Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.28 (2025), 245–247
ISSN 2280-9481

Questo è un atto politico. XV edizione del Sicilia Queer filmfest

Denis PreviteraUniversità di Torino (Italy)

Ricevuto: 2025-10-20 – Pubblicato: 2025-12-22

Manifesto della XV edizione del Sicilia Queer filmfest

Come ormai da tradizione, anche quest’anno i Cantieri Culturali alla Zisa si sono animati ospitando all’interno delle proprie mura il Sicilia Queer filmfest. Giunto alla quindicesima edizione, l’evento palermitano continua a configurarsi come un fenomeno prezioso e pionieristico nel panorama festivaliero italiano, affermando nuovamente la sua natura di luogo in cui il pensiero critico e la riflessione estetica si intrecciano in una profonda consapevolezza del contemporaneo e delle sue direzioni.

In un momento storico segnato da un clima di crescente polarizzazione e irrigidimento ideologico, il direttore artistico Andrea Inzerillo sembra aver voluto insistere con forza sull’urgenza e sul valore del dialogo. Un dialogo inteso non solo come esercizio retorico, ma come pratica concreta del confronto, del dibattito costruttivo e del riconoscimento dell’altro; come riaffermazione del valore imprescindibile della diversità e del non essere d’accordo. Prospettiva che si rivela coerente con il concetto di queer – con il suo significare interrogarsi, il suo sottrarsi a ogni rigidità e rifiutare di accettare in modo passivo posizioni univoche – trovando espressione attraverso il confronto e lo scontro non soltanto di opere audiovisive, ma anche di persone; non soltanto di forme ed estetiche, ma anche di idee e valori; non soltanto di arte e creatività, ma anche di umanità. È un’idea di queer che si manifesta come movimento dialettico, come tensione continua tra posizioni, linguaggi e sguardi divergenti.

Già il progetto Under Queer, sorta di anticamera del festival, ne offre un’esemplificazione evidente: cinque giovani registe e registi emergenti sono invitati a presentare i propri lavori, dando vita a uno spazio di convivenza tra approcci, tecniche e immaginari eterogenei. Così le nuove immagini digitali di Golem (2019) di Etrio Fidora possono dialogare – o scontrarsi – con quelle d’archivio di Le prime volte (2025) di Giulia Cosentino e Perla Sardella o con la classicità compositiva di Come le lumache (2022) di Margherita Panizon; mentre l’estetica sospesa e pittorica di De l’amor perdu (2023) di Lorenzo Quagliozzi può contrapporsi a quella grezza e realistica di Patagonia (2023) di Simone Bozzelli. Ma è nella successiva tavola rotonda che il dispositivo trova piena realizzazione: un momento in cui le e gli autori sono chiamati a interrogarsi su ciò che oggi significhi “fare cinema”, su come e perché continuare a farlo. Emergono così posizioni differenti, talvolta inconciliabili: tra chi rivendica la responsabilità delle istituzioni nel sostenere i progetti e chi, all’opposto, afferma la necessità di una pratica cinematografica svincolata da qualsiasi sistema.

Nei giorni successivi, questo principio di scambio e dialettica è riproposto in un piccolo ma prezioso appuntamento ricorrente. Un divano, alcune sedie e le voci dei podcaster di Casaba e del Salotto Monogatari – insieme a quelle dei loro ospiti, da Marie Luise Lehner a Marco Müller – che risuonano tra i padiglioni dei Cantieri attirando curiosi e passanti. Qui, tra discussioni pacate e confronti più accesi, si rinnova la dimensione essenziale del Sicilia Queer: un luogo in cui il dialogo non è mai fine a sé stesso, ma strumento per espandere, contaminare e, perché no, mettere in crisi la conoscenza.

Il concetto di dibattito – inteso come incontro, scontro e confronto tra diversità – trova un naturale rispecchiamento simbolico anche nel programma. Ancora una volta le opere scelte dal comitato di selezione presentano una varietà di sguardi, temi e forme che si fanno riflesso del cinema postmediale. Un cinema contemporaneo che rintraccia la propria identità nell’eterogeneità, nella propensione a rifiutare ogni tipo di incasellamento, preferendo alla rigidità delle etichette la fluidità del gesto espressivo. In sintesi, un atteggiamento a tutti gli effetti queer. Ne è un esempio Das Schiffbruch-Triptychon (2025) di Deniz Eroglu, in cui l’importanza del contrasto e della variazione costituisce il suo centro strutturale: un’opera antologica composta da tre episodi, ciascuno dei quali si pone come il rovescio formale e cinematografico degli altri. Con precisione matematica, i diversi elementi che compongono ciascun episodio (dalla dimensione cromatica al peso dei dialoghi, fino al dispositivo di ripresa impiegato) appaiono come l’esatta negazione o il ribaltamento di quelli adottati dagli altri, quasi a inscrivere nella propria forma la dialettica che anima il festival.

In continuità con tale tensione, anche Salomé (2024) di André Antônio e Anapidae (Appelle-moi) (2024) di Mathieu Morel – entrambi debitori del Manifeste Flamme (Poggi, Vinel, Gonzales, Mandico, 2018),1 promotore di un’estetica e di una strategia narrativa ormai sintetizzate nell’espressione cinéma-rêve – sono basati sulla sovrapposizione e sull’intreccio di elementi tra loro idealmente distanti, con l’identità queer che emerge nella fusione di codici. Sul medesimo livello convivono infatti immaginari e soluzioni linguistiche provenienti dai generi più disparati: dal dramma sociale all’horror, dal melodramma alla fantascienza, dalla commedia al thriller, costruendo narrazioni che sembrano (non) indagare ora le dinamiche emotive e relazionali che regolano quei mondi, ora le modalità di rappresentazione e performatività di genere – tanto dei personaggi quanto dell’opera stessa. Da una differente prospettiva, A Body To Live In (2025) di Angelo Madsen, vincitore del premio della giuria Circuito Festival, lavora sull’unione di materiali di repertorio di varia natura per ripercorrere la vita e l’opera di un pioniere della body art queer, Fakir Musafar, ponendo il corpo come principale veicolo di espressione e significato, come terreno di continua trasformazione identitaria.

Sono film che sembrano parlarsi, contraddirsi e cercarsi, ciascuno riflettendo o ribaltando lo sguardo (stilistico o tematico) dell’altro, in un continuo dialogo che attraversa l’intero festival. In questo panorama di scambi e sovrapposizioni, a emergere sono soprattutto quelle opere che – pur sempre nel segno di una libertà espressiva restia ai confini semantici – sembrano nascere da un’urgenza, da un bisogno intimo e personale di esprimere ciò che si cela nel profondo. Vincitore del Premio miglior lungometraggio per la giuria internazionale, La limace et l’escargot (2024) di Anne Benhaïem si presenta come la proiezione di un racconto immaginario, di una fantasia dolceamara che abita la mente dell’autrice. Con un andamento narrativo semplice, quasi sussurrato, ben lontano dal barocchismo di Antônio e Morel, viene messo in scena l’incontro fisico ed emotivo tra due anziani claudicanti destinati a perdersi, con la regista a incarnare il proprio doppio. Analogo è ciò che muove Te separas mucho (2024) di Paula Veleiro – vincitore del premio del pubblico – dove, intrecciando verità e menzogna, simulazione e documento, la regista cerca di affrontare il dolore di una separazione, ripercorrendo la loro storia e fantasticando su un ultimo incontro (confronto) mai avvenuto. Le riprese attuali si alternano a quelle girate anni prima dal padre, restituendo un racconto che è insieme personale e famigliare, individuale e universale. E così, pur adottando un linguaggio radicalmente diverso rispetto a Benhaïem, anche qui il cinema diventa strumento di catarsi: un modo per esorcizzare la ferita, un palliativo, l’unica via per poter far avverare i desideri.

Dunque, se c’è qualcosa che quest’anno il Sicilia Queer ha suggerito in ogni suo aspetto – dalla scelta di proiettare Queerpanorama (2025) di Jun Li a quella di dedicare la sezione “Presenze” a Joaquim Pinto e Nuno Leonel, passando per i volti dei soldati sovietici utilizzati come simbolo iconografico dell’edizione – è che oggi più che mai non bisogna dimenticarsi che fare cinema è un atto politico; che organizzare un festival è un atto politico; che scegliere di cosa scrivere è un atto politico. Perché ogni gesto che nasce da un’autentica necessità – che sia appassionato o sofferto, profondo o superficiale – rappresenta, in fondo, una forma di resistenza e di presa di posizione nel mondo. E quindi, inevitabilmente, un atto politico.

References

Poggi, Caroline, Jonathan Vinel, Yann Gonzalez, et Bertrand Mandico (2018). “Flamme.” Cahiers du cinéma 746, juillet/août: 110–111.


  1. Poggi, Caroline, Jonathan Vinel, Yann Gonzalez, et Bertrand Mandico (2018). “Flamme.” Cahiers du cinéma 746, juillet/août: 110–111.↩︎