“Una hit è un pezzo che nei primi dieci secondi che è partito ti dà già qualcosa”
Zef (Stefano Tognini)1
1 Introduzione
Già agli albori del XX secolo, al tempo in cui le prime attività fonografiche venivano strutturandosi entro logiche industriali, le musiche esistenti dovettero confrontarsi con la pressione selettiva esercitata dalla nascente fonografia, derivante della limitata capienza dei primi supporti discografici e dalle loro scadenti qualità timbriche: uno scenario da cui trassero vantaggio le musiche sviluppate in forme brevi e gli organici strumentali connotati da maggiore “fonogenicità” rispetto alle primordiali tecnologie acustiche2 (Fabbri 2021: 313–318). In quel periodo, tra i tanti cambiamenti che interessarono l’universo musicale, si consolidarono i canoni formali della canzone americana nata per la commedia musicale, che si riverberarono in moltissime canzoni dei decenni a seguire. Nella sua forma classica il song di Broadway prevedeva, difatti, un primo momento di natura teatrale (il verse) a cui seguiva un nucleo musicale, sovente organizzato in forma AABA (Cerchiari 2017: 134–136). Nel corso degli anni, il verse venne progressivamente espunto per ragioni molteplici, essenzialmente riconducibili ai limiti temporali delle registrazioni su 78 giri, ai ritmi serrati degli spettacoli delle orchestre da ballo e alle programmazioni incalzanti delle trasmissioni radiofoniche. Ciò che sopravvisse al trasferimento della canzone dal palcoscenico al disco fu invece l’impianto formale AABA (chorus-bridge),3 un costrutto che possedeva le caratteristiche d’immediatezza richieste dai mass media degli anni Trenta, che in quel periodo si andavano adeguando all’ascolto radiofonico, con programmazioni mirate a gruppi di ascoltatori omogenei per gusti e consumi, da tenere costantemente “uncinati” evitando che cambiassero stazione (Fabbri 2006: 558–560).
Quella in cui ci troviamo a vivere oggigiorno è di fatto un’epoca post-discografica, segnata da un deciso ridimensionamento del disco come supporto fisico e da un celere invecchiamento del formato album, in cui anche il ruolo della singola canzone si presta ad essere profondamente ripensato (Tomatis 2021a: 75). In un complesso ecosistema mediale in cui coesistono portali per lo streaming, social media e software di composizione avanzati, sono state notate accelerazioni nei processi di ottimizzazione dei prodotti musicali alle affordances delle piattaforme. Ad esse si associano fenomeni di standardizzazione tecnica che sembrano aver ridotto il ventaglio delle possibilità creative a disposizione dei produttori, i quali dal canto loro segnalano l’impossibilità di cimentarsi con soluzioni particolarmente originali (Raffa 2024: 163–213). In questo scenario, in cui la popular music esiste in forte relazione alla circolazione sui social e sulle piattaforme di streaming, è lecito domandarsi se la forma canzone stia mutando in funzione della proliferazione di usi e di spazi (Tomatis 2023), ovvero se in una fase di coesistenza e di transizione dal disco fisico al web si stiano in qualche modo replicando trasformazioni simili a quelle appena accennate relativamente al song di Broadway.
1.1 Contenuti dello studio e lettura dei risultati
Riportando la domanda allo scenario italiano, il presente lavoro mira ad osservare alcune mutazioni macroformali della canzone sanremese avvenute dalla nascita dei primi supporti digitali ad oggi. Allo scopo sono state rilevate le durate totali e le durate delle sole introduzioni musicali di tutti i brani partecipanti nella categoria campioni del Festival di Sanremo, dal 1983 al 2025. I dati così ottenuti sono stati elaborati e valutati sia singolarmente che in relazione reciproca, pervenendo così a una serie di rappresentazioni grafiche che verranno presentate nella prima parte del testo e sulla base delle quali verranno discusse le tendenze più significative nel periodo in esame.
Nella seconda parte del lavoro si intende invece tratteggiare lo scenario in cui contestualizzare tali trasformazioni. L’obiettivo di questa ricostruzione non sarà quello di suggerire una lettura deterministica dei fenomeni basata su specifici nessi causali, bensì quello di supportare un’interpretazione globale dei risultati mostrati nei paragrafi iniziali. In quest’ottica, una panoramica d’insieme dovrebbe tener conto di una pluralità di dinamiche, che si estendono al di là dei fenomeni inerenti al solo trasferimento della canzone dal disco fisico al web, e chiama in causa, tra gli altri, anche i cambiamenti dei processi produttivi o il rinnovarsi di pratiche sociali e culturali (Prior 2018; Born 2022). Gli spunti che emergono da un approccio di questo tipo appaiono innumerevoli e invitano a problematizzare le mutazioni della forma canzone anche in chiave storica, individuando complesse relazioni rispetto al susseguirsi delle tendenze stilistiche che hanno segnato il contesto musicale italiano.
Già in uno studio di Roberto Agostini (2007) sono state esplorate le caratteristiche della canzone sanremese tra il 1964 e 1967, periodo in cui la musica nazionale attraversava una fase di rinnovamento sospinta dalle istanze giovanili, dall’affermazione del beat italiano e dai fenomeni cantautorali. In quel percorso di modernizzazione della scena mainstream, giocato su un delicato equilibrio tra le correnti innovatrici e quelle più conservatrici, da un lato persero appeal il jazz, le musiche sudamericane e quelle regionali, dall’altro cambiarono le sonorità e le costruzioni formali delle canzoni, che si indirizzarono verso modelli più elaborati e connotati da introduzioni più brevi.
La contrapposizione tra le formule musicali già consolidate e quelle più aperte alle novità alimentò i processi di rinnovamento del Festival anche in tempi successivi. All’alba degli anni Ottanta, a partire dalle edizioni a conduzione Cecchetto, il Festival virò verso una nuova estetica pienamente ispirata all’universo luccicante delle discoteche. Complice il passaggio definitivo alle basi registrate, culminato con le esibizioni in playback, il sound sanremese fece proprie le sonorità dell’epoca legate alla disco music, le quali si innestarono su stilemi preesistenti, anche quelli di stampo angloamericano votati al blues, al folk o al rock. In quella cornice si inserirono alcuni brani di cantautori emergenti, nati dal comune desiderio di porsi in alternativa alle nuove mode con soluzioni che si allontanavano dalle forme canoniche della canzone sanremense. Di questo approccio, ne furono esempi significativi brani come Vado al massimo, Sette fili di canapa e Contessa, che si distinsero per gli inusuali sviluppi melodici delle strofe e per la sostituzione dei tipici ritornelli cantabili con brevi incisi ritornellanti (Facci e Soddu 2011: 205–215).
In tempi più recenti, nuova linfa per l’ammodernamento della canzone sanremese è derivata dal trionfo sul palco del Festival dei primi artisti rap, avutosi per la prima volta nel 2014, con l’affermazione di Rocco Hunt nella categoria nuove proposte. Con la sua Nu juorno buono, Hunt presentò al grande pubblico un brano in grado di condensare l’eredità complessa di un rap italiano-napoletano che faceva i conti con un mercato nazionale capace di accogliere canzoni rap solo a condizione che contemplassero un consueto ritornello cantabile, e al contempo coniugava strofe rappate in italiano e ritornelli melodici intonati in dialetto, consacrando così un paradigma stilistico-formale perfezionato appena qualche tempo prima nei lavori di Clementino (Zukar 2021: 135–138).
Questa breve digressione ricorda come le trasformazioni delle proposte musicali a Sanremo, anche quelle di tipo formale osservate in questo studio, si concretizzano in un quadro in cui si compenetrano una moltitudine di fattori, non solo mediali, e riconducono a una riflessione vasta e articolata che potrebbe estendersi finanche a valutazioni in chiave retrospettiva e a considerazioni sul rapporto del Festival con il sistema culturale nazionale. Fatta salva questa premessa nodale, alla luce degli spazi e delle finalità della presente trattazione che renderebbero difficoltoso abbracciare compiutamente uno scenario così ramificato ed esteso su un periodo di studio di oltre quarant’anni, si è ritenuto opportuno riferire la lettura dei risultati a due ambiti specifici, che riguardano da un lato la transizione della canzone dallo spazio fisico a quello del web a cui si è già accennato in apertura, dall’altro le disposizioni normative della competizione canora. Nella fattispecie, dunque, dopo un’introduzione di carattere metodologico, di seguito verranno presentati i risultati emersi dall’analisi del campione, i quali saranno dapprima confrontati con gli andamenti osservati nello scenario internazionale e successivamente corredati da una ricostruzione inerente ai cambiamenti dei formati e delle modalità di fruizione che hanno segnato il panorama musicale dal 1983 sino ai giorni nostri, e infine da una valutazione circa le possibili relazioni tra le mutazioni macroformali della canzone sanremese e i regolamenti del Festival.
2 Criterio metodologico
Si è deciso di focalizzare la ricerca sulle canzoni in gara a Sanremo per una serie di ragioni specifiche, che includono la capacità del Festival di rappresentare un’idea di canzone italiana largamente condivisa, della quale ne ha fissato nel tempo gli elementi formali correlandoli saldamente a una rete di significati, nonché la sua attitudine a intercettare molte delle articolate dinamiche culturali che presiedono gli sviluppi della popular music in Italia, rispetto alle quali la Rai e l’editoria musicale giocano un ruolo determinante (Tomatis 2021b: 50). A ciò si somma la valenza che, più in generale, il Festival conserva sin dalla sua nascita nel 1951 nella sfera pubblico-mediale italiana, riconducibile alla sua capacità di costituire un luogo ideale per la negoziazione, il confronto e finanche lo scontro non solo su temi meramente musicali, ma anche sul piano culturale in senso lato (Barra et al. 2019).
Circa la periodizzazione, volendo osservare le trasformazioni accorse alla forma canzone in epoca digitale, la raccolta dei dati si estende dall’edizione del 1983, anno in cui la Polygram lanciò sul mercato italiano i primi 180 titoli su compact disc (Vita 2019: 315), a quella più recente del 2025. Il dataset è costituito complessivamente da 934 canzoni e comprende i brani che hanno concorso nella categoria campioni (o nelle equivalenti big, artisti e analoghi), i quali sono stati analizzati prioritariamente nella loro versione discografica.4
In accordo alle definizioni più comuni nella letteratura di settore, per introduzione si è intesa la porzione iniziale della canzone, generalmente breve e a carattere strumentale, destinata a stabilire l’ambientazione musicale (tempo, mood, materiale caratteristico) e a condurre l’ascoltatore verso il nucleo principale del brano, dirigendone l’attenzione sull’attacco della melodica vocale (Middleton 2003: 510; Tagg 2012: 477–479). Tale sezione fornisce sovente la cornice armonica del brano e sottende una pluralità di approcci compositivi: può anticipare di elementi tratti dalla strofa o dal ritornello, contenere dei virtuosismi, basarsi su riff caratteristici o anche svilupparsi per stratificazioni musicali intorno a un groove di partenza (Nobile 2023: 119–120). Insieme alle outro, le introduzioni sono spesso state considerate tra le sezioni meno influenti nella definizione strettamente formale di un brano (Everett 2009: 152; Ensign 2015: 26–27) e talvolta sono state concettualizzate come elementi operanti a livello macrostrutturale della canzone (de Clercq 2012: 99–110). Tuttavia, in una prospettiva più ampia, i caratteri distintivi di una introduzione possono offrire indicazioni particolarmente utili relativamente alle applicazioni funzionali di un brano, a partire dalle quali è plausibile formulare ipotesi in merito alla sua specifica destinazione, sia questa il contesto coreutico, l’intrattenimento radiofonico, la comunicazione politica e così via (Appen and Frei-Hauenschild 2015: 2). Philip Tagg (2012: 477–479) ha inoltre ricordato come le sezioni d’apertura offrano peculiari vantaggi per l’analisi semiotica di molte espressioni della popular music, legati alla possibilità di apprezzare la sola componente musicale senza distrazioni derivanti dal testo e dalla melodia, di cogliere distintamente i vari elementi sonori che – nel caso di parti costruite per stratificazione – compongono la base musicale, nonché di sintetizzare in un brevissimo spazio i tratti essenziali di un’intera canzone.
Per quanto concerne gli obiettivi del presente lavoro, sono state pertanto conteggiate come introduzioni le sezioni che precedono la linea melodica principale del canto e che, pur brevi, anticipano un qualche contenuto musicale attinente ai successivi sviluppi del brano (anche semplicemente un cenno melodico, una matrice ritmica o accordale, ecc.). Diversamente gli incipit privi di contenuti musicali significativi (come ad esempio meri effetti sonori, tipo swoosh, accordi isolati o singoli colpi percussivi) non sono stati ritenuti vere e proprie introduzioni – e quindi valutati nulli in termini di durata. A partire dai valori raccolti, per ogni singola annualità è stata calcolata la durata totale media delle canzoni, la durata media delle introduzioni e il rapporto percentuale medio durata intro/durata totale. Per ogni anno è stato altresì conteggiato il numero di brani privi di introduzione, valutandone così l’incidenza percentuale in ogni edizione. Dall’insieme dei dati analizzati è stato quindi possibile ricavare i quattro grafici riportati e discussi di seguito.
3 Analisi dei risultati
3.1 Durata totale delle canzoni
Il primo parametro registrato nel presente studio riguarda la durata complessiva delle canzoni. Sul grafico sottostante si riportano le durate medie dei brani (in secondi) per ogni edizione esaminata.
L’osservazione del grafico ottenuto, sul quale si riporta per comodità di lettura una linea di tendenza tratteggiata, suggerisce una serie di considerazioni specifiche: in primo luogo si può constatare una crescita delle durate dei brani nel periodo compreso tra il 1983 e 1993 (che passano da una durata media di circa 3’45” nel 1983 a quasi 4’30” del 1991). Negli anni successivi la tendenza si inverte, e nel decennio 1994–2003 le durate delle canzoni iniziano gradualmente a decrescere, restando tuttavia indicativamente comprese tra 4’15” e 3’50” minuti. A partire dal 2004 si rileva una drastica riduzione delle durate, un trend che sembrerebbe rallentare solo a partire dal 2020 (il condizionale è d’obbligo in ragione della vicinanza temporale delle ultime rilevazioni). Nello specifico, a partire dal 2020 la durata delle canzoni si attesta intorno ai 3’25”, ovvero entro un range compreso tra i 3’30” e i 3’14”. La riduzione complessiva delle durate dei brani dalla fine degli anni Novanta ad oggi è dunque quantificabile in circa 45 secondi (da 4’10” a 3’25”), un valore che corrisponde a una contrazione del 18%.
3.2 Durata delle introduzioni
Il secondo dato rilevato dallo studio riguarda la durata delle introduzioni dei brani. I valori indicati esprimono l’intervallo di tempo medio (in secondi) che intercorre tra l’inizio della traccia audio e l’intervento della linea melodica del canto.
Tra il 1983 e il 1991, le rilevazioni evidenziano un aumento significativo delle durate medie delle introduzioni, che oscillano tra un minimo 12,6 secondi nel 1984 e un massimo di 21,1 secondi nel 1991. Negli anni a seguire, essenzialmente fino al 2004, le introduzioni si stabilizzano intorno ai 15 secondi, restando in un range compreso tra 13 e 18 secondi. A partire dal 2005 si può osservare una progressiva compressione delle introduzioni: una tendenza che ad oggi – diversamente da quanto appare con le durate totali – non sembra ancora del tutto esaurita, né tantomeno mostra particolari segni di rallentamento. Nell’ultimo quinquennio le durate medie delle introduzioni si attestano generalmente intorno agli 8 secondi, un valore praticamente dimezzato rispetto a quello rilevato nel periodo 1992–2004 (intorno ai 15 secondi). Si segnala che l’entità di tale compressione (ca. 50%) è notevolmente maggiore rispetto alla riduzione osservata sulla durata totale dei brani (ca. 18%), un dato che evidenzia come, pur nel contesto di una contrazione generalizzata della canzone, la sezione introduttiva abbia subito un taglio più pesante – in proporzione – rispetto al resto del brano.
3.3 Peso dell’introduzione sul totale della canzone
La differente entità della riduzione tra le durate delle canzoni e quelle delle introduzioni è meglio descritta dal grafico sottostante, sul quale si riportano i rapporti percentuali medi tra le estensioni delle intro e le durate totali. In questo modo è possibile valutare la compressione della sezione introduttiva al netto del contributo derivante dall’accorciamento complessivo delle canzoni.
Lungo tutto il lasso di tempo analizzato si evidenzia un netto ridimensionamento delle introduzioni. Nella fattispecie, si può osservare come l’estensione complessiva della sezione d’apertura passi dal rappresentare il 6,2% della lunghezza totale del brano nel periodo 1983–2004, al 3,7% nel periodo 2020–2025 (valori mediani).
3.4 Presenza di brani senza introduzione
L’ultimo grafico prodotto mostra la percentuale di brani senza introduzione in ogni edizione.
Nel complesso si nota come una discreta quantità di canzoni prive di intro sia sempre stata presente al Festival. Nella maggior parte delle edizioni che vanno dal 1983 al 2004, queste rappresentavano una porzione contenuta entro il 10% dei brani in gara nella categoria campioni (il 4,4% se si osserva il valore mediano). Le canzoni senza introduzione negli anni successivi sono aumentate notevolmente, arrivando a rappresentare oltre il 21,5% del campione nel periodo compreso il 2020 e il 2025 (valore mediano), con un picco del 31% nel solo 2025.
4 Confronto con lo scenario internazionale
I risultati presentati nel paragrafo precedente riferiscono di tendenze specifiche del contesto italiano, che possono essere utilmente confrontate con quanto si verifica in ambito internazionale. Già nel 2018 Liz Pelly, discutendo le caratteristiche stilistiche e formali del nuovo genere etichettato dalla critica come spotify-core – che abbraccerebbe le produzioni espressamente votate alla fruizione in streaming – aveva segnalato la proliferazione di brani sempre più brevi e connotati dall’arrivo dei chorus già nelle fasi iniziali, concepiti per rispondere alle leggi di una nuova “attention economy” (Pelly 2018). Analoghe trasformazioni sono state segnate da Danny Wright, che ha evidenziato come il processo di riduzione delle durate, attivo da diversi anni, stia subendo in tempi recenti una brusca accelerazione. L’articolo di Wright, pubblicato nell’aprile 2023, ha preso in causa sia il fenomeno delle playlist che le logiche di condivisione della piattaforma Tik Tok, evidenziando nel complesso una moltiplicazione di brani sempre più brevi, con hook esposti già nelle fasi iniziali, i quali si connotano anche per la mancanza di intro e code (Wright 2023). Sia Pelly che Wright hanno inoltre sottolineato come gli album musicali più recenti diventino sempre più estesi e costituiti da un numero crescente di brani.
Nel gennaio 2024 Szu Yu Chen ha pubblicato per Washington Post un articolo in cui discuteva specificamente della variazione di durata delle canzoni. Nell’articolo è stata riporta la lunghezza media dei brani presenti nella classifica Billboard Hot 100, rilevando una durata media di 2’46” per quelli pubblicati negli anni Cinquanta, un valore cresciuto costantemente sino agli anni Novanta, decade nella quale la durata media si sarebbe assestata intoro a 4’14”, con un picco massimo nel 1992 (4’21”), per poi tornare a valori di 3’15” a partire dal 2020 (Szu Yu Chen 2024). Fermo restando che il lavoro di Szu Yu Chen si colloca nell’ambito dell’indagine giornalistica, il trend che evidenzia sembra confermare quanto osservato per le canzoni sanremesi al paragrafo precedente, segnate da una progressiva crescita delle durate sino agli anni Novanta (quando arrivarono a superare ampiamente i 4 minuti) e una successiva riduzione (con valori medi che si attestano attualmente intorno ai 3’25”). Anche Szu Yu Chen ha segnalato qualitativamente la progressiva scomparsa delle introduzioni e l’avvicinamento degli hook all’inizio dei brani, indicando nel modello pay-per-play attuato dalle piattaforme di streaming una delle ragioni principali alla base di tali mutazioni.
Altri osservatori hanno fotografato l’attuale durata delle canzoni, evidenziando come nel 2024 la maggior parte dei brani apparsi nelle classifiche Spotify rientrassero tra i 2’51” e i 3’09”.5 La spiccata brevità delle canzoni prodotte nel 2024 trova ulteriore conferma se si osserva che dei 144 brani nominati ai Grammy Award dello stesso anno, 28 (ovvero poco meno del 20%) hanno durata inferiore ai 3 minuti (Schwartz 2024). Contestualmente è stato anche notato che la riduzione delle durate degli ultimi anni ha interessato la produzione popular indipendentemente da generi specifici; in particolare, tra il 2018 e il 2024 è stata rilevata una riduzione generalizzata di 17”, con picchi fino a 29” nell’ambito della musica latina e nell’hip-hop (Chien 2025).
Nel complesso, tutte le rilevazioni citate trovano supporto in un articolo pubblicato già nel dicembre del 2020 da un gruppo di ricerca interno alla UCLA Herb Alpert School of Music, in cui si rendevano noti i risultati di un’indagine condotta su un dataset di 160.000 brani presenti in Spotify, volta ad individuare eventuali correlazioni tra i maggiori elementi stilistici e formali delle canzoni e la loro popolarità (Gangiredla et al. 2020). Per quanto concerne le durate dei brani, nell’articolo dell’UCLA è stato analizzato un arco temporale di novant’anni, a partire dal 1930 sino agli anni Venti del XXI secolo. Similmente alle altre ricerche richiamante è stata rilevata una iniziale crescita delle durate, che va dai 195 secondi (3’15”) del 1930, ai 259 secondi (4’19”) degli anni Novanta, e una successiva riduzione, fino ai 197 secondi (3’17”) del 2020. Anche in questo caso i trend evidenziati e i valori di durata individuati, appaiono coerenti con le tendenze dei brani sanremesi rilevate in questo studio.
5 Le modalità di fruizione e i regolamenti di Sanremo
5.1 Dal vinile alla piattaforma
Le trasformazioni della forma canzone discusse ai punti precedenti vanno lette alla luce di un quadro complesso di cambiamenti nella produzione musicale, che ha visto l’avvicendarsi di diversi supporti e profondi rinnovamenti dei metodi di fruizione.
I primi anni Ottanta del XX secolo si caratterizzarono per una significativa flessione del mercato discografico italiano, che tra il 1979 e il 1980 segnò una contrazione del 3,2% del fatturato e un calo dell’11% delle copie vendute. La recessione, che interessò in particolar modo il segmento dei 45 giri, fu sospinta dal sensibile aumento dei prezzi perpetuato dalla gran parte delle etichette discografiche e si protrasse negli anni seguenti, culminando nel 1983 con la richiesta ufficiale da parte dell’AFI al Governo dello stato di crisi e l’attivazione della cassa integrazione per alcune delle maggiori case discografiche. Nel complesso, tra il 1980 e il 1983 la produzione fonografica crollò da 23 a 16 milioni di 45 giri, da 22 a 19 milioni di 33 giri e da 21 a 14 milioni di audiocassette (Vita 2019: 311).
Nel 1983 la Polygram commercializzò in Italia i primi 180 titoli su compact disc, con prezzi che raggiungevano quasi il doppio di un tradizionale LP. Dallo stesso anno tutte le etichette iniziarono a pubblicare su entrambi i formati, sebbene per buona parte del decennio il vinile rimase il supporto privilegiato. Dal 1987 fino ai primi anni Novanta le vendite su CD crebbero generando positive ripercussioni sull’intero settore. Le copie vendute passarono da 4,5 milioni nel 1987 a 16 milioni nel 1990, superando così in quell’anno le vendite di vinili ferme a 14,5 milioni (Vita 2019: 315–316).
Sul piano della capienza i CD garantivano prestazioni decisamente superiori rispetto al vinile. Già le prime versioni consentivano di immagazzinare poco meno di 75 minuti di musica, che arrivarono fino a 90 minuti nel giro di pochi anni, contro i 45–50 minuti a disposizione del classico vinile, che negli anni Ottanta costituivano tipicamente il limite di durata per le produzioni pop, le quali solo in rari casi si estendevano su album doppi. (Sibilla 2008: 52) L’accresciuta capienza consentì una riorganizzazione interna delle musiche e, nel caso di ristampe di LP già prodotti, il surplus di tempo a disposizione venne tipicamente colmato con l’inserimento di brani inediti (Cerchiari 2014: 201). Contestualmente il nuovo formato offriva la possibilità di navigare agilmente tra le tracce di un album, il che fece del CD un primo caso di atomizzazione delle testualità musicale in singole unità programmabili nel tempo (Sibilla 2008: 70).
Tuttavia, se da un lato il CD si basava su una tecnologia innovativa e futuristica, che gettava le basi per un ripensamento in ottica digitale nel settore musicale (Daniel 2019), dall’altro, il nuovo supporto non cambiò le abitudini dei consumatori e non alterò nella sostanza gli assetti industriali consolidati. Come osservano Bonini e Magaudda (2023: 26–27), con l’avvento del compact disc si ricalcarono le medesime strategie di rinnovamento tecnologico attuate nell’industria musicale dai tempi del grammofono. Il nuovo formato nacque, difatti, dallo sforzo congiunto di due colossi industriali – Sony e Philips – già attivi nel settore sia come costruttori di lettori, che come produttori di contenuti attraverso le proprie diramazioni discografiche: multinazionali che riproponevano un modello di business basato sulla contemporanea commercializzazione di macchine per la lettura (fonografi, grammofoni, walkman) e supporti fisici ad esse destinati (cilindri, dischi, musicassette). Anche riguardo alle dinamiche di diffusione sul mercato, i CD non portarono particolari innovazioni: furono commercializzati in larga parte negli stessi negozi già deputati alla vendita di vinili e cassette, e vennero destinati in prima battuta alla di fascia di consumatori più abbienti (ascoltatori di musica classica, di opera e appassionati di hi-fi), ricalcando in questo modo una strategia commerciale già osservata in occasione dell’introduzione di precedenti tecnologie discografiche (Bonini and Magaudda 2023: 26–27).
La svolta tecnologica che scosse effettivamente l’industria musicale si ebbe solo a fine anni Ottanta con la nascita dell’MP3, un formato audio digitale “leggero”, che segnò il passaggio concettuale dalla fisicità dei supporti tradizionali alla dimensione immateriale dei file stoccabili negli hard disk (Sibilla 2024: 213–216). È interessante rilevare che l’MP3 non venne né ideato, né inizialmente promosso dalle grandi case discografiche, ma fu supportato quasi totalmente con iniziative dal basso, sovente con progetti amatoriali che cercavano visibilità nel sempre più affollato universo del web (Bonini and Magaudda 2023: 28). Al netto dei problemi legati al mantenimento della qualità audio, il formato MP3 aprì la strada a inediti sistemi di file sharing, attraverso i quali gli utenti poterono condividere la musica liberamente, aggirando vincoli di tipo legale. Il più noto di questi portali, che escludevano la mediazione delle industrie discografiche nella fruizione musicale, fu Napster, fondato nel 1999 e chiuso nel 2001, divenuto l’emblema della pirateria informatica dei primi anni Duemila.
In quel frangente storico la musica registrata parve finanche allontanarsi dalla sua definizione di merce correlata allo scambio di denaro, portando così al centro del dibattito una profonda riflessione sulla proprietà intellettuale. La diffusione dei sistemi di file sharing consentì, difatti, al pubblico di accedere ad ampi cataloghi musicali eludendone i relativi costi d’acquisto, uno stato di cose in ragione del quale l’MP3 assunse il peculiare status di oggetto culturale di valore in grado di circolare anche al di fuori dell’economia del valore (Sterne 2006). Attraverso la logica peer-to-peer che prevedeva lo scambio di file tra i diversi utenti senza necessità di server intermedi, Napster aveva minacciato di alterare alle fondamenta gli equilibri dell’industria discografica, ridefinendo il ruolo dell’ascoltatore, che da mero fruitore, destinatario ultimo di una catena di distribuzione, assumeva su di sé il ruolo del distributore stesso. In quello scenario, le major si attivarono sia per affermare il proprio ruolo di promotrici naturali del passaggio alla musica digitale, che per arginare le iniziative illegali. L’industria discografica iniziò così ad agire su più fronti, mettendo in atto strategie educative, commerciali, legali e anche tecnologiche, tra cui rientrarono i sistemi DRM (digital rights management) espressamente concepiti la tutela del copyright (Gillespie 2007).
Il primo tentativo di ricondurre nel perimetro della legalità i sistemi di file sharing si ebbe nel 2003, quando Apple lanciò la propria piattaforma iTunes Music: un negozio di musica digitale pensato per integrarsi con i lettori iPod commercializzati dalla stessa azienda (apparecchi resi obsoleti dalla rapida diffusione degli smartphone e messi fuori produzione nel 2019), che nel 2007 arrivò a detenere circa il 70% della musica digitale (3 miliardi di brani) (Sibilla 2024: 215).
I processi di digitalizzazione del consumo musicale che scaturirono dalla diffusione del formato MP3 e dalla conseguente ristrutturazione delle logiche di produzione e distribuzione hanno stabilito i presupposti per la successiva piattaformizzazione della fruizione musicale. Nell’arco temporale che va dalla nascita di Napster (1999) a Spotify (2008) si sono fatti strada nuovi intermediari dell’industria musicale (gatekeepers), che molto rapidamente hanno affiancato, e parzialmente sostituito, quelli tradizionali, fino ad allora rappresentati da una rete di attori interconnessi: case discografiche, promotori musicali, giornalisti e critici, disc jockey radiofonici, proprietari di locali, organizzatori di festival negozi di musica e – in misura minore – piccole emittenti radio, fanzine e comunità di fan (Bonini and Magaudda 2023: 78–79). In particolare, la modalità di distribuzione e fruizione della musica è stata pienamente ripensata a fronte dell’affermazione delle piattaforme di streaming come Apple Music e Spotify, al punto che oggigiorno l’inserimento nelle playlist promosse dagli stessi portali è arrivato a costituire un passaggio ineludibile per ogni produzione musicale che aspiri al successo commerciale (Prey et al. 2020, Gandini 2024: 309–310).
Le ragioni del successo riscosso delle piattaforme sono state individuate non solo nell’ampiezza dei cataloghi che esse hanno reso costantemente accessibili, ma in larga parte anche nei processi di dataficazione attraverso i quali i portali di streaming riescono a tradurre in preziose informazioni digitali le preferenze dei propri utenti, che possono così essere elaborate su base algoritmica migliorando l’offerta strategica verso il pubblico (van Dijck et al. 2018). Tuttavia, tali processi algoritmici non costituiscono gli unici fattori a guidare la riconfigurazione dell’offerta musicale operata da piattaforme come Spotify. Nel quadro generale è stato, difatti, evidenziato come rimangano centrali sia le strategie di tipo editoriale, tra cui quelle finalizzate ad acquisire o mantenere il controllo di precisi settori di mercato, sia quelle operate dal pubblico, che conserva un margine di influenza sui meccanismi tecnici alla base del funzionamento delle piattaforme, ad esempio con interventi che escludono il tracciamento delle proprie preferenze (Magaudda 2022).
I profondi cambiamenti che hanno interessato i metodi di fruizione sembrano entrare in relazione anche con i processi che sottendono la produzione dei contenuti. In quest’ottica, con un suggestivo parallelismo con gli effetti fonografici con cui Mark Katz (2004) ha descritto le influenze esercitate sulla musica dalle tecnologie fonografiche, Jeremy Morris (2020) ha esplorato le relazioni che intercorrono tra la produzione musicale e le logiche che governano i servizi di streaming, evidenziando peculiari processi di ottimizzazione attraverso i quali i creatori di contenuti cercano di massimizzare la circolazione dei propri lavori sulle piattaforme.
La propensione all’ottimizzazione dei prodotti musicali rispetto alle affordances delle piattaforme sembra altresì accompagnarsi ad un contestuale aumento dei fenomeni di standardizzazione tecnica che tendono a comprimere il novero delle soluzioni creative a disposizione dei produttori. Per giunta, gli stessi songwriters e produttori evidenziano come nel quadro dell’attuale organizzazione del lavoro, sotto le incalzanti pressioni esercitate dalle committenze, siano di fatto impedite le sperimentazioni particolarmente innovative (Raffa 2024: 163–213). Viene così segnalata la necessità di adeguarsi al “diktat delle piattaforme digitali e delle radio” che richiederebbe di “catturare l’ascoltatore entro i primi cinque secondi”,6 un aspetto che influirebbe sull’attuale forma delle canzoni pop, che devono essere connotate da “strofe brevi, ritornelli immediati [e] durata ridotta all’osso”.7
Alla luce delle dinamiche che presiedono il nuovo scenario mediale, i prodotti culturali e i servizi offerti dalle piattaforme, continuamente informati dai feedback degli utenti, appaiono contingenti, ovvero flessibili, modulari nella progettazione e sempre aperti a continui aggiornamenti (Nieborg and Poell 2018). Un ruolo determinante in questo senso lo giocano le playlist, all’interno delle quali, diversamente da quanto accadeva in passato con le tracklist dei dischi, la posizione dei singoli brani muta continuamente a seconda dell’azione combinata di logiche algoritmiche, feedback degli utenti e strategie curatoriali (Bonini and Gandini 2019). Dal canto loro gli operatori delle case discografiche addetti al playlisting8 preferiscono incentivare la produzione di brani che catturino immediatamente l’attenzione dell’ascoltatore, canzoni caratterizzate da introduzioni contenute, con hook esposti nelle fasi iniziali, che siano capaci di trattenere l’ascoltatore per un minimo di 30 secondi, un tempo che alcuni osservatori hanno indicato come il limite minimo per il riconoscimento dei diritti da parte dei servizi di streaming (Hodgson 2021: 10). Ancora più attraenti risultano i brani in grado di trattenere l’ascoltatore per tempi più lunghi in virtù della maggiore probabilità che possiedono di essere inclusi nelle playlist delle piattaforme (Hodgson 2021: 10). Difatti, ogni qualvolta un utente decide di passare da una canzone alla successiva lo skip viene registrato dal portale e ricondotto a un sistema di preferenze, che favorisce l’inserimento in playlist di brani con un basso numero di skip. In questo contesto è plausibile che le canzoni più lunghe della media siano sfavorite, in quanto si ritiene possibile che ottengano un maggior numero di skip, con conseguente ricaduta sulle preferenze delle case discografiche (Fabbri 2021: 318).
5.2 Durata e regolamento
Secondo alcuni osservatori i limiti di tempo imposti dai regolamenti del Festival possono aver influito sulle caratteristiche delle canzoni:9 un rilievo sensato che offre lo spunto per una riflessione specifica, utile a soppesare il contributo delle disposizioni regolamentari sugli andamenti individuati ai paragrafi precedenti. A riguardo, va innanzitutto rilevato che i limiti di durata si riferiscono tipicamente ai brani eseguiti durante lo spettacolo, senza necessariamente produrre un vincolo diretto sulla durata delle versioni discografiche oggetto di questo studio, ovvero sulla forma in cui le canzoni giungono agli ascoltatori nella fruizione quotidiana; un fattore che spiegherebbe il numero elevato di canzoni che presentano nella versione discografica una durata superiore a quanto consentito dal regolamento. Per avere un’idea della consistenza di questo aspetto, si può prendere ad esempio l’edizione del 2009, in cui a fronte di un limite regolamentare di 3’40”, la durata media per le versioni discografiche analizzate è di 3’54”.10 In questo senso, è opportuno altresì ricordare come non di rado nelle edizioni con esibizioni in playback, le canzoni venivano “sfumate” nel finale, troncando una coda più estesa presente nella traccia fonografica.
Nel valutare l’effettiva valenza delle disposizioni regolamentari rispetto alle durate dei brani, va inoltre tenuto presente che in alcuni casi persino le esecuzioni prodotte nelle serate del Festival hanno oltrepassato i limiti imposti, senza che tale superamento abbia determinato sanzioni specifiche (tipicamente l’esclusione della canzone dal concorso), ovvero senza produrre reali effetti deterrenti per comportamenti analoghi.
Significativo è il caso di Processo a me stessa interpretata da Anna Oxa nel 2006, canzone che con i suoi 4’13” superava ampiamente il limite regolamentare fissato a 3’30”. In quella stessa edizione il problema interessò altre 17 canzoni, che furono tagliate in diversi punti per rientrare nei limiti previsti. Ai tagli si oppose invece fermamente la Oxa, che eseguì la versione originale senza alcuna modifica, un atteggiamento che provocò irritazione tra i colleghi che si erano adeguati alle disposizioni. L’approccio della Oxa fu però condiviso dalla direzione musicale, in particolare dall’allora direttore Gianmarco Mazzi, le cui dichiarazioni affermarono una piena subordinazione degli aspetti regolamentari (almeno quelli relativi alle durate) alle istanze di carattere artistico: «Abbiamo assecondato il suo desiderio [della Oxa]: l’aspetto artistico deve prevalere sul regolamento. Tagliare le canzoni sarebbe una ghigliottina» (Lanfranchi and Volpe 2006). A seguito della polemica che ne derivò, la Rai provò a limitare lo scontento degli altri artisti offerendo una tolleranza del 10% sulle durate dei brani, un approccio che tuttavia non risolse il problema (la canzone della Oxa non rispettò comunque il limite e chi aveva già accorciato la versione non ebbe il tempo di tornare all’originale). Al netto dell’esito della discussione, quanto accaduto nell’edizione 2006 lascia intendere come la capacità del regolamento di incidere sulle durate effettive dei brani sia in buona parte concettuale. Diversamente, suggerisce che siano le contingenze artistiche e le relazioni tra gli attori del Festival (artisti, editori, direzione) che si instaurano in ogni edizione a dettare de facto i reali limiti di durata. D’altronde che i vincoli di durata imposti dal regolamento siano interpretabili con un buon grado di flessibilità è attualmente segnalato nella formulazione stessa della regola, che ammette già in principio minime eccedenze – nell’ordine di pochi secondi, ma senza maggiori specificazioni – in caso di “incontrovertibili esigenze di natura artistica”.11
Oltretutto, se ci si sofferma sugli anni più recenti, si può osservare come i vincoli di durata appaiano decisamente sovradimensionati rispetto alle durate effettive dei brani.
| edizione | durata media | limite regolamentare |
|---|---|---|
| 2020 | 3’25” | 4’00” |
| 2021 | 3’29” | 4’00” |
| 2022 | 3’16” | 4’00” |
| 2023 | 3’30” | 4’00” |
| 2024 | 3’15” | 4’00” |
| 2025 | 3’18” | 3’30” |
Già dal 2020, infatti, la durata media delle canzoni esaminate risulta inferiore di almeno 30” rispetto al limite consentito (con uno scarto che raggiunge i 45” nel 2024): margini talmente ampi che difficilmente possono lasciare ipotizzare una diretta forzatura del regolamento sull’estensione delle canzoni in gara. Per giunta, le durate medie delle canzoni nel periodo 2020–2025 appaiono totalmente in linea con quanto osservato sulla scena internazionale nello stesso periodo (che si attesta, come visto, intorno ai 3’15”), ovvero non presentano alcuna anomalia rispetto a un andamento generale osservato su un dataset più esteso ed evidentemente estraneo ai limiti dettati dal regolamento sanremese; una sostanziale coerenza dei trend che – si è visto nei paragrafi precedenti – sembra confermata anche nei decenni passati (Szu Yu Chen 2024; Gangiredla et al. 2020).
Su un piano più generale, l’insieme delle ultime osservazioni invita a problematizzare gli aspetti relativi alle disposizioni regolamentari del Festival tenendo conto del contesto coevo. In linea con questo approccio, potrebbe d’altra parte anche leggersi l’abbassamento della durata massima per l’edizione 2025, passata da 4’00” a 3’30”, il quale più che influenzare effettivamente la durata delle canzoni in gara, pare recepire e standardizzare una tendenza già ampiamente affermata nell’universo musicale circostante ed evidenziata dagli stessi brani in concorso nei cinque anni precedenti.
6 Conclusioni
Il presente studio tratteggia una panoramica di ampio respiro in merito alle durate delle canzoni sanremesi e delle relative introduzioni, dalla diffusione dei primi CD ad oggi. A tale scopo è stato analizzato un campione di 934 brani, costituito dalle canzoni che hanno concorso al Festival nella categoria campioni tra il 1983 e il 2025.
Sia per quanto riguarda le durate totali che per le sole introduzioni, i dati raccolti hanno evidenziato una prima fase di crescita, a cui è seguita una progressiva contrazione di entrambi i parametri. Nello specifico, è stato notato come a partire dai primi anni Duemila le durate delle canzoni siano andate via via accorciandosi, fino ad attestarsi attualmente intorno a 3’25”: ciò si è tradotto in una riduzione di circa 45” rispetto ai brani degli anni Novanta, corrispondente a una contrazione pari al 18%. Nello stesso periodo temporale è stato osservato anche un drastico ridimensionamento delle introduzioni, che sono passate dai circa 15” di media tra gli anni Novanta e primi Duemila, agli 8” attuali. D’altra parte, le canzoni totalmente prive di sezione introduttiva nel corso degli anni sono cresciute esponenzialmente, arrivando a rappresentare il 31% dei brani nell’ultima edizione del Festival. In ultimo, si è potuto verificare come tutte le suddette mutazioni relative al campione sanremese siano in linea con quanto accade alla produzione popular internazionale.
L’osservazione distinta delle durate totali e delle sole introduzioni ha evidenziato alcune trasformazioni peculiari nelle strutture delle canzoni. In particolare, si è notato che dai primi anni Duemila ad oggi la contrazione delle introduzioni (ca. 50%) è stata decisamente superiore a quella delle durate totali (ca. 18%). Tale sbilanciamento si riflette sulla porzione di brano complessivamente destinata alle fasi introduttive, le quali sono passate dal rappresentare il 6,2% dell’estensione totale delle canzoni tra i primi anni Ottanta e i primi anni Duemila, al 3,7% degli ultimi anni; un andamento che rivela una particolare attenzione da parte di songwriters e produttori verso questa sezione formale, evidentemente destinataria di tagli più consistenti rispetto al corpo restante del brano. Ciò confermerebbe le ipotesi secondo le quali la tendenza nell’attuale produzione pop è quella di anticipare quanto più possibile gli elementi salienti e accattivanti delle canzoni, verosimilmente nel tentativo di catturare l’attenzione degli ascoltatori già nei primissimi istanti di riproduzione ed evitando di conseguenza lo skip al brano successivo durante l’ascolto su piattaforma.
Infine il presente lavoro ha offerto lo spunto per riflettere in merito alla relazione tra le disposizioni regolamentari del Festival di Sanremo e le durate delle canzoni. In particolare, rispetto alle estensioni totali, si è potuto notare come dal campione oggetto dello studio emergano andamenti analoghi a quelli rilevabili nella popular music internazionale non assoggettata ai limiti succitati: un’osservazione che, unita a una serie di ulteriori considerazioni relative alla flessibilità dei vincoli regolamentari e alla loro scarsa attinenza con le versioni discografiche, lascia immaginare che il regolamento non abbia esercitato influenze decisive sui trend di durata discussi nel testo.
In definitiva, numerose altre caratteristiche della produzione popular italiana e internazionale si prestano ad essere studiate nel periodo che va dall’avvento dei supporti digitali ad oggi. In questo senso il presente lavoro suggerisce nuovi spunti di ricerca, volti a indagare gli aspetti formali e il sound delle canzoni, da un lato in riferimento alle mutazioni dello scenario mediale – anche in relazione ad altri oggetti mediali – dall’altro in rapporto agli sfaccettati processi creativi in cui concorrono sinergicamente molteplici fattori, come la formazione degli artisti, le pratiche di songwriting basate sulla collaborazione in team e le affordances dei moderni strumenti di produzione musicale.
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Dall’intervista rilasciata a Max Brigante (2024). https://www.youtube.com/watch?v=Kh3lbinoauM (ultimo accesso 27-05-2025).↩︎
Ovvero quelle le tecnologie fonografiche, diffuse sino alla metà degli anni Venti del XX secolo, che non sfruttavano sistemi elettrici per l’amplificazione del suono (Diem Tigani 2012).↩︎
La disposizione formale AABA rimase un riferimento fondamentale per la costruzione di canzoni sino ai primi anni Sessanta. Per una panoramica dettagliata sulle articolazioni della forma canzone si vedano von Appen and Frei-Hauenschild (2015) ed Ensign (2015).↩︎
Nei casi isolati in cui non è stato possibile risalire alla versione discografica (< 1% del campione) si è fatto riferimento alla versione eseguita nello spettacolo televisivo.↩︎
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Enrico Melozzi in un’intervista rilasciata al quotidiano Domani (Marchina 2025). In linea con queste considerazioni si pone il producer Stefano Tognini (Zef), che nel definire i caratteri principali di una hit asserisce: “una hit è un pezzo che nei primi dieci secondi che è partito ti dà già qualcosa” (Brigante 2024).↩︎
Enrico Melozzi nella medesima intervista a Domani (Marchina 2025).↩︎
Ovvero coloro che sono chiamati a garantire la presenza dei prodotti musicali dell’etichetta nelle maggiori playlist delle piattaforme (Hodgson 2021: 8–9).↩︎
Ne era convinta già nel 1981 Mimma Gaspari, che sosteneva: “A Sanremo tre minuti dovevano bastare a far centro: un criterio estraneo al mondo della musica, più vicino ai regolamenti di Lascia e raddoppia […] Succedeva così che gli autori erano perfino condizionati nello scrivere la musica, dall’immediatezza dell’effetto da produrre in così breve tempo” (Gaspari 1981: 63–64). Una certa relazione del regolamento con l’estensione delle canzoni è suggerita anche da Franco Fabbri: “Il formato breve [della canzone], poi, è stato anche sancito da disposizioni regolamentari, come quelle del Festival di Sanremo o dell’Eurovision Song Contest (in entrambi i casi, tre minuti)” (Fabbri 2021: 318).↩︎
Tra queste si individuano anche picchi significativi, come nel caso della canzone L’Italia di Marco Masini, con durata su disco di 4’52” (ben 1’12” oltre il vincolo regolamentare).↩︎
Dal regolamento della 75° edizione del Festival della Canzone Italiana (2025).↩︎