Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.27 (2025), 213–215
ISSN 2280-9481

L’horror come forma mentis. Pier Maria Bocchi, So cosa hai fatto. Scenari, pratiche e sentimenti dell’horror moderno, Lindau, Torino 2024

Bruno SuraceUniversity of Torino (Italy)

Pubblicato: 2025-07-30

“Quanti film, quanti horror, abbiamo il coraggio di confessare – critici, studiosi, appassionati, spettatori –, ci hanno – precisamente – cambiato la vita? Quanti titoli hanno ri-registrato il nostro sguardo, il punto di vista? L’horror è una forma mentis. Non esistono altri generi altrettanto tirannici e possessivi: non il western, non il noir, non l’animazione”. Siamo a pagina 205 del volume di Bocchi. L’autore sta parlando di Scream, Queen! My Nightmare on Elm Street, documentario diretto da Roman Chimienti e Tyler Jensen del 2019 che restituisce una sorta di “dignità perduta” all’attore Mark Patton, ostracizzato per via della sua performance giudicata troppo omoerotica all’epoca di A Nightmare on Elm Street 2: Freddy’s Revenge (Jack Sholder 1985).

Ma Bocchi, con questa frase, non si limita a un discorso di circostanza. Sentenzia anzi una verità definitiva, che attraversa come sangue pulsante dalla prima all’ultima parola di So cosa hai fatto quale viaggio capillare nella storia di un genere interpretato – finalmente – come sineddoche del cinema tutto. Un genere, l’horror, ricettivo e radicale, pietra angolare che rifrange le istanze di tutti i tempi che visita (nel caso del volume dalla fine degli anni Settanta alla più stretta contemporaneità). E che Bocchi affronta con piglio risoluto ma, soprattutto, mettendo assieme molteplici sguardi: l’affetto del compagno di una vita, che con l’horror è cresciuto e maturato; l’erudizione del critico rodato, le cui parole sono taglienti e chirurgiche; la precisione dell’analista (plus non da poco); la curiosità del cartografo; l’ossessione del collezionista d’antan (d’altronde è lo stesso autore a raccontare a più riprese della fondamentale necessità di un mercato nero di VHS per la sua solida formazione). E, nonostante questa abbuffata di prospettive, ciò che sorprende è che So cosa hai fatto non risulta mai indigesto. Al contrario il testo si fa leggere con l’avidità che usualmente dedicheremmo a un romanzo (vuoi anche per la sapiente incisione di momenti strettamente personali, in qualche modo mai indelicati, sempre acutamente aderenti alla lente d’insieme altrimenti applicata), restituendoci allo stesso tempo una mappatura di straordinaria esaustività – eloquente non solo nel profluvio di riferimenti e concessioni, ma anche nella selezione e nelle calibrate esclusioni – e una proposta esegetica forte, che nel campo aperto dell’horror identifica direttrici, tendenze, problemi.

Già, perché per Bocchi la questione è problematica, riguarda il modo in cui l’horror declina la realtà non solo semplificandola (accusa, questa, banale), ma anche e soprattutto rendendola più complessa, in un doppio squisito movimento. E non solo attraverso i temi che via via, di decennio in decennio, vengono visitati (l’horror essendo il termometro fedele di questo e quello Zeitgeist), ma soprattutto nel suo proporsi in definitiva analisi come una specifica filosofia dell’immagine. All’autore queste interessano, le immagini, che restano al di là dei nostri discorsi su di esse, e non potrebbe essere altrimenti, essendo le immagini stesse testimonianza di una libidine cinefila che Bocchi ha il coraggio di ammantare coi suoi occhi così come di provare a mettere in ordine per chi legge. Chi legge, noi, destinatari di questo dono così personale, si trova di fronte a una sorta di scatola di Lemarchand, da maneggiare con cautela. Strumento potentissimo per gli studiosi non solo del genere, bensì del cinema (e più ampiamente per chiunque abbia l’ambizione di provare a dire qualcosa di sensato sulle culture mano a mano interpellate); scrigno tutt’altro che vergine per chi invece voglia semplicemente godersi una passeggiata, lunghissima, fitta di nomi e di titoli mai elencati in guisa di pretesto, dai fasti cult del mitologico Effects di Dusty Nelson (siamo nel catodicissimo 1979) al neo-kinghiano Dark Harvest di David Slade (2023). Nel mezzo un rastrellamento senza pietà, che un po’ ricorda quella scena – senz’altro dimenticabile (come forse tutto il film, e infatti Bocchi si limita a citarlo en passant a p. 148) – di Final Destination 3D di David R. Ellis (2009): la povera Samantha (Krista Allen) viene freddata da un sasso, finito sotto un trattore-tagliaerba, che le si scaraventa dritto in un occhio trapassandole il cranio. Ecco che Bocchi manovra quel tagliaerba cinefilo, modellando per noi un prato incolto, dissestato dalla gramigna, popolato anche di granturco (location perfetta per molti film dell’orrore), e ogni tanto volontariamente schizzandoci in faccia, dritto sugli occhi, qualche gemma che – pur masticandone qualcosa anche noi – ci era sfuggita. Lo fa, soprattutto, in maniera antirazzista, senza scelte di scuola, e addirittura con l’onestà intellettuale di dichiarare, quando è il caso, i suoi preconcetti o i suoi cambi di rotta giudizial-ermeneutici. Specie in riferimento a quelle opere più recenti le quali, sotto la coltre del marketing dell’elevated horror (Aster, Eggers, l’A24-verse e via discorrendo), non possono che far storcere il naso a chi il genere lo conosce per davvero, e un po’ si sente anche a diritto infastidito dall’ingresso a gamba tesa di critici improvvisati (lo fa ad esempio a p. 143 e seguenti quando ritratta il suo pensiero su Lars Von Trier e, in un certo senso, esplicita la “puzza sotto il naso” della critica come potenzialmente abbacinante rispetto al giudizio sulle opere).

In So cosa hai fatto (che può anche essere letto a spizzichi e bocconi, selezionando solo i film che interessano, ma sarebbe un po’ fare un torto allo sforzo organico che lo regge) troveremo così uno spazio di convivenza fra miti intramontabili come Nekromantik (Jörg Buttgereit 1988) o Non aprite quella porta (Tobe Hooper 1974), geografie dell’immaginario lontane (oltre agli USA il libro è equanimemente distribuito fra j-horror ed Europa almeno) o troppo spesso ingiustamente dimenticate o vituperate (le esperienze mumblecore di Entrance, Dallas Richard Hallam e Patrick Horvarth 2012; lo schifo for its own sake di The Greasy Strangler, Jim Hosking 2016; la giustizia critica nei confronti del povero Dr. Sleep, Mike Flanagan 2019, che il pubblico continua a disconoscere), e perle spesso o quasi sempre ignorate e finalmente restituite a un orizzonte di autorevolezza: penso fra le centinaia di titoli (senza che nemmeno per un soffio io abbia considerato il libro come sterilmente enumerativo) al dittico The Strangers (Bryan Bertino 2008) e The Strangers – Prey at Night (Johannes Roberts 2018), film entrambi di rara icasticità, eppure quasi mai citati, relegati a una sorta di girone apocrifo dell’horror, e qui invece giustamente riportati al posto che gli spetta.

In Italia testi di questo tipo dedicati all’horror sono cosa rara (lo sostiene lo stesso Bocchi nella sua nota bibliografica, p. 267), ma ci sentiamo di dire che lo sforzo di So cosa hai fatto è tale da poter anzitutto efficacemente riempire quel vuoto testé menzionato, così come di configurarsi come un testo di altissimo livello nel mercato internazionale dei film studies. E mentre aspettiamo dunque la versione “doppiata” in inglese, riprendiamo a leggere le righe con cui Bocchi conclude la sua analisi di Koko-di Koko-da (Johannes Nyholm 2019), horror-loop-film svedese che con istrionica verve riflette, fra le altre cose, sull’accartocciarsi del reale quando la coppia entra in crisi. Fra le pieghe di questo accartocciamento, eccolo, come un aspide, che si intrufola il genere, e qui “[…] ancora una volta, si impadronisce della realtà. E la realtà, nell’horror, incontra la sua nemesi” (p. 198).