su queste tematiche si raccomanda il volume coltissimamente curato da Franco Della Peruta, Scrittori politici dell’Ottocento. Tomo I: Giuseppe Mazzini e i democratici, Ricciardi, Milano-Napoli 1969, particolarmente ampio di testi e contesti, e non solo per Mazzini e Pisacane), sarebbe lungo, e qui non proprio in tema: diremo solo che se per un verso occorsero quegli eroi col loro sacrificio d’idee e di sangue (è il senso, anche, dell’apostolato mazziniano, come ci rammenta con la sua polittica ricostruzione, soprattutto di personaggi, Noi credevamo di Mario Martone, dal gran bel romanzo, veritiero e tristissimo, di Anna Banti), non meno vero è, per altro verso, che il termine giacobino s’è caricato nel tempo di significati impropri, sino a coincidere con fanatico, dogmatico, mangiapreti, poi pre-comunista e persino terrorista. E qui entra poco il Grande Terrore di un Maximilien Robespierre ovviamente da storicizzare ma perennemente odiato da conservatori, clericali, sanfedisti, reazionari anche d’alto bordo (ricordiamo una conferenza catanese di Piero Buscaroli sul beethoveniano Fidelio: il livore antigiacobino e antifrancese tracimava per ogni dove di tra le righe di una dottrina sterminata, che può toccarsi con mano nella dotta documentatissima biografia critica Beethoven, Rizzoli, Milano 2004 e 2010). Per rientrare strettamente in tema, il curioso che volesse saperne qualcosa, delle idee dello scrivente intorno a Volonté, a Petri, a Greco, coi buoni uffici di un Pirandello sempre caro a lui non meno che a Sciascia, potrà consultare Marta e Nietta. Genealogia di un eterno ritorno, che s’avvìa e dimora presso Una storia semplice altresì spigolando su quella di Greco, nei nostri Scenari del racconto. Mutazioni di scrittura nell’Ottonovecento (Sciascia, Salvatore (2000) Caltanissetta-Roma, 183-207: è la storica collana “Aretusa” già diretta da Leonardo).
Solo un amore profondo può indurre ad appropriarsi un figlio d’altri: se poi il figlio è di persona amata, o già amata, più ancora lo si ama. Greco ha molto amato quel Lucentini (non sappiamo se e quanto abbia amato l’altro, poi prevalente, in coppia con Carlo Fruttero), e la ‘prima maniera’ di un artista (una cosa tira l’altra: chi non ricorda il Pinturicchio tirato in fabula da Totò per lusingare il pittore d’insegne Giacomo Furia, con Peppino De Filippo che sornione precisava prima maniera? Speriamo di non offendere nessuno aggiungendo trattarsi di un ottimo Mastrocinque del 1956, La banda degli onesti), di là dal valore stesso che qui è alto davvero, serba il fascino di un già trascorso chiamato a testimoniare di sé, a farsi rimpiangere, in certi casi: così procedeva Henri Beyle detto Stendhal verso l’amatissimo Rossini, le cui altezze pressoché sovrumane, che portavano a un Barbiere di Siviglia nel buffocomico – Hegel, fingendo di stupirsi, confessava di preferirlo alle Nozze di Figaro mozartiane! –, a una Semiramide nel seriotragico (e il tutto, dall’Italia alla Francia, si sarebbe stagliato nella sommità ultimativa del Guillaume Tell), gli pareva avesse smarrito e forse perduto l’inarrivabile freschezza con sorgivo ardore di un Tancredi. Per la questione poi del rapporto col testo letterario d’origine, un attimo tornando a Nabokov ricorderemo che il nostro Vladimir ammirò senz’amarla la Lolita kubrickiana, rilevando e scrivendo – con un mixage d’intuizione illuminante e onestà morale esclusivo di certi Grandi – che quella era nel bene e nel male la Lolita di Stanley Kubrick, semplicemente diversa dalla sua. Orbene, il Professore di Emidio Greco è persona diversa, dentro la fedele letteralità della ripresa, dal proprio gemello letterario fecondamente bicoriale (di vistosa monocorialità sono gli Inseparabili, in originale Dead Ringers, nati sputati, ovvero Jeremy and Jeremy Irons – poi sonnacchioso pescelesso nel diligente compitino sul tema: Lolita, di Adrian Lyne – nelle mani di un David Cronenberg che allora, fino all’epocale apogeo di Crash dal massimo Ballard ma anche oltre, svettava nel visionarismo metamorfico. Analogia per analogia, un po’ fastidiosa perché insistita - come c’è un brechtiano effetto di straniamento, c’è un didattico effetto di ridondanza -, il parallelismo può funzionare. Kubrick rinunciava in radice all’asse stilistico del romanzo, a quella prosa ripiena, debordante e assaporabile, che propone scintillanti variazioni sul tema del fervore abbacinato tipico di un’esaltazione fissata: e lo faceva in nome di un’ironia, ora lieve ora oscura, da ‘principe dei narratori secchi’; corsiviamo la parola che per Montale peculiarizza un Mérimée: così giusta, che altrove l’abbiamo fagocitata disquisendo di Carmen, e dunque di Mérimée per Bizet). Ordunque, Greco riscrive mentalmente Lucentini, senza parole o con le sue stesse parole, per farne sceneggiatura: e il film prosciuga i già convulsi trascritti furori della prima persona romanzesca, o piuttosto novellistica, per conseguire una propria altera accattivante classicità; e saremmo per dire oggettività se non rischiassimo di evocare le erinni di quei già vocianti corifei del marxismo-leninismo, fors’anche ignari dello hegelismo che lo presupponeva, ora mutatisi in speculari furibondi detrattori. Quelle scelte di Greco piacerebbe definirle umanistiche perché moralmente e linguisticamente mirate al suo uomo-personaggio, così a lungo affidato al periodare felicemente mimetico di Lucentini, col proprio insegnare al proprio fantasioso Professore le cose da dire in un linguaggio tutto suo (e se per una volta azzardassimo una definizione coniata sul politically correct, come diversamente intelligente?). Ribadiamo che quanto raccontato dal Personaggio può essere frutto di un’allucinazione difensiva e compensativa; così certe pazienti di Freud ingannavano l’analista inventandosi inesistenti amori (paterni): e viene in mente la Susanna York del Freud di John Huston (1962). Questi aveva chiesto – nientemeno - a Sartre una sceneggiatura che parve talmente lunga e sui generis da salvarsi solo a tratti nel film compiuto (come Nabokov in Kubrick?), per non dire del montaggio ad hoc coi drastici tagli imposti dalla Produzione, e poi incrementati dalla distribuzione italiana (se l’imponente scénario sartriano può leggersi da Gallimard e da Einaudi, piacerebbe rivederlo, quel Freud ‘incarnato’ da Montgomery Clift). A voler essere precisi, infine, il pensiero di Eugenio Borgna che attraeva la nostra mirata attenzione potrebbe estendersi, con le dovute cautele, al Professore di Lucentini anche nell’argomentazione conclusiva (si parlava, ricordate, di distorta esperienza del tempo e distorta esperienza dello spazio): “La (distorta) esperienza del tempo è contrassegnata dall’essere-rigettati-indietro nel passato, dall’incenerirsi di ogni possibilità di progettazione, dall’arenarsi del tempo in un qui-e-ora che non ha alcuna altra scansione temporale, dalla fascinazione della ghiacciata immobilità del tempo vissuta come orizzonte che si colloca al di fuori, e al di là, di ogni tempo e di ogni spazio”. Immaginiamoci il povero Battiston abbandonato alla triste prospettiva… Ma Greco gli ha modellato una concreta possibilità di salvezza: perché non abbiamo ragione alcuna, qual si sia narrativa o drammaturgica, per dovere o potere dubitare di quel picaresco contento vagare, di quel guardarsi, di quell’abbracciarsi, di quello stringersi tra la Marchesa e il Professore. Di quel piangere a due. Si tratta di fatti direttamente testuali, risolti in piena linearità diegetica e in immediato ‘far vedere’ cioè rappresentare senza mediazione alcuna: nessun artificio suggeritore di simbolismi, nessuna alterazione di fuoco o prospettiva o punto di vista che faccia sospettare un ‘invito a diffidare’ o una dissimulazione deliberata a ingannare o a distrarre lo spettatore (torna sempre in mente l’esemplare spiegazione di Hitchcock a Truffaut, a proposito di Psycho, allorché si trattava di far ‘vedere’ ma soprattutto ‘sentire’ il Figlio e la Madre mentre lui la sposta dal suo letto per condurla nello scantinato dovendola intanto ‘convincere’ alla novità: con la mdp che gradualmente si colloca sempre più in alto senza che lo spettatore, distratto dalle parole, se ne insospettisca sino a intuire la ‘verità’. E possiamo testimoniare che così avvenne. Oggi, dopo innumerevoli variazioni e geniali travestimenti alla De Palma – sopra ogni altro, Dressed to kill-Vestito per uccidere – siamo tutti sin troppo smaliziati).
Ambra e Battiston, dunque. I due vengono inquadrati nella strada notturna da dietro, poi si girano intrecciati, si toccano, si abbracciano. Greco ha voluto la massima frontalità, rinunciando alla normale dialettica campo-controcampo onde unirli il più possibile, quei due (e questa è precisa scelta d’inquadratura e di montaggio, non revocabile in dubbio); ma insieme, ed è la nostra lettura, ha ricompreso nel suo terso proseggiare un’avvertenza tutta implicita epperò tutta estetica: che in nessun momento lo spettatore deve poter credere trattarsi di un pensare del personaggio e quindi di una (immagine) soggettiva. Così, li vuole sempre in campo e si limita conclusivamente, senza stacco, senza tagli di montaggio, in sequenza, a spostare la camera dai due come calorosa realtà psicofisica ai due gioiosamente rispecchiantisi nella vetrina: per esito di naturalismo, non già per artificio di formalismo, un po’ sgranati dal gioco di riflessi e di luci, forse di bagnato. L’effetto-visione, peraltro già presente nel racconto, non pertiene a una scelta di simbolismo fotocinegrafico teso a suggerire una particolare interpretazione che solo l’immagine possa generare (ad esempio, nel Vangelo secondo Matteo, l’intensissimo campo-controcampo e poi l’indicibile soggettiva di Maria che lascia il villaggio con Giuseppe dopo l’ordine dell’Angelo, perché Erode vuole uccidere il Bambino – donde una Strage degli Innocenti risolta da Pasolini senza parole, solo immagini urla musica, con poeticissima citazione di Ejzenštejn e Prokof’ev, Alexandr Nevskij –, sì da farci direttamente ricevere quanto ‘vede’ Maria, simulando anche il passo irregolare dell’asinello: tutto questo ci dice, senza parole, della quotidiana povertà forzatamente abbandonata, che diventa schietta e mitica felicità perduta). Ancora una volta Greco semplifica e oggettiva, risolvendo in consecutiva linearità d’inquadratura-movimento-inquadratura, sino a fermare la camera sull’immagine riflessa e lì chiudere, quanto in Lucentini è coerente contorcimento soggettivistico. Sarà bene riprendere per intero il passo finale, dal capoverso al punto conclusivo: “Gli facevo questo sorriso in questo vetro, che dietro si vedeva la strada con quelli che passavano e poi più indietro dall’altra parte della strada, nello scuro del parco Tiburtino, s’incominciavano pure a vedere questi articoli dietro la rete della serranda abbassata, che parevano pure qui tutte tazze, bicchieri, altri pezzi che non si capiva, e in mezzo questi che pareva che eravamo noi che stavamo a guardare, ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto questo che era”. Pensate: quante opportunità e allettamenti avrebbe potuto cavare Greco da tal copia di pensieri, retropensieri, rilevazioni, illazioni: e persino, quasi senza parere, domande radicali sull’esistenza (ma che poi chi lo sa chi eravamo). Forse troppo, dirà qualcuno. E invece, con senso innato del ‘realismo’ (chissà se piacerà, quest’antica parola che ci appassionò da ragazzi e da giovani universitari, allorché Carlo Muscetta col ‘suo’ De Sanctis ci faceva conoscere Auerbach e Lukács: e quindi Hegel, Marx ed Engels; mentre scoprivamo da noi che il marxista e prima di tutto artista Brecht costruiva una ben diversa concezione, più aperta e sperimentale, di realismo), Greco spazza via ogni retropensiero, ogni esca di allettante divagazione. Bastava, in fondo, portare in giro la mdp, popolarla di segni, oggetti, persone, spazi, di tutto il profilmico possibile e immaginabile: come già si faceva nella scena notturna in cui Battiston si trova, solo, a guardare gruppi di giovani, momenti conviviali, accenni di ballo, senza una parola personale e con suoni e voci attutiti. Ricordiamo che L’uomo privato, con fredda sapienza rappresentativa e tempi illanguiditi, staccati, raggelati, guidava il suo seducente ormai sconfitto Professore (professore-professore, accademico e studioso), Tommaso Ragno, in una stupefatta inesplicabile peregrinazione di vana ricerca, facendoci ‘guardare’ spazi, fino in interni domestici, come lontani, deserti (e vien voglia di piegare a quell’opera la bella formula, Lo splendore del nulla, che A. Sciacchitano dedicava al cinema di Emidio Greco: Scriptorium, Milano 2000): dove si direbbe imporsi la lezione rigorosa di Antonioni, con L’eclisse e la sua abbacinante sequenza finale costituita, dopo un appuntamento mancato a due, da segmenti di spazi vuoti, di fredde illuminazioni in una desolata ancorché moderna periferia romana. A tanta lezione di montaggio puro, pienamente risolto in stile – altro che i fin troppo celebrati piani-sequenza! –, si direbbe accompagnarsi (ma è un’idea che ci balzò imperiosa e già armata, l’erudito direbbe come Minerva dalla testa di Giove, alla prima visione del film) quella in apparenza più marginale di un’opera tanto meno nota e celebrata, Smog di Franco Rossi, del medesimo 1962, che «arriva a un finale sospeso, in una casa futuribile, che più antonioniano non si potrebbe»: parola di Paolo Mereghetti, e concordiamo davvero, noi che spesso e volentieri discordiamo (per Visconti, mica per Pinco Pallo: per Morte a Venezia, per L’innocente, addirittura per La terra trema, capolavoro asteristicamente scavalcato da Totò a colori o Totò, Peppino e la malafemmina: e passi, dinanzi a Sua Eccellenza il Principe de Curtis senza ignorare il sommo pappagone Peppino; ma perfino da Gli uomini preferiscono le bionde, ch’è sì di Howard Hawks e si fregia dell’irrestibile duo Monroe-Russel, ma via, non esageriamo!), e massimamente discordiamo per Emidio Greco: un solo asterisco, ovvero fallimento pressoché totale, per Milonga, irresponsabilmente definito cinema per nessuno; uno e mezzo per film di superiore ricchezza anche figurativa come Il Consiglio d’Egitto e il suo ‘gran finale’ oltre la fonte, con Stendhal e Il rosso e il nero, ovvero Julien Sorel ghigliottinato con Mathilde che ne contempla la morte e più attivamente se ne lascia prendere: perché in Greco l’acciaccatissimo per tortura ripetuta ma sempre statuario Tommaso Ragno, un bello fors’anche un po’ antipatico perché costantemente accigliato (ha in gran dispitto il mondo, lui, non già l’inferno cui i preti lo stanno seraficamente spedendo: o almeno, così danno a intendere), viene ‘guardato’ attraverso la tendina scostata d’una carrozza dalla bella e dolce, fiera e sposata, epperò comprensibilmente prudente, Marine Delterme. Se Greco innesta Stendhal, lo fa a ragion vedutissima, per contesto e per macrotesto: non diceva e praticava, lo stesso Sciascia, Stendhal for ever? (E giacché siamo in tema, o almeno nei dintorni, segnaliamo il miracolo; Mereghetti ha dato **½ a Notizie degli scavi: non succedeva dal 1974 di L’invenzione di Morel! Lode a Chi gli ha toccato il cuore). Per tornare agli ottimi Battiston e Ambra, piantati in asso dalle nostre picaresche peregrinazioni (Lazarillo o Buscón?), Greco rinuncia a possibili allettanti metonimie associative, nonostante le tentazioni della pagina letteraria, per darci l’assoluto rigore iconico dei due che come bambini godono a guardarsi: riflessi e per un attimo eterno contenti, estatici. Felici?
Ora si tranquillizzi il lettore benevolo, e certo un po’ desocupado (absit iniuria verbo: sappiamo di non essere Miguel de Cervantes) se ha inteso spingersi fin qui: non stiamo dimenticando quanto fa del film di Greco un testo definibile, come il racconto con relativa nota d’autore a p. 62, Notizie degli scavi; si è preferito darne conto così tardi non già per sottovalutare la dimensione figurativo-archeologica ma semmai per esaltarla. Già si accennava, in parallelo, alla possibilità del cinema di far vedere quanto la letteratura sa evocare per mezzo della parola o al più descrivere attraverso l’ècfrasi (ritorna l’exemplum del Vangelo, che vede una sceneggiatura molto elaborata e marcatamente letteraria – a Pasolini non mancavano strumenti, cognitivi e retorici, per lanciare segnali a Manzoni, Verga, Pascoli, d’Annunzio – sbocciare in un film sorgivamente antiletterario, citazionalmente figurativo e moralmente rosselliniano; dove la poesia, perché si tratta davvero di un cinema di poesia, non pòstula la parola, e tuttavia l’accoglie esaltandola – il groviglio dei discorsi di Gesù, col trionfo della Montagna – altrimenti la respinge emarginandola: l’intera stupefacente sequenza della Passione-Crocifissione, con lo stacco improvviso di Mozart sugli urli e schiamazzi d’un tratto ammutoliti, e quella Maria trapiantata dal Vangelo di Giovanni che si dibatte senza una parola, un udibile lamento). E s’intende che, per la sua parte, la letteratura può fare quel che solo la parola accorda: uno scavo interiore di altezza dostoevskijana, un indiretto libero arditamente assoluto, a restituire i dilemmi infiniti di una coscienza dinanzi all’Evento, epperò intraducibili come tali; pensiamo a I vecchi e i giovani, a quello scabroso Pirandello postderobertiano che riassume la macchina romantico-verista, perché ne ha bisogno, in un romanzo storico non ignaro di Manzoni – e che novità, per un manzoniano dichiarato e impenitente come lui; e pedina impietosamente le intermittenze del cuore, scortica viva la solitudine dell’anima (due titoli importanti di Eugenio Borgna), come quando deve investigare, penetrando nel pensiero di lui, l’anima in rivolta di Lando Laurentano, sconfitto nella sua leadership dentro l’insurrezionalismo dei Fasci abortito, fra tanti morti, sino a velleitario volontarismo; e tuttavia vocato, lui principe ribelle, a una volontà di potenza che deve trovare altri sbocchi: sconfitto il socialismo, la prospettiva (il Lukács di cui sopra docet) sarà forse il fascismo? Ma quella, diceva quel tal Moustache in Irma la dolce, è un’altra storia.
Nelle pagine di Lucentini il sistematico filtraggio della parola del Professore investiga e deforma e riaffabula lo stesso quadro iconico, Villa Adriana a Tivoli (dove Maurizio Scaparro ricompose, teatro nuovo dentro teatro eterno, le adrianee Memorie della Yourcenar), con le meraviglie che questo candidone viene scoprendo mentre ricolma di pedagogia estetica le ore vuote in attesa della Gina. L’artista di cinema propone a intervalli la sua rapsodia visiva, e con ampie arcate di visività, stavamo per dire di purovisibilità, cattura le supreme meraviglie della Villa di Adriano e per virtù di un montaggio (Bruno Sarandrea) più scandito che illanguidito le ‘racconta’ facendole ‘vedere’: la parola si ritrae, come pudica per inadeguatezza, dinanzi all’omnia dell’antica e romana architettura, riapparendo per cenni fugaci nell’inaspettato scambio verbale fra il Professore e la Guida, pronta a dar notizie e ragguagliare e infine un po’ interdetta dalla stranezza dell’Altro. Il cinema può far vedere la bellezza misteriosamente vivente (in Visconti-Mann non è forse uno scacco, per Aschenbach, che la Bellezza possa solo contemplarla già perfetta, lui che invano la cerca, ormai, attraverso una musica ‘difficile’ che, quasi sfidando il pubblico, al bello ha come rinunciato?), la può moltiplicare con l’arte del racconto, pedinandola e interrogandola, inquadrandola e montandola, catturandola e ridonandola. Ma qui occorreva un quid che, di là dal sàpido momentaneo siparietto fornito dal Personaggio, perseguisse e contrappuntasse l’immagine in movimento, aggiungendo bellezza a bellezza attraverso un’operazione che, in piena umiltà, piacerebbe definire di montaggio contemplativo. In casi del genere la parola non basta, o fatalmente tradisce: ce lo insegna da par suo il Lord Chandos di uno Hofmannsthal caro a Greco (e il Grande Austriaco perverrà dalle parti musicalissime di Richard Strauss); e non molto più avanti Pirandello, per proteggere il teatro dalla rischiosa invadenza del cinema ‘parlante’, avrebbe inventato le altezze afasiche, sapientemente musicalfigurative, di quella cinemelografia che un Chaplin ostile alla parola parlata realizzava di suo con le perfette meraviglie di City Lights-Luci della città.
Greco sa o presuppone tutto questo: la sua Villa Adriana si squaderna come bellezza letteralmente indescrivibile, proposta a quadri, stacchi, controcampi, ma pure movimenti, carrelli, panoramiche. Statue e colonnati, specchi d’acqua e musei, segni intatti e corpi mutilati, poderosi ensembles ed emblemi solitari. Basterebbe l’umiltà contemplativa, a fronte di tanto splendore: donde quel silenzio un po’ stranito che a lungo prende il Professore stordendolo coi suoi aloni sensistici e inducendolo a uno stato d’estasi senza precedenti, che lo sorprende e lo smaga, per la prima volta e per sempre conquistandolo sino a una consapevolezza che recupera notizia storica e dubbio metodico onde disserrare la porta d’un passato di cui decifrare, ove possibile, i segni di eloquente mistero. E ne parla, rientrando nella quotidianità, a una Marchesa che in apparenza non sa comprenderlo e mostra insofferenza per tanta volontà d’erudizione, non solo inaspettata in quel bambinone, in realtà sempre meno ingenuo e sempre più sentimentale (Schiller non ce ne vorrà se incorporiamo a modo nostro le sue categorie estetiche), ma forse un po’ irritante perché parrebbe ‘distrarre’ l’uomo portandolo altrove, laddove la donna mostra a passi graduali eppure costanti di volerlo per sé: e ancora non sappiamo fino a che punto. Può accadere così che Greco, col sensibile fidato Di Giacomo in fotografia, si appaghi del silenzio dinanzi a una bellezza che richiederebbe apertura spirituale, volontà d’abbandono. Pure, serve altro: perché la bellezza tecnicamente ‘riproducibile’, nel quadro iconico di un’inquadratura che può segregarla ma pure esaltarla con un proprio interiore dinamismo di montaggio, quel che perde per un riguardo deve acquistare per l’altro. Esiste infatti la bellezza moltiplicata: così un’eccelsa Passione settecentesca s’incornicia nel fasto ombreggiato di una chiesa barocca (magari nella catanesissima Via Crociferi, “corta ma infinitamente bella” secondo il brancatiano Bell’Antonio – e bellissima nella fotografia bianconerata di Armando Nannuzzi per un film bello senz’anima, drammaturgicamente irrisolto, di Mauro Bolognini su sceneggiatura, ahinoi inadeguata, di Pasolini –; via Crociferi che da Villa Cerami alla Chiesa di San Francesco è un’intera teoria di templi meravigliosi). Accade allora che non basti, al film, il policromo cangiante caracollare, dolce e melanconico, di Luis Bacalov col consueto soggiogante melodismo da fisarmonica (il maestro argentino accompagna Emidio Greco, dopo l’esordio moreliano con Nicola Piovani, sin dai tempi di Ehrengard); e il regista s’inventa una vetta mozartiana, il Concerto per pianoforte in Re minore K 466, nel suo secondo movimento, Romanze. «Si segnala che il K 466 era il concerto mozartiano prediletto da L. van Beethoven. Abbiamo notizia di una celebre esecuzione (31 marzo 1791), nella serata organizzata dalla vedova Mozart all’Hofburgtheater, nella quale Beethoven lo eseguì tra un atto e l’altro della Clemenza di Tito, arricchendolo con due cadenze da lui stesso composte» (Amedeo Poggi e Edgar Vallora, Mozart. Signori, il catalogo è questo!, Einaudi, Torino 1991: 2006, 502). Ascoltandolo adesso con la Philarmonia Orchestra diretta da Paul Freeman, Derek Han al piano (vedi Complete Works della Brilliant Classics), quel suono morbidamente solenne, presto ritornante in avvolgente iterazione, quel tornito calore che ti penetra e ti sfibra chiudendosi perfettamente in se stesso, quasi schivo nella propria controllata seduzione, tutto questo ci riporta (e sarà per sempre: come l’incipit di Also sprach Zarathustra, Strauss, per 2001: A Space Odissey, Kubrick) alla Villa Adriana di Emidio Greco, al Professore-Battiston che se ne pasce e appaga nelle sue puntate lavorative a Tivoli (lui che corteggiava soltanto pasticcini e caramelle, insensibile anche alle membra appetibili delle graziose compagne conviventi; e noi a pensare in sua vece: ma dài, approfittane…), intendendo poi socializzare con la Marchesa la propria esperienza d’eccezione. Ha raggiunto una condizione d’estasi, saltando per estetica ed estatica folgorazione le tappe infinite di un sapere cresciuto nei millenni. Ora, misteriosamente, il Professore sa, e vuol sapere con altri, con l’altra, con la nostra Ambra, che mostra impazienza e teme fughe incontrollate. Finché, scesi prima del tempo dal pullman con la volontà dichiarata d’andare al cinema, si vedranno quei due passeggiare così, con Ambra a scuotere e a richiamare Battiston martellando la propria totale disponibilità (Ma io voglio andare dove ti pare!). Lo slancio è maturo per abbracci, carezze, lacrime. Languore stupefatto e pianto liberatorio accomunano due creature derelitte prendendone l’anima, rendendole per radiante epifania l’una parte conseguente dell’altra. Chissà quante volte la Marchesa avrà pianto, anche solo per le ferite d’amore infertele da Lea, che pure ha avuto le sue sante ragioni a sistemarsi in un regolare rapporto di coppia: e non è crudelissimo sentirsi dire, per ambasceria di Professore, che non dovrà più cercarla, l’altra, perché tanto è inutile, non può cambiare?
Se il pianto della Marchesa non è nuovo, ma per nuova sensibilità acquista toni nuovi, il pianto del Professore sembra il primo del mondo, primordiale e fondativo. Conosciuta l’estasi della contemplazione estetica, che misticamente può giungere a un autentico excessus mentis; misteriosamente conquistata una donna che forse per la prima volta guarda a lui soltanto a lui, Battiston si consegna a un pianto liberatorio, trasmissibile, contagioso, ch’è risolutiva percezione di sé e pure sgomento, infra le gioie di un nuovo sentimento, dinanzi a un mistero di sospesa epifania. E qui occorre il Ciàula che cripticamente occhieggiava sin dalla nostra intitolazione:
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato. / Possibile? / Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. / Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. / Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? / Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. / Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! La Luna! / E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.
E tornano sempre importanti, pur nell’angolazione di lettura che tende a far coincidere il consolatorio con il mistificante, le parole di un libro primario di Roberto Alonge, che risale al 1972 ma io volli riproporre per aprire in modo molto speciale la collana “Oltre il giardino”. Sulla scorta di un libro celebre di Eliade, Mircea (1957). Trattato di storia delle religioni, tr. it., Torino: Einaudi; ricordiamo la versione di V. Vacca, Boringhieri, Torino 1976. Il Traité d’histoire des réligions fu pubblicato da Payot, Paris 1948), Alonge compone pagine acutamente rivelatrici per intendere, con quel pianto, una regressiva consolazione: ancorché la tenuta stilistica di una novella colma di patetismo ‘siciliano’ sia di quelle, a parer nostro, assolute (Pirandello. Tra realismo e mistificazione, Acireale-Roma: Bonanno, 2009, 27-30. Per Alonge e Pirandello, e per la stessa collana, è pensata la nostra premessa, Pirandello oltre il giardino, 9-18).
Con questo Professore-ragazzone, innocente come un bambino, cui la prossimità corporea e la conversazione di tante donne, ragazze non più ragazze, sembra non suscitare alcunché di erotico, di desiderante, la Marchesa si accompagna quasi costringendolo a farsi uomo, a piangere (e a ridere) in coppia con lei; ed esistono i pianti d’iniziazione come esistono quelli di metamorfosi: perché dovrà pure cambiare, l’irsuto e violento Zampanò felliniano (Anthony Quinn con la voce di Arnoldo Foà) che cerca disturbato la morta Gelsomina, infine abbandonandosi a un pianto sfrenato. La strada si chiudeva su quelle lacrime senza intreccio (toccato dalla Grazia, fatalmente mutato nell’anima, che farà mai Zampanò?), laddove Cabiria, novella portatrice di grazia, troverà modo di sorridere, da ultimo, a quella vita che l’ha crudelmente vilipesa. Nel film di Greco, che trasfigura un dato letterale del racconto, pianto e sorriso idealmente si rifondono in un unico momento di verità sentimentale, di spirituale appagamento lentamente preparato da quella interiore rivelazione che dentro il Professore viene folgorata dalla bellezza, immota nel tempo, di Villa Adriana. La duplice anàmnesi felliniana vale solo per noi, che stiamo qui a rileggere Greco fra le righe, nei recessi, e crediamo di trovare sostegni, se non pietre angolari, in altri film, in diversi personaggi: perché il modo di consegnarci l’immagine è in lui diretta, senza quelle rimarcature allegorizzanti che fanno di Fellini, di quel Fellini aiutato da Pasolini e di lui momentaneo formatore, il massimo regista cattolico (non importano qui gli eventuali convincimenti dell’uomo), più ancora che cristiano: la Madonna occupandovi un posto primario e, in immediata prospettiva (La dolce vita, 8½), la Chiesa insistendovi con figure ed emblemi atti a turbare il personaggio-sostituto, l’insostituibile Marcello Mastroianni fra crescente sordità verso i richiami provvidenziali e inquietudine interiore ch’è della vita come dell’arte. E questo è, per noi, il cristianissimo Regno della Terra. Ma non vogliamo far prediche, sempre fastidiose: né aveva tutti i torti don Rodrigo a prender cappello allorché padre Cristoforo gli veniva a fare ‘il predicatore in casa’ perorandogli la giusta causa di Lucia. La visione di Greco resta rigorosamente immanentistica: che non significa affatto estranea alla spiritualità, persino alla religiosità (qualcuno ha parlato di significato religioso dell’ateismo…), ma si chiude appunto nel cerchio compositivo dell’immagine, del quadro, della scena, lasciando che significhino per sé; e un sorriso può aprirsi alla speranza come circoscriversi alla propria momentaneità. Felici in quel supremo istante, la Marchesa e il Professore, lo sono filmicamente per sempre, resi eterni da quel sorridere successivo al piangere che, riflettendosi come già nel racconto letterario, letteralmente e simbolicamente si proietta nella materiale certezza dell’immagine cronotopica; e questo, solo il film poteva conseguirlo. Quel sorriso mescolato alle lacrime è felicità, istantaneamente fermata nella testuale fisicità del testo. Che accadrà dell’omino vagabondo dopo il sorriso finale verso la fioraia guarita dalla cecità (che per la prima volta lo ri-conosce nella sua cruda verità di povero diavolo, addirittura dileggiato dai ragazzini) di Luci della città? Non lo sappiamo, non dobbiamo saperlo, non vogliamo saperlo: sorriderà per sempre, intatto da una ideologica ‘prospettiva’, perché lì si compie il personaggio. Il sorriso rispecchiato in vetrina da quei corpi avvinghiati, da Emidio Greco che rispecchia in vetrina quei corpi avvinghiati, è immanente, assoluto, chapliniano. Per quanto ci riguarda, quei due resteranno insieme. Greco, saggiamente ludico, si concede e ci regala infine, a sigillare gioiosamente ‘in minore’ la sua opera, una chiusura da titoli di coda francamente inaspettata: un’assai seduttiva ‘amica ritrovata’, Ornella Vanoni, canta per lui e per noi Insieme, struggente canzone paratanghera composta con partecipe amore, a quattro mani, da Bacalov e, udite udite, da Greco medesimo, cui dobbiamo dunque sequele di parole siffattamente conquistatrici: “Non sarà facile per me / e non sarà facile neanche per te / e non dovremo più nasconderci / e non dovrai più nasconderti”. Non sarà un bel modo, questo, in un film che (momentaneamente, avevamo scritto: ormai – dobbiamo purtroppo correggere - definitivamente) è l’ultimo ma poteva essere il primo, di rievocare le origini, L’invenzione di Morel e le canzoni di Laura Betti?
Se il film Notizie degli scavi ha fatto crescere tanti pensieri e retropensieri coi suoi novanta minuti di durata canonica, o sono diventato invecchiando un inguaribile sognatore oppure è giusto quel film a far sognare con la propria formale e morale armonia. O m’inganno, o Greco ha fatto qualcosa che non aveva fatto prima: perché questa è la sua creatura più cercata, più pensata, più voluta. Il che non vorrebbe dir tutto, in termini puramente qualitativi. Ma è certo la più giovane, la più sorgiva. E chissà: la più felice.
Il film Notizie degli scavi (Italia 2010) è pubblicato in dvd da Movimento/Film, CG Home Video.