L’umano diventa umano soltanto nelle sue concrete determinazioni storico-sociali.
– (Cimatti 2011: 181)
1 Introduzione
All’interno di questa analisi antropologico-linguistica, il regista danese Lars von Trier ci permette di entrare con uno sguardo cinematografico e disturbato nella questione riguardante l’uomo, l’animale e il linguaggio. Le pagine che seguono si propongono, infatti, di combinare prospettive biologiche, linguistiche, cognitive e antropologiche per tentare di dare spazio a una interpretazione contemporanea dei concetti di logos, zoon politikon e natura umana, senza abbandonare però l’originalità e la portata rivoluzionaria della visione di questi elementi nella antica filosofia greca. Ovvero, non si cerca di decontestualizzare Aristotele, o rimaneggiarlo per arrivare a quella che potrebbe essere una sua idealizzazione neuroscientifica, ma si cerca semplicemente di mettere in conversazione mondi e sistemi interpretativi distanti nel tempo: è come immaginarsi una tavola rotonda dove presenzino contemporaneamente Aristotele e Sapir, Benveniste e Cimatti, Marx e Chomsky. Li vediamo discutere con passione e arrivare insieme, completandosi vicendevolmente, a una formulazione precisa del concetto di uomo e dei suoi rapporti con la cultura, con il mondo e soprattutto con la lingua. Diciamo che Von Trier è colui il quale ha imbandito la tavola in attesa dei commensali e delle loro parole, ma non per questo il suo ruolo può essere considerato minore. Anzi è proprio egli ad alzare il sipario su questo spettacolo naturale: l’uomo. In particolare, il discorso prenderà le mosse da un’opera appartenente a quella è che stata definita la trilogia della Depressione, composta da Antichrist (2009), Melancholia (2011) e Nymphomaniac (2013).
2 Il caos regna
Nel primo film della trilogia, Antichrist, vediamo una volpe pronunciare lentamente, ruggendo, la frase cardine del ribaltamento antropologico in relazione al rapporto tra l’uomo e gli altri esseri viventi, ovvero “Il caos regna” (“Chaos reigns”).
L’animale giace nascosto in una distesa verde mentre Lui (Willem Dafoe), protagonista maschile dell’opera, cautamente si avvicina a un rumore che sembra richiamarlo: è il mammifero che, intento a strapparsi la carne dal ventre, si rifugia sotto la pioggia ed il sangue.
La volpe non è l’unico animale a comparire in quest’opera di Lars von Trier. Come immagini simboliche dell’avversità compaiono anche un corvo e un cervo, entrambi de-naturalizzati, non tanto nell’aspetto quanto nel comportamento.
Queste figure, definite mendicanti, “also represent the three organising affects of the film: grief, pain, and despair” (Zolkos 2011: 181). Tre animali che appaiono quindi come impedimento, che vivono per contrarietà all’uomo rappresentandone l’impossibile padronanza sul naturale, alle volte maschera di una femminilità assassina.
La presenza di questi animali dai tratti antropomorfi non è aliena alla situazione in cui Lui e Lei (Charlotte Gainsbourg) si trovano, paralizzati, a convivere. Lui, psichiatra cognitivo, decide di portare Lei a Eden, nella baita di loro proprietà, per aiutarla a superare il trauma della scomparsa del figlio, avvenuta nel prologo del film. In questa loro intimità e difficoltà psicologica, i protagonisti si ritrovano nel nulla di una fitta foresta addensata nella nebbia, e qui i due consumano la loro reciproca esistenza divenendo, l’uno agli occhi dell’altro, un simbolo contrario al proprio. A tal proposito, è necessario prima di tutto constatare che nella filmografia di von Trier, Antichrist è l’unico film “which centers on a couple instead of complex group dynamics” (Simons 2010: 1) – in The Kingdom (1994), Dancer in the Dark (2000), Dogville (2003) e negli altri due volumi della trilogia della Depressione, è facile imbattersi in un unico protagonista calato in una società avversa e malata in grado di mutarne il comportamento secondo dei canoni coerentemente distorti, si pensi in particolar modo al personaggio di Grace (Nicole Kidman) in Dogville.
In una simile dimensione intimistica, quale è quella rappresentata da Lui e Lei, “excess is no longer depicted as melodramatic background but played out in the most intimate relations between two people, turning their erotic love relation into an inhuman world of non-relating and non-communicating” (Gammelgaard 2013: 1218). Tuttavia, ogni realtà privata, distante da forme di socializzazione altre, non riesce mai nell’essere un paradiso; il più delle volte, infatti, si rivela essere il contrario. Per questo motivo, lo svolgimento di Antichrist può essere già letto nelle parole di Epley:
Few people are strangers to the dream of owning a secluded island where they can live in supreme isolation, away from the crush of humanity that surrounds modern urbanites. The experience of those who approximate this dream, however, suggests that it may be more of a nightmare(Epley, Akalis et al. 2008: 114).
La condizione di isolamento, psicologicamente impossibile nei soggetti umani, porta a comportamenti che vogliono realizzare una socialità anche lì dove non ve ne sia. Infatti, “[w]hen lacking social connection with other humans, people may compensate by creating humans out of nonhuman agents through anthropomorphism […] perceiving nonhuman to be more humanlike” (Epley, Waytz et al. 2008: 146), venendo così a instaurarsi con l’estraneo un rapporto di riproduzione inferenziale. Questo potrebbe essere quello che rappresentano i tre mendicanti ai protagonisti della pellicola. L’antropomorfismo, sembra non essere però una dinamica esclusivamente interna al film qui analizzato, ma potremmo pensare anche alla situazione del regista stesso, il quale, nella fase di scrittura di Antichrist, “plunged into a three-month depression” (Badley 2010: 140) e si è consequenzialmente lasciato condurre da un certo simbolismo traboccante all’interno del lungometraggio. In questo, Lars von Trier lascia che ogni immagine sia terapeutica prima di tutto per sé stesso: il regista danese, ingabbiato nel suo status psicologico, crea immagini e antropomorfizza le parole, le radici degli alberi, gli animali e l’odio. Tutto assume carattere umano, però con i connotati dell’avverso e mai del pacifico, in particolare, i tre mendicanti: simboli interni ed esterni ad Antichrist, nel loro rappresentare i sentimenti traumatici che accompagnano lo svolgersi del film e lo status psicologico del regista.
Tra i tre animali, la volpe ha culturalmente delle connotazioni ben precise che la rendono adatta al giogo linguistico dell’antropomorfismo: “[proprio] perché sa giocare d’astuzia, mentire, spergiurare, perché ha il senso e la cultura della trappola, la volpe è più vicina alla verità dell’uomo e alla sua lealtà che sa, che è abile a rovesciare” (Derrida 2009: 124). Quest’animale, sempre nelle parole di Derrida, è in grado di “dissimulare il proprio essere volpe e fingere di non essere ciò che è” (Derrida 2009: 125).
Perché è fondamentale che ci si soffermi sull’enunciato pronunciato dalla volpe? Innanzitutto, in questa precisa sequenza è tanto importante il contenuto, quanto lo è l’atto. Un animale parlante rappresenta di per sé il caos, e il fatto che esso stesso possa constatare la situazione come straordinaria, disordinata, è solo una conferma fatica del dato esterno: la natura è “supernaturally animated with a talking fox” (Bush 2016: 134) e in quanto tale non è più madre, ma diviene una entità umana e disumana allo stesso tempo. Se governasse nella realtà quotidiana la facoltà del linguaggio e se, quindi, possedesse il logos (prima di tutto nel senso di capacità linguistica e discorsiva), la volpe diverrebbe concettualmente un essere umano; oppure si dovrebbe tornare a parlare di uomo senza più poterlo distinguere dall’animale. In secondo luogo, il fatto che la volpe abbia riconosciuto un ordine sociale, sebbene ribaltato, dove infatti è il caos a regnare, permette di parlare dell’animale in questione come zoon politikon.
In quanto parte di una società, in quanto in grado di riconoscerne l’esistenza e soprattutto di parlarne, la volpe diviene a tutti gli effetti un animale politico. Dato il nuovo ruolo acquisito, l’animale è in grado di sovvertire il suo stesso regno. Gli è permesso di divorare sé stesso e convertirsi a essere parlante che agisce tramite pulsioni linguistiche.
L’autodistruzione nel linguaggio è il bruto ribaltamento di una possibilità data dalla parola: “nessuna specie animale è politica nel senso di Aristotele, cioè nessuna specie animale può progettare e ‘inventare’ il mondo nel quale preferisce vivere” (Frasnedi e Sebastiani 2010: 2); tuttavia, nel momento in cui una specie acquisisce l’essenza politica tramite il linguaggio, questa non solo può progettare il proprio mondo ma può anche disgregarlo con la stessa razionalità. Ciò avviene a causa di una doppia funzionalità del nostro strumento comunicativo: la lingua “è in primo luogo l’interpretante della società; la lingua, in secondo luogo contiene la società” (Benveniste 2009: 102).
Von Trier intimorisce lo spettatore e lo fa abbattendo le uniche due colonne concettuali dell’essere umano: il logos e l’appartenenza al mondo tramite fattori politico-sociali. Caratteristiche incrollabili, fondanti dell’Homo Sapiens: la trama e l’ordito della nostra specie, del nostro essere. Nel farli corrispondere anche all’essere animale, il regista danese disgrega il mondo: gli esseri viventi si riducono ad una razza dove l’elemento prima discriminatorio è ora condiviso. Si assiste, quindi, all’introduzione del disordine nel contesto della natura e dell’essere sociale:
Nature is thus not only cosmos, but just as much chaos and chance. This is also true of social life, which in all societies and cultures has been regulated by totem and taboo. In many societies, animals, stones or pieces of wood constitute such totems, which suggest a link between the individual and cosmos (Thomsen 2009: 3).
Dovranno essere quindi elaborati, trovati e manipolati nuovi elementi che permettano una separazione, o meglio una gerarchizzazione, interna al caos stesso. Se infatti, dopo ore di sofismi, arrivasse una volpe, parlante e sociale (civile e cittadina), a interrompere il banchetto dei vari studiosi citati in principio, questi si troverebbero costretti a uno sconfortante mutismo. Ma visto che questo non è il caso, è necessario vedere più precisamente in cosa consistono i concetti di logos e zoon politikon, in che misura contraddistinguono l’uomo dal resto degli esseri viventi, e come possono essere, invece, riscontrati come propri dell’essere umano, poiché l’Homo Sapiens è “animale che ha linguaggio e animale politico” (Virno 2003: 31). Definire noi stessi equivale a non essere la volpe. Von Trier, al contrario, non specifica, ma eguaglia a simbolo, rendendo il mondo un unico universo animale in cui tutti sono in guerra per la propria intima e specifica sopravvivenza.
3 Logos e zoon politikon
Quando si fa riferimento ai noti concetti di logos e zoon politikon si reca un continuo omaggio ad Aristotele, il quale ha intravisto in questi le facoltà discriminatorie dell’essere umano. Risulta ovvio concordare sul fatto che gli uomini siano esseri caratterizzati - e determinati - sia dalla natura linguistica che da quella “sociale”, ma difficile, nonché gravido di conseguenze, è il prendere atto di una reciproca dipendenza tra questi due specifici modi d’essere:
Queste formule non suscitano problemi di sorta finché ci si balocca con l’idea che la seconda sia subordinata, o tutt’al più complementare, alla prima. Risultano assai meno innocue, però, se si percepisce la loro piena sinonimia […] [L]e due definizioni sono coestensive, indiscernibili, logicamente equivalenti (Virno 2003: 31).
Virno qui vuole distanziarsi da una posizione erronea che vorrebbe la capacità politica dell’uomo come subordinata al logos. Quindi il primo passo da compiere in quest’analisi è vedere come linguaggio e politica instaurino tra un loro un rapporto bidirezionale.
3.1 Il linguaggio umano e quello animale
Qualche studioso potrebbe già notare un elemento di disturbo nel leggere il titolo di questo paragrafo: il termine “linguaggio” associato al mondo animale. Sicuramente Émile Benveniste si troverebbe tra quegli studiosi, affermando che “la nozione di linguaggio, applicata al mondo animale, è valida soltanto per un abuso terminologico” (Benveniste 2009: 29). Con questo non si vuole sostenere che gli animali manchino di sistemi comunicativi, semplicemente si sta sottolineando che esseri della specie non-umana non comunicano attraverso il linguaggio propriamente detto. Ad esempio, le api nei loro scambi informativi non intrattengono un dialogo: il messaggio di questi insetti non prevede una risposta, ma solo un certo comportamento associato ad esso. L’ape compie un determinato tipo di danza e, in base ai movimenti che compongono quest’ultima, i riceventi del messaggio sanno dove andare per trovare una fonte ricca di nettare, dimostrando il pieno apprendimento e la corretta decodifica della danza con il solo spostarsi verso tale fonte. Con questo vediamo che “le api non conoscono il dialogo, che è la condizione del linguaggio umano. Noi parliamo ad altri esseri che parlano, ecco la realtà dell’uomo” (Benveniste 2009: 34).
Inoltre, è possibile identificare altri elementi di discrimine, non meno importanti, tra il linguaggio umano e il sistema comunicativo animale. Infatti, le api comunicano attraverso un sistema non scomponibile in elementi di significato più piccoli, quindi non posseggono un elemento equivalente al morfema, unità minima di significato in cui una parola può essere scomposta; in aggiunta, nel loro scambio le api fanno riferimento a dati esclusivamente spaziali, attraverso l’uso di una simbologia profondamente intrecciata ad una realtà oggettiva (la sola che permetta l’origine di un messaggio); e infine, come conseguenza delle due proprietà appena citate, il messaggio delle api non varia con il suo diffondersi. L’ape non può aggiungere elementi al suo messaggio, in quanto questi significherebbero una modifica del dato spaziale in riferimento alla fonte di nettare precedentemente espressa. Ciò vuol dire che nel sistema comunicativo delle api vi è un rapporto necessario fra la referenza oggettiva e la forma linguistica, limite espressivo assente nel linguaggio umano.
Date tali proprietà, la maniera di comunicazione delle api “non è un linguaggio, è un codice di segnali” (Benveniste 2009: 34). L’errore che spesso si commette, come è evidente a questo punto, consiste “nel confondere la capacità di comunicazione con la struttura del codice che si usa per comunicare” (Moro 2012: 34).
3.2 L’alveare e la società: tra logos e koinonia politiké
Tornando ai due fattori identificati da Aristotele nel definire gli uomini, è ora necessario passare momentaneamente al concetto di zoon politikon. Questo sta a significare, come sembra evidente anche al solo guardare la nostra struttura sociale, che siamo animali da polis, intrinsecamente spinti da forze aggregative, poiché l’uomo “non può essere senza gli altri” (Politica, I, 2, 1252a 27). Altrimenti detto:
[…] l’uomo è nel senso più letterale del termine uno zoon politikon, non solo un animale, bensì un animale che può isolarsi solo nella società. La produzione dell’individuo isolato all’esterno della società […] è un’assurdità pari al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino assieme (Marx 1976: 6).
Quindi, l’essere con gli altri di un animale che non può essere senza gli altri ha la sua forma compiuta nella koinonia politiké, la quale “porta a piena realizzazione la natura aggregativa dell’uomo in quanto specie, consentendogli la vita felice” (Cavarero 2003: 201). Tuttavia, da un punto di vista aristotelico, cos’è che distingue la società umana dall’alveare? La condizione politica degli esseri umani come differisce dallo stato aggregativo delle api?
La distinzione sta nel logos, ed è proprio questo il momento in cui diviene evidente la necessità di una connessione tra i due fattori umani. Gli animali percepiscono il dolore e il piacere e sono in grado di segnalarselo l’un l’altro, la natura invece ha dato l’uomo la capacità della parola, affinché fosse in grado di formulare i concetti di utile e dannoso, giusto e ingiusto, bene e male, e perché fosse in grado di interpretare i dati esterni catalogandoli in queste categorie percettive: il giusto, in particolare modo, “appartiene alla comunità politica, fa parte della sua genesi e ne innerva l’organizzazione naturale: l’uomo, essendo un animale politico, lo percepisce e, mediante il logos, lo significa” (Cavarero 2003: 201).
È il logos quindi a rendere la società una koinonia politiké. Tuttavia, non è possibile limitarsi a sostenere l’esistenza di un rapporto di tipo unidirezionale tra linguaggio e società; ma, riprendendo un passaggio fondamentale tracciato da Émile Benveniste, è necessario considerare questi due concetti come complementari:
Il linguaggio, di fatto, è per l’uomo l’unico mezzo per raggiungere un altro uomo, per trasmettergli un messaggio e riceverne uno in cambio. Quindi il linguaggio pone e presuppone l’altro. Con il linguaggio si dà subito la società, la quale, a sua volta, riunisce solo attraverso l’uso condiviso di segni di comunicazione. […] Le due entità si implicano dunque mutualmente (Benveniste 2009: 99).
Infatti, si potrebbe sostenere che la natura “assicura la corrispondenza fra il registro del logos, in quanto sfera della significazione verbale, e il registro della pulsione aggregativa” (Cavarero 2003: 204). Dunque, l’uomo in possesso del logos è in grado di significare i tratti pertinenti alla comunità politica cui è stato destinato dalla natura. In definitiva, la società necessita del linguaggio, proprio così come il linguaggio necessita della società.
3.3 La biologia del logos e dello zoon politikon
Giunti a questo punto, è necessario addentrarsi in aspetti ancor più specifici relativamente all’essenza umana. Su che piano vanno collocati il logos e la socialità dell’essere umano? A quale mondo concettuale appartengono? È stato sostenuto che questi due elementi sono interconnessi, ma non è stato ancora detto dove tale connessione si realizzi. Sostenere che questa avvenga all’interno dell’uomo è una tautologia, o meglio, è un confondere l’origine con la fine, la causa con l’effetto. L’uomo non è tale di per sé, ma diviene uomo nella costanza attiva delle sue facoltà politiche e linguistiche: queste non si realizzano nell’uomo, bensì realizzano l’uomo, che altrimenti sarebbe solamente un animale individuale, sebbene comunque il più propenso a divenire uomo - in quanto destinato a tale realizzazione dalla natura stessa: “[l]’uomo è costruito filogeneticamente in modo che molti dei suoi moduli comportamentali, la sua stessa organizzazione nervosa non potrebbero funzionare se non fossero integrati dalla tradizione culturale” (Lorenz 1985: 282-283).
Questa citazione è forse la più adeguata, in quanto salva immediatamente il discorso qui portato avanti da una incomprensione che si vorrebbe decisamente evitare: si veda che non si tratta esclusivamente di biologia come non è una questione puramente culturale. È necessario mettere in comunicazione questi due modelli interpretativi, si deve far dialogare Chomsky con Sapir, i quali sono rappresentativi delle due impostazioni di ricerca, antinomiche, appena citate. Per Sapir il linguaggio è un elemento culturale e la realtà sociale non è un qualcosa di biologico: “il bambino non viene al mondo in un ambiente puramente naturale, ma in grembo ad una comunità sociale” (Sapir 2007: 3-4) e all’interno di tale comunità si sviluppa il linguaggio. Al contrario, in Chomsky il parlare è un istinto, il che vuol dire che è un elemento innato e al di fuori del controllo volontario. Come è evidente, da una parte il linguaggio è un fattore esterno, dall’altra è un fattore biologico, ma soprattutto interno. Darwin, riterrebbe queste distinzioni inappropriate, vedendo il linguaggio come un “semi-istinto”, e quindi come una “semi-arte” (Darwin 1871: 55), ovvero come una facoltà che non va ricercata né sul piano esclusivo della cultura né su quello esclusivo della biologia, infatti:
l’idea della doppia nascita (biologica e sociale) non rimanda direttamente a una stratificazione, a un susseguirsi di eventi, ma a un processo di costruzione e trasformazione in cui ciò che è biologico e ciò che è sociale (culturale) non appartengono a eventi distinti e temporalmente successivi (Favole e Allovio 1999: 174).
Tornando a Chomsky, egli sostiene che i fattori che entrano in gioco nello sviluppo del linguaggio in ogni individuo siano tre. Da una parte vi sono i fattori genetici, oggetto della Grammatica Universale; dall’altra vi è l’esperienza, che quindi raccoglie i dati esterni all’individuo; infine vi sono i principi che non sono specifici della facoltà del linguaggio (Chomsky 2005). Secondo questa impostazione quindi, il piccolo umano nasce attrezzato in modo intrinseco a riconoscere nel proprio ambiente una particolare classe di stimoli, la voce linguistica umana, oppure i gesti linguistici, e a questi stimoli presta una speciale attenzione. Questa attenzione altamente selettiva è una forte prova del carattere innato della facoltà del linguaggio. Il concetto di “esperienza” in Chomsky ha il solo ruolo di giustificare, anzi, di introdurre un certo spazio per la variazione nei principi universali della innata Grammatica Universale. Tuttavia, non è possibile ritenere - scontrandosi parzialmente con le teorie generativiste - che l’esperienza in ambito linguistico debba comprendere “tutti i fattori esterni, storici e sociali, e quindi non direttamente biologici, che trasformano un rumore prodotto dall’apparato articolatorio umano in un suono linguistico” (Cimatti 2011: 86).
Il modello chomskyano, per il quale il linguaggio preesiste al suo sviluppo, va ampliato ad uno in cui il linguaggio non è dato aprioristicamente, ma esiste come risultato di un processo. Un modello valido e coerente con il percorso qui portato avanti è quello proposto da Cimatti sulla base di una reinterpretazione marxista delle questioni relative al linguaggio. Questi suggerisce, infatti, un nuovo modello che pone in gioco un assunto compendiario così formulato: l’unione di una predisposizione genetica con l’ambiente ecologico (sia interno che esterno) permette lo sviluppo linguistico da parte dei parlanti. Non si può parlare quindi di una essenza interna del linguaggio se non utilizzando il concetto di predisposizione al quale si faceva riferimento in precedenza.
Tuttavia, questa predisposizione va in un qualche modo realizzata: “ogni azione umana nasce, biolinguisticamente, quando l’insieme merge + ‘pensiero verbale’ viene messo all’opera” (Cimatti 2011: 99). Il merge consiste in una operazione indispensabile all’interno di un sistema ricorsivo. Questa “takes two syntactic objects α and β and forms the new object γ ={α, β}” (Chomsky 1999: 3). Quindi, senza sistema linguistico l’essere umano sarebbe manchevole di elementi da poter inserire nel sistema merge; e l’individuo privo di socialità sarebbe anche privo di pensiero in quanto “privo di quegli elementi discreti senza i quali il dispositivo bio-linguistico di merge non serve a nulla” (Cimatti 2011: 97).
Una tale realizzazione prevede una forma di comunismo, punto d’incontro finale tra l’operazione merge di Chomsky e l’ideologia marxista. Il comunismo, infatti
realizza il pieno incontro fra “naturalismo”, cioè le condizioni biologiche per l’umanizzazione (merge), e “umanismo”, cioè le condizioni storico-sociali (le lingue) che consentono alle prime di diventare effettive e produttive. La creatività individuale presuppone tanto il dispositivo biologico individuale che il transindividuale: il “comunismo” rende così possibile la formazione di un “uomo totale” (Cimatti 2011: 99).
A questo punto si rende evidente quanto la volpe fa temere. Il suo parlare è la constatazione di un ordine superiore, di una organizzazione sociale antagonista, ma prima di tutto aggiuntiva. Questo è sufficiente al caos: una creatività individuale nuova. Due società non convivono, non parlano, non cercano la comunione, ma si spingono alla rivolta, alla lotta della superiorità. La società della volpe spaventa, è una società che si ciba di sé stessa, che non conosce l’altro in termini socialmente condivisi, che non discute, ma linguisticamente annuncia il suo arrivo, e così facendo disorienta una cultura umana, rappresentata in Antichrist da Willem Dafoe. Questo però non è l’unico fattore in gioco: la simbolizzazione estrema, ovvero l’antropomorfismo che si palesa nel regno di Eden, sviluppa al suo interno un unico universo linguistico e sociale condiviso. Ciò sta a significare che l’umano e il dis-umano crollano. Se ciò che non è umano si fa simbolicamente umano, allora ogni zoon politikon deve contenere in sé ambedue i limiti: non è più possibile sostenere che gli esseri linguistici siano una cosa differente dagli esseri animali. Recentemente, Munteanu (2016), nell’analizzare gli elementi di depressione raccolti nella filmografia di von Trier, scrive che “the aesthetics of Antichrist reinforce a cruel introspection, as we are left pondering over the atrocities we are capable of inflicting on each other when humanity is out of the equation” (Munteanu 2016: 59); si potrebbe però anche dire che se l’umanità esce di scena, allora tutto diviene profondamente e irrimediabilmente umano. L’umano, infatti, cade se anche il cosmo diventa umano e, quindi, ogni gesto diviene liberato dalle sue costrizione sociali. Nella depressione “[t]he suffering individual is no longer seen as a melancholy person, but one that fails to act in a society that regards action as the ‘measure of oneself’ (Ehrenberg 2009: 12). His inhibition affects all his psychomotor processes” (Munteanu 2016: 14); tuttavia, se la depressione si antropomorfizza tramite l’uomo nel cosmo, ne consegue che ogni agente agisce tramite il suo stato psicologico e ogni gesto è così giustificato nel nome di una patologia psichiatrica – e lo è sia per gli spettatori, che riescono a risalire al perché, ad esempio, di atti di estrema violenza irrazionale (come l’autoinflitto taglio del clitoride da parte di Lei); e sia per Lui e Lei, nella loro soggettività, i quali nutrono il proprio isolamento di un incessante altalenarsi di stati emotivi agli estremi del naturale.
Infine, la socialità linguistica della volpe non è elemento di terrore esclusivamente in quanto umanizzazione del non umano, ma lo è anche in quanto una volpe dotata di linguaggio è un animale che si apre al mondo del possibile. Infatti, se “[g]razie all’operazione logico-biologica merge nella vita dell’animale umano compare per la prima volta l’esperienza del possibile” (Cimatti 2011: 91), così compare anche nella vita dell’animale, più ampiamente inteso. Questo può farsi quindi profeta e menzognero. Non a caso il sogno in cui il regista danese incontra per la prima volta la sua volpe, a seguito di un viaggio sciamanico, esprimeva dal principio questa possibilità creativa:
I found a silver fox. And then I found a family—they looked like a Disney couple, a man and a wife and their children, and for some reason, I told the man and not the woman: “I just met a fox.” And he said […]: “Never trust in the first fox you meet!”(Schepelern e von Trier 2010: 11-12).
La vita della volpe comincia nella menzogna. Nonostante il regista venga avvisato della falsità di quanto detto dal primo animale avvistato, l’impostura pronunciata è comunque una chiara constatazione fatica del caos.
4 Conclusione
Siamo di fronte ad un punto di arrivo, alla realizzazione di un incontro tra linguistica e politica che ci permette di integrare in un’unica prospettiva quelle proprietà umane da cui il discorso si è avviato: il logos e lo zoon politikon. Del resto “[u]na e medesima è la configurazione biologica che consente di parlare e spinge ad agire politicamente” (Virno 2003: 32). Alla base di questa unicità vi è un ragionamento logico che cerca di rendere conto del nostro essere. L’essere pensante (e parlante) è l’essere politico, e non vi è l’uno senza l’altro. Il percorso però è stato affrontato con uno sguardo cinematografico che ha voluto soffermarsi sulla forza nascosta dietro pochi secondi di macchina. Una volpe e le sue parole significano più di quanto dicano; anzi, significano in quanto dicono.
Inoltre, per quanto limitatamente, si è cercato di dare una spiegazione alla nascita del simbolo in Antichrist, partendo da due realtà che condividono una situazione ai confini della socialità. La pellicola è ricca e densa di strati di significato, il soffermarsi esclusivamente su uno di questi permette una visione della situazione narrativa estranea alle dinamiche dei personaggi. Dietro due singole parole, come quelle da cui il nostro discorso ha preso origine, si può nascondere un percorso potenzialmente infinito dove la manifestazione finale è superficialmente innocua rispetto al sostrato culturale, psicologico, linguistico e biologico, che gli assegna un valore storico in comunicazione diretta e costante con un presente altrimenti sradicato.
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