Il pensiero espresso da Sartre nella sua indagine fenomenologica sull’immagine, portata avanti in Immagine e coscienza nel 1940, a seguito dello studio di quattro anni precedente dal titolo L’immaginazione, si dimostra un contributo di particolare rilevanza a cui attingere e fare riferimento per lo studio delle immagini nuove o immagini tecniche, come le definisce Flusser, ovvero tutte le immagini fotografiche cinematografiche, televisive e video. Anche nei passi in avanti che ha condotto la riflessione sulle immagini nuove, la riflessione di Sartre ha mantenuto una sua centralità tanto da essere, ad esempio, omaggiato da Barthes all’apertura de La camera chiara – “In omaggio a Immagine e coscienza di Sartre” (1980: 1) – o divenendo uno dei perni della tesi di Augé espressa ne La guerra dei sogni.
Certo è vero, come osserva Deleuze, che Sartre – considerato dall’autore di L’immagine-movimento e L’immagine-tempo come suo “maestro” (2007: 96) – ha fatto “l’inventario e l’analisi di ogni specie di immagine ne L’Imaginaire” ma non ha citato mai “l’immagine cinematografica” (2000: 75); però, sebbene non contemplata l’immagine audiovisiva, ma presa in analisi solo, tra le nuove immagini, quella fotografica, la riflessione sartriana risulta dare un contributo importante per la comprensione sia delle specificità delle immagini tecniche sia di ciò che queste possono dar vita nello spettatore.
Converrà quindi indicare brevemente alcuni dei passaggi di rilievo presenti in Immagine e coscienza, i quali si dimostreranno utili per analizzare aspetti relativi alle nuove immagini e alle successive riflessioni che si sono sviluppate; e le riflessioni successive a quelle di Sartre, sulle quali ci concentreremo (soffermandoci prevalentemente su quelle sviluppate da Deleuze negli anni Ottanta) rimarranno circoscritte all’interno dell’area francese, area dalla quale, come scrivono Pinotti e Somaini, “provengono alcuni dei punti di riferimento teorici più importanti per gli studi di cultura visuale” (2016: 33).
1 Sartre, l’atto negativo e la coscienza percettiva
Sartre scrive che il termine “immagine” non può “designare che il rapporto tra coscienza e oggetto” (1948: 10), e in merito al lavoro condotto dalla coscienza quando ci troviamo dinnanzi ad un’immagine fisica, il filosofo francese osserva come si palesi “un’intenzione”, quella cioè di far apparire, dai segni che percepisco, “il viso di Pietro, per renderlo presente” (1948: 26). Ciò che produciamo davanti a una fotografia, scrive Sartre, è dunque “un atto”, questo perché “abbiamo in un certo modo coscienza di animare la fotografia di prestarle la sua vita per farne un'immagine” (1948: 37). C’è quindi da parte di colui che guarda una fotografia una specifica “intenzione” che si traduce nel compiere uno “sforzo” e nel produrre “una certa coscienza immaginativa” al fine di “rendere presente il viso di Pietro, che non è qui presente” (1948: 26) ma è rappresentato nell’immagine fotografica. Questo lavoro che compie lo spettatore dinnanzi ad un’immagine non è simile a quello che realizza quando si trova a che fare con un segno offerto, ad esempio, dalla parola scritta; per quest’ultima “la materia del segno è totalmente indifferente all’oggetto significato” e “l’origine del legame è la convenzione”, mentre “fra la materia dell’immagine fisica e l’oggetto di essa esiste una relazione di tutt’altro ordine: si somigliano” (1948: 32). I particolari segni che compongono l’immagine, sia che l’immagine sia classica che nuova, rimandano al rappresentato grazie alla somiglianza che li unisce. Ecco perché Sartre osserva come “la materia della nostra immagine, quando guardiamo un ritratto, non è solo quella combinazione di linee e colori” che la compone, “è, in realtà, una quasi-persona, con un quasi-viso, ecc.” (1948: 32). Ed è anche per questo che Sartre aggiunge come “il nostro atteggiamento verso l’oggetto dell’immagine potrebbe chiamarsi quasi-osservazione” (1948: 15).
Evidenzia inoltre due altri aspetti che particolarmente ci interessano. Sottolinea come nella visione dell’immagine prenda forma un “atto negativo”: ovvero quando ad esempio osservo il ritratto di Carlo VIII, la coscienza dello spettatore “per produrre l’oggetto in immagine «Carlo VIII» deve poter negare la realtà del quadro” (1948: 270). A questo aspetto Sartre ne aggiunge un altro di particolare importanza quando ricorda una propria esperienza: “al museo di Rouen (…) mi è successo di prendere per uomini vivi le figure di un immenso quadro” (1948: 32); in quel breve lasso di tempo in cui visse l’illusione di ritenere presenti e reali gli uomini raffigurati nel quadro, il filosofo, come scrive, ha “avuto una coscienza percettiva, anziché immaginativa” (1948: 32). Questa esperienza si dimostra alquanto interessante perché evidenzia come sia vero da un lato che “la condizione essenziale perché una coscienza possa formare immagini” è che “essa abbia la possibilità di porre una”tesi" di irrealtà" (1948: 269), di negazione, ma è anche vero che certe immagini somiglianti al reale, mettono in gioco particolarmente la coscienza percettiva e meno quella immaginativa, perché rendono meno necessario l’intento di animare l’immagine, di rendere presente ciò che è rappresentato, di negare la realtà della struttura fisica, o il mezzo trasmissivo o ospitante (2013: 39), riprendendo Belting. In particolar modo quest’ultima dinamica si verifica più facilmente con la nuova immagine, la quale, a differenza dell’immagine classica, offre quella che possiamo definire, recuperando il concetto di quasi-realtà di Sartre, una meno-quasi e più-realtà, soprattutto nel caso dell’immagine audiovisiva – “il referente aderisce” (1980: 8), scrive Barthes ed è per questo che evidenzia come si possa parlare di “risveglio dell’intrattabile realtà” (1980: 119) per la fotografia, risveglio che non può che accentuarsi con l’immagine audiovisiva –. Questo induce a trasformare la quasi-osservazione degli eventi che la nuova immagine rappresenta in una meno-quasi e più-osservazione di quel dato che appare animato e presente dinnanzi a noi; grazie infatti alle qualità delle nuove immagini, abbiamo l’illusione di “percepire direttamente gli oggetti della realtà che vi si rappresentano” e di “credere” di percepirli direttamente; si pesi al fenomeno della croyance, che Sartre contempla quando scrive che “questo oggetto non c’è e lo sappiamo”, “è posto come assente” ma, cosa importante, “l'impressione è presente” e “la causa dell'illusione persiste: il quadro, fatta somiglianza di una persona umana, opera su di me come potrebbe fare un uomo, qualunque sia, d'altronde, atteggiamento di coscienza assunto da me di fronte a lui”(1948: 29). Così, se già un’immagine classica non impedisce casi in cui reagiamo “all’immagine come se l’oggetto di essa fosse presente, in faccia a noi” (1948: 21), questo fenomeno non potrà che accentuarsi con le nuove immagini.
Certo è vero che, come osserva Didi-Huberman, “guardare l’immagine credendo di percepire direttamente gli oggetti della realtà che vi si rappresentano – e che addirittura, nel caso fotografico, vi sono registrati – significherebbe ad esempio provare ad aggirare la coltre di fumo”, presente in una foto, “per ‘andare a vedere quel che sta là dietro’”, questa, aggiunge, è una azione “assurda e impossibile: non è così che bisogna guardare un’immagine” (2005: 145). Quello descritto da Didi-Huberman infatti non è la prassi corretta di fruizione delle immagini, perché in questo modo noi pensiamo di vedere donchisciottescamente la realtà, e non la quasi-realtà presente in immagine. Però con le nuove immagini, e soprattutto quelle audiovisive, l’illusione è così intensa che non andiamo a vedere al di là della coltre di fumo, certo, ma essendo dinnanzi a una meno-quasi e più-realtà qualcosa del nostro spirito donchisciottesco – un insieme di homo ludens e homo demens (riprendendo le espressioni usate da Huizinga e Morin) che dialogano con il nostro essere sapiens – viene risvegliato, per illuderci di poter vedere al di là della coltre di fumo, perché riteniamo e vogliamo credere che il dato rappresentato sia presente. Lo stesso Sartre evidenzia come quel “legame posto fra immagine ed oggetto” sia “un legame di emanazione”, mediante il quale il referente reale si realizza “si incarna, si cala nell'immagine. È quel che spiega l'atteggiamento dei primitivi di fronte ai loro ritratti”; e, aggiunge, che questa illusione propria del lato demens non riguarda “un tipo di pensiero oggi scomparso” (1948: 35), semmai interessa una forma di pensiero che continua a persistere.
In questo modo, quando siamo dinnanzi alle immagini audiovisive, la nostra coscienza immaginativa dialoga maggiormente con quella percettiva, la quale, quest’ultima è particolarmente sollecitata a interagire con qualcosa che appare presente, animata, e lo sforzo e le intenzioni della coscienza immaginativa possono risultare minori perché l’esito a cui si vuole giungere è già in parte realizzato in partenza.
Cosa comporta tutto ciò? Possiamo dire innanzitutto che tutto questo genera una particolare onda – riprendendo l’immagine metaforica usata da McLuhan e poi da Virilio – che trasporta con particolare forza lo spettatore nella realtà proposta e, a volte, rende la coscienza del pubblico meno attiva ma più passiva, ponendola in uno stato di impotenza.
“Perché una coscienza possa formare immagini”, scrive Sartre, “è necessario che sfugga al mondo per la sua stessa natura, che possa trarre da sé una posizione di rinculo rispetto al mondo. In una parola, bisogna che sia libera” (1948: 271). Ma è sempre libera la coscienza di uno spettatore delle immagini audiovisive? O è fin troppo assorbito dalla realtà animata, presente dinnanzi a lui?
2 Deleuze, l’impotenza e la coscienza libera dello spettatore
Augè, che recupera il pensiero di Sartre per evidenziare aspetti riguardanti ciò che realizza l’immagine audiovisiva, sottolinea come le nuove immagini generino una finzione “di cui ci si può chiedere se non abbia anch’essa cambiato natura o statuto a partire dal momento in cui non sembra più costituire un genere particolare, ma sposare la realtà e confondersi con essa” (1998: 92). Una situazione questa che induce l’antropologo francese a invitare a “sta[re] all’erta” (1998: 126). E fra i vari rischi verso i quali necessita stare all’erta vi è quella resa di uno stato di passività e impotenza nello spettatore.
Per Bergson, come ricorda Ronchi, “l’estensione della percezione cosciente sarebbe direttamente proporzionale all'intensità dell'azione di cui dispone un essere vivente” (2015: 86); e dunque lo stato in cui si trovano gli spettatori delle immagini audiovisive che vivono in uno stato di sotto-motricità e sovra-percezione, come analizzato da Metz, o di paralisi motoria, secondo Baudry, incorrono in un abbassamento della percezione cosciente e corrono il rischio di “favorire il loro errore” portandoli “a scambiare per reale il feticcio, o forse la sua rappresentazione, la sua proiezione sullo schermo formato dalla parete invisibile della caverna, dal quale essi non possono distogliere lo sguardo, né possono volgersi altrove”. Questi spettatori risultano così, come scrive Baudry, “legati, avvinti, incatenati allo schermo”, avvinti in “una relazione, un prolungamento reciproco che dipende dalla loro incapacità di allontanarsene”.
Il cinema della modernità si è focalizzato proprio su queste problematiche mettendole in luce e criticando alcune condizioni in cui viene condotto lo spettatore; ha indagato il tipo di rapporto che si istaura tra coscienza e oggetto e che l’immagine designa, come osserva Sartre; e si è deciso anche, in alcuni casi, di offrire la rappresentazione metaforica dello stato in cui vive lo spettatore, attraverso l’idea di far ricoprire al protagonista un ruolo passivo che rispecchiasse il comportamento del pubblico. Un’operazione, questa, metalinguistica che intende mettere in luce e criticare atteggiamenti dello spettatore cinematografico e di renderli presenti a quest’ultimo; in linea in questo modo con quella componente “riflessiva”, secondo Aumont, “autoriflessiva”, secondo De Vincenti, propria del cinema moderno, il quale, come evidenziano Elsaesser e Hagener, intende “distanzia[rsi] da sé e contempla[re] se stesso e il proprio farsi” (2009: 75-6).
Se ci rivolgiamo alla produzione filmica più recente possiamo prendere un caso estremo e abbastanza attuale, ovvero il protagonista del film Lo scafandro e la farfalla (Le scaphandre et le papillon, Julian Schnabel, 2007), in cui Bauby, tragicamente catapultato nello stato di totale paralisi del corpo a causa della sindrome locked-in, può essere anche letto come rappresentazione metaforica dello spettatore dell’audiovisivo. Quello che realizza Schnabel nel suo film sembrerebbe così da un lato criticare atteggiamenti dello spettatore e per certi versi legarsi a delle modalità di rappresentazione che si impongono con il sorgere del cinema moderno e che possono essere desunte dalle analisi di Deleuze.
Il filosofo francese scrive che, tendenzialmente a partire dal neorealismo, si può riconoscere “l’irruzione di un nuovo elemento che avrebbe impedito alla percezione di prolungarsi in azione, per metterla in rapporto con il pensiero” (2001: 11): si verifica cioè l’imporsi delle situazioni ottiche e sonore, che caratterizzano quella che Deleuze definisce come immagine-tempo in contrasto “alle situazioni senso-motorie forti del realismo tradizionale” (2001: 16), specifiche dell’immagine-movimento. Quest’ultima era individuabile in quei film di stampo classico in cui l’intreccio assumeva un ruolo particolarmente rilevante ed era strutturato in modo tale che non permettesse digressioni, e nel quale, inoltre, venivano create situazioni tali da orientare sempre all’azione i vari personaggi. Nel cinema classico, fondato sull’idea di immagine-movimento, infatti, come scrive Deleuze, sono “i personaggi a reagire alle situazioni” (2001: 13) e la struttura narrativa del film si sviluppa in precise azioni che si succedono nel tempo. Anche nei casi specifici in cui il protagonista è “ridotto all’impotenza”, in cui ad esempio è “legato e imbavagliato, secondo gli accidenti dell’azione”, anche in questo caso è riconoscibile l’immagine-azione e la natura senso-motoria della situazione, in quanto “lo spettatore percepi[sce] (…) un’immagine senso-motoria di cui [è] più o meno partecipe, poiché si identific[a] con i personaggi” (2001; 13). Con il cinema moderno e con la sua immagine-tempo invece “la situazione non si prolunga direttamente in azione, non è più senso-motoria, come nel realismo, ma innanzitutto ottica e sonora, investita dai sensi, prima che l’azione si formi al suo interno e ne utilizzi o ne raffronti gli elementi” (2001: 14-5).
Quello che ci interessa maggiormente in questa definizione del cinema moderno proposto da Deleuze è il delinearsi di un particolare atteggiamento da parte del protagonista, differente rispetto a quello che si può riscontrare in un cinema di struttura classica, un atteggiamento che vediamo riproporsi in termini più radicali nel film di Schnabel e che così viene descritto dal filosofo francese:
il personaggio è diventato una specie di spettatore. Ha un bel muoversi, correre, agitarsi, la situazione nella quale si trova supera da ogni parte le sue capacità motorie e gli fa vedere e sentire quel che non può più essere teoricamente giustificato da una risposta o da un’azione. Più che reagire, il personaggio registra. Più che essere impegnato in un’azione, è consegnato a una visione. (2001: 13)
Quello che emerge è un carattere di impotenza con il quale si contraddistingue il protagonista del cinema moderno, e la sua impossibilità a reagire, a rispondere con azioni a ciò che gli si profila dinnanzi, destinandolo a una condizione passiva di sola registrazione di ciò che accade, si riflette in quella condizione ancora più impotente in cui vive il protagonista del film di Schnabel. La sindrome locked-in relega infatti Bauby, il protagonista del film, ad una condizione in cui non è permesso rispondere alle situazioni esterne mediante il movimento del proprio corpo, e l’unica possibilità che gli è consentita è quella di un’azione, riprendendo Deleuze, ottica e sonora, investita solo dai sensi, gli è possibile soltanto assistere visivamente ai fatti esterni: è insomma consegnato ad una visione, una visione caratterizzata dall’impotenza, una condizione, questa, tipica dei protagonisti del cinema moderno. “Con le immagini ottico-sonore pure della modernità, avviata dal neorealismo”, osserva De Gaetano, “il corpo non è più un insieme funzionale che sorregge la struttura psicologica del personaggio legato all’azione, ma è uno spazio puramente ricettivo” (2002: 132).
A riguardo Deleuze osserva come “il ruolo del bambino nel neorealismo, particolarmente in de Sica (poi, in Francia, in Truffaut)” (2001: 13) è funzionale ad esprimere questa condizione di solo vedente in stretto rapporto con l’impotenza, di soggetto che gli è permesso solo registrare e non agire; “nel mondo adulto”, osserva il filosofo francese, “il bambino soffre di una certa impotenza motoria” (2001: 13), che gli impedisce di relazionarsi con il mondo esterno, di rispondere adeguatamente ai fenomeni della realtà esterna, di entrare in una situazione senso-motoria classica, e in questo modo tutto si cala in una dimensione ottica e sonora, facendo diventare il personaggio uno spettatore passivo del mondo esterno.
Tale condizione di impotenza, che caratterizza il personaggio del cinema moderno, si potrebbe interpretare come metafora della condizione dello spettatore dell’audiovisivo; potremmo infatti pensare che la condizione del protagonista caratterizzata da un lato dall’impossibilità a reagire e, dall’altra lato, dalla sola e unica possibilità di registrare il reale, sia una condizione che intenda far riflettere sullo stato di passività in cui viene condotto lo spettatore; passività, e impotenza, dovuta al fatto che, riprendendo Sartre, non è stimolato il lavoro della coscienza immaginativa: c’è da vedere una realtà che risulta presentata e alla quale non si può reagire, sollecitando, in questo modo, il nascere di una visione allucinatoria e ipnotica a cui consegue un’assimilazione passiva di ciò che si vede e, nello stesso tempo, nell’acquisizione di un atteggiamento con la realtà esterna orientata più sull’inattività che su una reazione attiva. L’impotenza del protagonista del cinema moderno potrebbe così essere letta come una critica e denuncia verso quello stato in cui è calato lo spettatore attraverso la visione delle immagini offerte da un mass media e/o new media.
Certo, è vero anche che per Deleuze lo stato d’impotenza, in cui vive ad esempio il bambino nelle opere neorealiste o della Nouvelle Vague, rende il protagonista “ancora più capace di vedere e sentire” (2001: 13); in questo modo dunque quella nostra presunta denuncia di passività dello spettatore che si esprimerebbe indirettamente tramite la condizione di impotenza del protagonista del film verrebbe a cadere, per attribuire allo stato di impotenza una connotazione positiva legata ad una capacità veggente dello sguardo. Spiega infatti più dettagliatamente Deleuze, come il “crollo degli schemi senso-motori”, specifico di quello che definisce come regime cristallino dell’immagine, fa posto “a situazioni ottiche e sonore pure alle quali i personaggi, divenuti veggenti, non possono o non vogliono più reagire, tanto è necessario che arrivino a ‘vedere’ ciò che c’è nella situazione” (2001: 145).
3 La doppia accezione dell’impotenza
Si potrebbe allora cogliere, nella condizione di impotenza sviluppata dal cinema moderno, un duplice senso che racchiude sia l’interpretazione data da Deleuze, sia quella desumibile dal film di Schnabel. Ma è proprio questa natura duale del senso della rappresentazione dello stato di impotenza che la possiamo trovare ne Lo scafandro e la farfalla. Da un lato infatti emerge come dallo stato inerme e immobile del protagonista si palesi quella natura metaforica che rimanda allo stato di passività e vulnerabilità dello spettatore dell’audiovisivo; dall’altro canto risulta anche che la condizione in cui è costretto Bauby permette a questi di assumere un atteggiamento connotato da veggenza; ed è lo stesso Bauby che lo comunica quando prende coscienza che nella sua condizione potrà aprire le porte della sua prigione alla propria farfalla attraverso l’uso dell’immaginazione e della memoria.
La sindrome locked-in rappresentata nel film di Schnabel può essere allora intesa anche come, sempre usando le espressioni di Deleuze, quell’irruzione di un nuovo elemento che impedisce alla percezione di prolungarsi in azione, per metterla in rapporto con il pensiero. Ma nello stesso tempo, la rappresentazione della condizione di Bauby, offerta dal regista statunitense, assume in sé anche una connotazione opposta per dare espressione critica a quella condizione verso cui possono portare la fruizione degli audiovisivi. Condizione quest’ultima presa in considerazione da Deleuze stesso che cita a riguardo le considerazioni di Daney e di Virilio.
Da un lato abbiamo infatti il primo che ne La rampe (Daney 1996) evidenzia che “le grandi messinscene politiche, le propagande di Stato sono le prime manipolazioni umane di massa”, e sono “la loro radice profonda, i campi di concentramento, ad aver messo in questione tutto il cinema dell’immagine-movimento” (Deleuze 2001: 184); considerazione questa che può essere letta, secondo quanto indica Deleuze, come “campana a morto per le ambizioni del ‘vecchio cinema’” (2001: 184); dall’altro lato abbiamo Virilio che in Guerra e cinema (1996) esprime riflessioni, sintetizzate da Deleuze, che verranno portate avanti anche nei suoi studi successivi, quali L’arte dell’accecamento:
non vi è stata deviazione, alienazione in un’arte delle masse che l’immagine-movimento avrebbe in un primo tempo fondato, al contrario l’immagine-movimento è legata fin dall’inizio all’organizzazione di guerra, alla propaganda di Stato, al fascismo corrente, per storia ed essenza.
Le analisi di Daney e Virilio, citate da Deleuze, pur potendo risultare particolarmente radicali, esprimono quanto la condizione di impotenza in cui viene portato a vivere lo spettatore sia strettamente legata ad uno stato di vulnerabilità dell’essere che apre le porte a fenomeni di accettazione, di subalternità, di assimilazione.
Lo stato di impotenza è vero dunque che è riconducibile a una visione propria del cinema moderno, e se da un lato porta in sé l’invito a far diventare il “pensiero” il protagonista della e nella visione, dall’altro lato accoglie nella propria anima una denuncia, una critica, una riflessione verso quella condizione a cui portano diverse produzioni realizzate mediante le nuove immagini, le quali non invitano a far divenire protagonista il pensiero, semmai ostacolano la sua partecipazione e influenzano la sua azione.
Deleuze a riguardo cita le riflessioni da una lato di Heidegger e dall’altro Duhamel, riflessioni che servono a mettere l’accento sulla questione dell’importanza di una partecipazione attiva del pensiero dello spettatore e sul fatto che non sempre un’opera audiovisiva aiuti a mettere in atto tale dinamica: “l’uomo è in grado di pensare nella misura in cui ne ha la possibilità”, scrive Heidegger, ma nello stesso tempo evidenzia come “questa possibilità non ci garantisce ancora che ne siamo capaci” (1996: 37), osservazione che si lega a quella di Duhamel, riferita in maniera specifica al cinema e già citata, precedentemente, da Benjamin nel suo studio sulle opere dei mass media: “non sono già più in grado di pensare quello che voglio pensare. Le immagini mobili si sono sistemate al posto del mio pensiero”.
Emerge insomma che le situazioni di impotenza del protagonista e dello spettatore, che in quest’ultimo si identifica, possano essere lette in due modi diversi. Da un lato sono delle situazioni che implicano una visione attenta con coscienza critica vigile: è un cinema veggente, che implica l’uso del pensiero, che non guida lo spettatore mediante un intreccio avvincente, ma lo lascia scrutare, vedere il mondo rappresentato, riproducendo in questo modo quell’atteggiamento del personaggio del film in cui lo spettatore si rivede. Dall’altro lato rappresentano una denuncia verso quel crollo delle situazioni senso-motorie che l’imporsi delle nuove immagini produce, scagliandosi contro un certo modo di usare le nuove immagini e contro gli effetti che queste producono per realizzare una lotta, di stampo tipicamente barocco e moderno, come è stato analizzato da Calabrese, reso contro le immagini ma per mezzo delle immagini. Si invita in questo modo a una nuova partecipazione dello spettatore, a un nuovo modo di fruire le nuove immagini, e parallelamente si denuncia il classico rapporto che l’uomo istituisce con le nuove immagini, rapporto che determina un particolare atteggiamento passivo, incline a un coinvolgimento della sola coscienza percettiva che induce lo spettatore a credere al mondo che si rappresenta tramite immagini, a considerare veritiera la realtà da queste riprodotta e proposta.
Bibliografia
Augé, Marc (1998). La guerra dei sogni. Milano: Elèuthera.
Barthes, Roland (1980). La camera chiara. Torino: Einaudi.
Belting, Hans (2013). Antropologia delle immagini. Roma: Carocci.
Daney, Serge (1996). La rampe. Parigi: Gallimard.
De Gaetano, Roberto (2002). Il visibile cinematografico. Roma: Bulzoni.
Deleuze, Gilles (2000). L’immagine-movimento, Milano: Ubulibri.
Deleuze, Gilles (2001). L’immagine-tempo. Milano: Ubulibri.
Deleuze, Gilles (2007). L’isola deserta e altri scritti. Torino: Einaudi.
Didi-Huberman, Georges (2005). Immagini malgrado tutto. Milano: Raffaello Cortina.
Elsaesser, Thomas e Hagener, Malte (2009). Teoria del film. Un’introduzione. Torino: Einaudi.
Heidegger, Martin (1996). Che cosa significa pensare? Milano: SugarCo.
Pinotti, Andrea e Somaini, Antonio (2016). Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi. Torino: Einaudi.
Ronchi, Rocco (2015). Gilles Deleuze. Milano: Feltrinelli.
Sartre, Jean-Paul (1948). Immagine e coscienza. Torino: Einaudi.
Virilio, Paul (1996). Guerra e cinema. Torino: Lindau.