“Comme dans les vieilles expériences d’hypnotisme, nous sommes fascinés, sans de voir en face, par ce lieu brillant et dansant”
Roland Barthes (1975)
Spesso il guardare cinema è stato avvicinato al dormiveglia, all’atto del sognare ad occhi aperti, allo stato ipnotico (Barthes 1975). Il buio della sala è paragonabile all’oscurità di cui abbiamo bisogno per rilassarci e dormire, e se il sogno è un racconto che nel nostro inconscio si forma sulla base di immagini reali e di cui abbiamo fatto esperienza nel corso della giornata, lo stato filmico ci trasporta in una esperienza visiva affine. Possiamo dire che se il mondo dell’onirico farebbe fatica a esistere senza la conoscenza della realtà che ci circonda, così è anche per il cinema. Il suo immaginario vive di illusione del reale, di modo che lo stato filmico dello spettatore pur non uguagliando l’incoscienza raggiunta nel sonno, è quanto meno caratterizzato da una diminuzione dello stato di veglia (Metz 1980: 128). Inoltre, ormai è alquanto comune, del resto, che ci accada di definire il sogno come un film interiore (Natanson 2013).
Fra i film in concorso alla Berlinale di quest’anno ben due portano il titolo non per niente di Dreams, mentre molti degli altri respirano di caratteristiche formali o di messa in scena – che possono includere filtri, tecniche di montaggio, ralenti o immagini sgranate ecc. – che avvicinano lo spettatore a situazioni analoghe a quelle tradizionalmente collegate al mondo dell’onirico. Per non bastare, nelle trame e nelle narrazioni dei sopracitati acquistano un posto rilevante, se non principale, desideri, aspirazioni e paure (magari represse) che ritroviamo nei racconti di sogni e incubi. Un accenno particolare è dovuto al tema del viaggio, inteso come la ricerca del sé o come percorso di maturazione.
Iniziamo dai due esempi più ovvi, quelli che portano già nel titolo “il sogno” come elemento narrativo. Il primo, Dreams (Drømmer), vincitore del festival è il terzo e ultimo capitolo della trilogia Sex. Love. Dreams del regista norvegese Dag Johan Haugerud. Iniziata un anno fa proprio a Berlino con Sex, aveva visto a Venezia la sua continuazione con Love. La protagonista è l’adolescente Johannes (interpretata dalla brava Ella Øverbye) alle prese con la sua prima infatuazione amorosa per una delle sue insegnanti (Selome Emnetu). Nonostante il suo desiderio non venga ricambiato, l’intima esperienza dell’innamoramento verrà messa per iscritto dalla ragazza in forma di diario e diventerà materia per un’altra aspirazione, questa sì felicemente realizzata, ovvero la pubblicazione di un libro. Oltre a ciò, il risveglio del desiderio adolescenziale – sia fisico, che emotivo – funziona da cassa di risonanza arrivando così a scuotere l’assopita sessualità delle altre donne di famiglia, sia della madre, sia dell’ormai attempata nonna scrittrice, la quale, almeno nei suoi sogni, si libera da ogni vincolo morale. In Dreams (Drømmer) l’amore per la letteratura – come lettura e scrittura – corre pari pari con l’amore inteso come attrazione fisica. E quindi la letteratura diventa per Johannes una valida sostituta alla non avvenuta realizzazione del sogno e desiderio amoroso.
Il secondo film, Dreams del regista messicano Michel Franco, ci porta nel pericoloso viaggio oltre la frontiera americana del giovane ballerino di danza classica messicano Fernando (Isaac Hernández). Il suo sogno, inteso come realizzazione di un desiderio, non è solo di raggiungere la sua ricca amante americana Jennifer (Jessica Chastain), ma di iniziare una carriera artistica sul suolo americano. Tematicamente il film si accosta ad una lunga serie di titoli, si potrebbe quasi parlare di un genere in sé, quello dell’american dream dei migranti. Al leggero passo di danza di Fernando (e qui si rimanda per un maggior approfondimento alla visualizzazione cinematografica del sogno in forma di danza [Viviani 2014]) si contrappone la dura e violenta realtà con cui si deve confrontare l’immigrazione illegale nell’era trumpiana (ma già da prima), usata e ingannata finché può servire, poi spezzato il sogno, così come le aspirazioni, rimpatriata senza nessun rimorso. Interessante notare come, proprio i due film che più investono narrativamente nel concetto di “sogno”, siano quelli che più rimangono legati a una messa in scena realistica, e quindi evitano tecniche filmiche (a parte in Drømmer il sogno della scala) che potrebbero far pensare al mondo onirico.
Rimaniamo sul continente americano per accennare a Blue Moon per la regia del grande Richard Linklater. Il film, concepito come un classico Kammerspiel, ha ricevuto solamente il premio per il Miglior attor* in un ruolo secondario dato a Andrew Scott, ma presenta momenti di ottima recitazione da parte di tutti gli attori. Al centro la figura, qui ormai provata dall’alcol e dalla vita disordinata, dell’autore e librettista americano Lorenz Hart (interpretato da un convincente Ethan Hawke) nella sera in cui oltre ad una delusione amorosa “subisce” il successo del musical Oklahoma!, la prima opera composta senza di lui da Richard Rodgers, musicista con il quale aveva sempre lavorato in coppia e con il quale aveva raggiunto il successo di pubblico. Il “sogno”, l’aspirazione di Hart, di poter convincere Rodgers a tornare a lavorare insieme ad un nuovo progetto svanisce man mano che, nascosta fra i doppi sensi e le veloci battute di dialoghi ricchi di humor e sarcasmo, cogliamo l’instabile equilibrio fisico e sentimentale in cui si trova.
Concepito come un incubo quotidiano è invece il psicodramma newyorkese If I Had Legs I’d Kick You di Mary Bronstein. L’ottima prestazione dell’attrice americana Rose Byrne ha meritatamente ricevuto il premio come miglior attrice per il ruolo di Linda, psicoterapista e madre di una bambina anoressica. Mentre la cinepresa si concentra ossessivamente sulla protagonista ed evita volutamente di mostrarci la figlia, la mostruosa crepa sul soffitto di casa, invece di rimpicciolire, si espande e ingrandisce a dismisura, così come gli incubi iniziano a sopraffare non solo le notti ma anche la quotidianità di Linda, finché la fuga diventa un’improrogabile via di salvezza. Sulla stessa falsariga, un altro thriller, il tedesco Mother’s Baby di Johanna Moder, sfrutta con risultati meno soddisfacenti le ossessioni (o paure represse) di una madre alle prese con il mancato attaccamento al suo neonato dopo il parto.
Di perdita del controllo e telepatia si parla nel film tedesco What Marielle knows (Was Marielle weiss) per la regia di Frédéric Hambalek, dove inaspettatamente come conseguenza di uno schiaffo, l’adolescente Marielle, sviluppa poteri tali che le permettono di vedere e udire momenti vissuti dai suoi genitori anche quando lei non è presente. Una situazione che mette in difficoltà non solo i rapporti fra marito e moglie, ma anche la stessa Marielle, che si ritrova all’improvviso catapultata negli intimi e imbarazzanti pensieri di due adulti a lei così vicini. La stessa onda telepatica è sfruttata per far soldi da una famiglia di ciarlatani ambulanti nel meno significativo The Message (El mensaje) dell’argentino Iván Fund – Premio della Giuria. Il road-movie porta in scena il desiderio di comunicare con il proprio animale domestico di molti proprietari, che trovano in Myriam, una bambina di nove anni, la medium ideale per realizzare questo sogno. Il film utilizza suggestivamente una fotografia in bianco e nero, e una scelta di panorami ampi e deserti composti in lente sequenze come strategia estetica per emulare l’illusione e il vuoto dell’atmosfera onirica.
Nella direzione di un futuro distopico e dell’incubo comune a tutti di ritrovarsi in età matura superflui e allontanati dalla vita sociale racconta in particolare The Blue Trail (O último azul) del regista Gabriel Mascaro, assegnatario dell’Orso d’argento Gran premio della Giuria per la sua visione di un Brasile per soli giovani. Qui troviamo l’arzilla Tereza (Denise Weinberg) mandata in pensione prima del tempo, decidere, nell’ultima settimana di libertà e prima di finire in una colonia-prigione, di realizzare il suo ultimo desiderio: volare. Nella fuga verso la libertà Tereza si ritrova su una barca a navigare nelle serpentine e intricate, ma anche affascinanti, ramificazioni del Rio delle Amazzoni, dove incontra personaggi singolari come lo strambo trafficante Cadu (Rodrigo Santoro), che le insegna a stare al timone della barca e ad usare una sostanza allucinogena di colore blu e secreta da una rara lumaca; e la predicatrice Roberta (Miriam Socarras), la quale la prende con sé sulla barca Caridad e che, vendendo una versione della bibbia su tablet trasparenti, si compra, grazie ai soldi così guadagnati, la libertà di rifiutare le colonie.
L’illusione di realtà e la magia create da Mascaro rimangono dentro ai ben definiti confini del possibile e realizzabile, mentre sono il fantastico e l’illusorio presenti nel film che in questo caso verrebbe da mettere in dubbio. Lo spettatore si ritrova a vivere insieme a Tereza situazioni paradossali ed assurde, cariche di magico realismo, le quali allo stesso tempo risultano credibili, se non addirittura plausibili. A chi verrebbe in mente di non credere alla presenza di una rara lumaca produttrice di liquido allucinogeno nella rigogliosa Amazzonia? O all’esistenza del galleggiante e improbabile, ma anche questo credibilissimo, “Pesce Dorato”, luogo di scommesse su pesci da combattimento dai promettenti nomi di “Via Lattea” o “Sangue del Diavolo”? Qui sì, possiamo dire, che lo spettatore viene posto volutamente in uno stato filmico tale da equivalere a quello del dormiveglia, mentre la messa in scena non oltrepassa mai il limite oltre il quale l’illusione coinciderebbe con il sogno.
L’immaginario fantastico offerto dalle favole classiche offre da sempre uno spunto per un cinema che si libera fin in partenza dai lacci del realismo per sondare nuove dimensioni oniriche. È questo il caso di The Ice Tower (La Tour de Glace) della regista francese Lucile Hadžihalilović. La favola classica scelta come soggetto per il film è La regina delle nevi di Christian Andersen, con la sua fredda e bellissima regina senza cuore. Jeanne, la protagonista, non è più una bambina ma un’adolescente facile al fantasticare quando decide di scappare dall’ambiente isolato dell’orfanotrofio in alta montagna per realizzare il suo sogno: trovare una figura materna da imitare, o forse, più che altro, da ammirare e adorare. La trova in Cristina (Marion Cotillard), la fiera attrice, ormai all’ombra del tramonto che guarda caso impersona la regina delle nevi in una produzione televisiva, le cui riprese si svolgono proprio nell’edificio dove Jeanne ha trovato rifugio per la notte. Gli incontri fra la ragazza e Cristina sono carichi di ambiguità, tanto da sembrare più creati dall’immaginazione di Jeanne, o appunto vissuti in una dimensione onirica, più che reale. Il film – grazie a speciali filtri – si compiace di un’atmosfera metafisica dove entrambe le protagoniste, nella poca luce del film (la pellicola è girata in esterni di notte o in interni debolmente illuminati, con esclusione del luminosissimo set cinematografico), vivono di luce riflessa, mai diretta, ma soffusa e fioca. La sottomissione di Jeanne al volere di Cristina è – quasi – completa.
Di tecniche di montaggio non lontane dal funzionamento associativo che avviene nel sogno si servono anche Hélène Cattet e Bruno Forzani nel film belga Reflection in a Dead Diamond (Reflet dans un diamant mort), mentre pure nella coproduzione internazionale Yunan ritroviamo un abbondante uso della multiforme estetica onirica. Neppure il regista coreano Hong Sangsoo, nello spiccato documentarismo di What Does that Nature Say to You (Geu jayeoni nege mworago hani) si astiene dall’usare una sgranata e sfuocata messa a fuoco per riprodurre l’animo d’artista e il distacco del protagonista dalla realtà che lo circonda.
Ancora una volta il potenziale liberatorio del cinema ha trovato quindi abbondante spazio in questa settantacinquesima edizione del Festival di Berlino, la prima sotto la direzione artistica dell’americana Tricia Tuttle. Ci auguriamo che la sua magia continui a ossessionarci dalla grande sala di un cinema, perché, se è vero che, come notava Guido Fink “da quando c’è il cinema è più facile sognare” (Fink: 1991: 62), bisogna ammettere che, finché ci saranno storie e sogni da raccontare, il cinema continuerà ad esistere e noi sentiremo il bisogno e la necessità di evadere dalla realtà e di abbandonarci alla sua forza illusoria.
Bibliografia
Barthes, Roland (1975) “En sortant du cinéma”. Communications 23: 104–107. https://doi.org/10.3406/comm.1975.1353
Fink, Guido (1991) “L’altro congegno: appunti su cinema e sogno”. In Sogni: figli di un cervello ozioso, a cura di Marino Bosinelli e Pier Carla Cicogna. Torino: Bollati-Boringhieri.
Metz, Christian (1977) Cinema e psicanalisi: il significante immaginario. Venezia: Marsilio, ed. 1980.
Natanson, Madeleine (2013) “Figurabilité: Quand le rêve rencontre le cinéma”. Imaginaire & Inconscient 1: 121–132. https://doi.org/10.3917/imin.031.0121
Viviani, Christian (2014) “Le dream ballet. États d’âme, dilemmes, désirs et rêves dansés”. Ligeia 1: 91–102. https://doi.org/10.3917/lige.129.0091