Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.27 (2025), 7–19
ISSN 2280-9481

Sparire, tornare, assentarsi: movimenti fantasmatici della visualità e del Sé digitali

Luca MalavasiUniversity of Genova (Italy)

Luca Malavasi is Associate Professor at the University of Genoa, where he teaches History and Analysis of Film and Cinema and Visual Culture. His work primarily focuses on film history and theory, contemporary cinema, and visual culture. He is an editor at Cineforum and a contributor to FilmTv. He has curated special issues of bianco e nero (2016), Cinergie (2017), La Valle dell’Eden (2018), and Visual Culture Studies (2022). His publications include: Postmoderno e cinema. Nuove prospettive d’analisi (2017), Il linguaggio del cinema (2019), Dalla parte delle immagini. Temi di cultura visuale (with B. Grespi, 2022), Il cinema contemporaneo. Caratteristiche, identità culturale, esperienza (ed., 2024), Christopher Nolan (ed., 2024).

Ricevuto: 2025-04-18 – Versione revisionata: 2025-05-22 – Pubblicato: 2025-07-30

To Vanish, to Return, to Withdraw: Ghostly Motions of Digital Visuality and the Self

Abstract

From ghost imaging in scientific research to the phantasmatic images produced by artificial intelligence, the metaphor of the ghost – along with related notions such as apparition, disappearance, trace, spectralization, and evanescence – offers a crucial interpretive framework for understanding digital culture. This metaphor is especially relevant in the visual and communicative domains, where the idea of apparition is increasingly replacing that of representation. This shift updates a long tradition of visual theory, from ancient distinctions like eidolon and phantasma to the postmodern revival of the simulacrum. The ghost becomes a productive figure through which to rethink the nature and status of digital images: unstable, fleeting, and often uncanny. The essay explores how contemporary media practices – especially on social platforms – mobilize ghost-like dynamics: ghosting, automated memory, the return of inactive profiles, and the persistence of digital traces. These phenomena blur conventional boundaries between analog and digital, real and virtual, presence and absence. By approaching images as spectral entities, the digital can be seen not simply as a space of virtualization, but as a site of phantasmatisation – where images no longer just represent, but haunt, reappear, and resist clear definition.

Keyword: Self; Ghost; Visual-culture; Digital-images; Social-media.

1 Immagini come fantasmi

La relazione tra la cultura e l’immaginario del fantasma e la teoria e l’antropologia del visivo è antica e stratificata almeno quanto la storia stessa delle immagini. Lo suggeriscono, per citare soltanto due origini lontanissime dal punto di vista materiale e cognitivo, una parola, phantasma, e una testimonianza visiva, le inscrizioni “in negativo” delle mani dei nostri progenitori nelle caverne preistoriche. La prima, assieme a eikon e eidolon, ricorre nella lingua greca per indicare, in particolare, un’apparenza visiva che è anche un pathos, ossia una sensazione fisica, oltre che una percezione ottica; assieme agli altri due termini – il secondo dei quali, varrà la pena notare, significa originariamente «fantasma dei morti e spettro, e solo successivamente immagine e ritratto» (Debray 1999: 23) –, il termine phantasma sarà in seguito confinato dalle lingue neolatine a usi specialistici, a tutto vantaggio del termine “ombrello” imago (Wunenburger 1999: 10). La seconda, invece, stabilisce all’inizio della storia del visivo non soltanto un gesto di affermazione soggettiva, «the first non–speculative self–portrait» (Mondzain 2010: 314): le migliaia di impronte di mani impresse nelle grotte dall’homo sapiens testimoniano soprattutto – secondo Marie–José Mondzain – del meccanismo di base della produzione visiva, che ruota essenzialmente attorno all’assenza e, in modo particolarmente suggestivo per il nostro discorso, sul ritirarsi (retreat). Nell’evocativa ricostruzione che la studiosa fa di quel primo gesto di iscrizione del Sé da parte dell’uomo, la nascita dell’immagine coincide esattamente con un vuoto e una sottrazione: «It is then that the image appears before the breather’s eyes, his image, as he sees it because his hand is no longer there»; «Here, there is no face, no eye, whether good or bad, no idols. Only a gesture that inaugurates seeing in the nocturnal and illuminated image of a retreat» (ibid., corsivo mio). Un complesso circuito di scambio tra presenza e assenza e tra visibile e invisibile necessario affinché l’immagine – nella fattispecie, un’immagine di sé – possa esistere, ossia essere vista:

One cannot get rid of one’s hand to see it far away from one’s self like someone else’s hand, but one can retreat from one’s own image and allow other eyes to see it, eyes that will never themselves be seen (ibid., corsivo mio).

Apparizioni fantasmatiche, le centinaia di raffigurazioni di mani conservate all’interno delle caverne preistoriche sono, sul piano figurativo, una metafora perfetta di qualcosa che si manifesta e, insieme, si sottrae, di una presenza che evoca un’assenza, di una traccia che interrompe il flusso del tempo, imponendosi sul tempo, senza tuttavia poterlo davvero fermare; un fantasma, appunto, un’impressione sensibile, qualcosa che si ritira e, così facendo, si rende visibile (rendendo quel ritirarsi la sua stessa logica di manifestazione).

Proprio attorno alle dialettiche di presenza e assenza, visibile e invisibile, tangibile e immateriale, temporaneo e imperituro, si è definita nel tempo un’affinità che ha fatto del fantasma (e di tutto il campo semantico e figurativo a esso legato) una metafora interpretativa particolarmente efficace per descrivere la natura e la vita delle immagini e dei media visivi – ontologia e antropologia –, qualcosa di simile a un termine “medio” in grado di negoziare le principali polarità che governano la produzione, la circolazione e il consumo delle immagini. Non è certo obiettivo di questo saggio ricostruire una simile storia, disseminata tra ambiti molto diversi e che ha a che fare sia con l’idea di immagine – idea colta, tra estetica e teoria, ma anche credenza popolare –, sia con i suoi usi sociali, collettivi e individuali. Si pensi soltanto al territorio delle rappresentazioni religiose, costantemente attraversato dal timore più antico e radicale che circonda la creazione delle immagini, ossia quello del loro impossibile “prender vita”, del loro farsi, appunto, fantasmi incontrollabili, forme intermedie di esistenza tra inanimato e animato, oggettuale e vitale:

Ma il terrore di rendere vivo qualcosa è, in ultima analisi, più facile da cogliere, dato che non è difficile capire che si vorrebbe che le proprie creazioni restassero inerti. Siamo noi che dovremmo rimanere padroni di quanto facciamo, e non vedere gli oggetti trasformati in fantasmi pericolosamente simili a noi, e pertanto uguali e al tempo stesso più forti (Freedberg 1993: 506).

E a queste parole fanno significativamente eco quelle di Horst Bredekamp, fondative della sua teoria dell’“autonomia iconica”:

Mentre la lingua parlata è propria dell’uomo, le immagini gli vengono incontro sotto il segno di una corporeità aliena: esse non possono venire ricondotte pienamente a quella dimensione umana cui devono la propria realizzazione, né sul piano emotivo né mediante azzardi linguistici. E qui risiede il fascino delle immagini. Una volta prodotte, diventano autonome e incutono ammirazione e paura, sono cioè oggetti capaci di suscitare sensazioni fortissime (Bredekamp 2015: 9–10, corsivo mio).

Piuttosto, in questa introduzione mi preme sottolineare – attraverso il veloce richiamo ad alcuni studiosi e studiose – come la relazione metaforica tra la figura del fantasma e le immagini permanga vivissima nella riflessione teorica contemporanea, progressivamente spogliata di qualsiasi sovradeterminazione morale (per esempio, in chiave platonica, come segno di una debolezza, tra inganno e rapimento); anzi, tanto l’ambito della teoria dei media e della cultura visuale quanto quello della storia dell’arte hanno ampiamente rivivificato tale relazione, confermandone così sia la continuità ontologica, sia la duttilità interpretativa a fronte dei cambiamenti che hanno via via interessato tanto la figura del fantasma, 1 quanto la storia – tecnologica, culturale, sociale – dei media e delle immagini. Per la già citata Marie–José Mondzain – studiosa in costante movimento tra iconografia religiosa antica e immaginari contemporanei –, la fantasmaticità appare un tratto originario dell’immagine e dell’esperienza delle immagini. Nel già citato What Does Seeing an Image Mean? – un saggio che scava nella dialettica tra immagine e parola, sguardo e volto, gesto e corpo –, l’esperienza del vedere è ricondotta alla condizione primaria dell’essere umano, ossia all’impossibilità di vedere il proprio volto e, quindi, il proprio vedere (in proposito, si rimanda anche a Jean–Luc Nancy 2002, 2014):

If, then, we only see because we have renounced the desire to see ourselves, but are still inhabited by the desire to see, then we seek out our own face by producing a world whose image is haunted by the trace of our absence. Seeing is constructed on the absence of our face (Ivi: 312, corsivo mio).

La scelta del verbo haunted non è ovviamente casuale, e fa il paio dialettico con l’idea del ritirarsi (retreat) indicata più sopra: l’immagine è ontologicamente fantasmatica non soltanto perché testimonia, fatalmente, di un’assenza (la logica “statica” dell’immagine–traccia cara alla tradizione semiotica) ma, più sottilmente, perché può esistere solo nella consapevole scomparsa della realtà di cui parla, nel suo ritirarsi, così da instaurare una condizione di perenne (mutevole, inatteso, potenziale) ritorno di quest’ultima. Di qui, a partire da una simile premessa che sottolinea giustamente il movimento tra immagini e sguardo – le immagini «are not objects placed before our eyes, but are instead places where signs can circulate among us without interruption» (Ivi: 311) –, una conclusione più generale che insiste sul movimento, di ordine spettrale, tra condizioni insieme opposte e complementari:

Any discourse on the image is nothing but an interminable oxymoron in which presence and absence, but also shadow and light, finitud and infinity, temporality and eternity, corruptibility and incorruptibility, passion and impassivity are constantly switching their meaning and changing places. Seeing the image means gaining access to something that, within the visible, both overflows and empties it at one and the same time. The visible does not contain the image, just as what is finite does not contain the infinite: the visible is a trace, a vestige of an incommensurable presence. The visible is deserted by what it shows. Seeing an image means gaining access to what gazes out from within the visible itself, it means offering the immanence of an absence to the gaze (Ivi: 310, corsivi miei).

Non molto dissimile da quella di Mondzain è la prospettiva di uno dei massimi studiosi di cultura visuale, W.J.T. Mitchell, per il quale l’immagine, nel suo movimento di inscrizione materiale, afferma costantemente una vitalità fantasmatica:

We experience the image as a double moment of appearing and recognition, the simultaneous noticing of a material object and an apparition, a form or a deformation. An image is always both there and not there, appearing in or on or as a material object yet also ghostly, spectral, and evanescent (Mitchell 2010: 39).

La dialettica, qui, si definisce più precisamente a partire dalla ben nota distinzione mitchelliana tra image e picture (Mitchell 2017), versione riveduta e semplificata di una tradizione interpretativa di matrice linguistica che incrocia Pierce e de Saussure, e che insiste sulla logica proteiforme dell’apparizione – nella fattispecie, del farsi picture – di una dimensione insieme concettuale, intangibile, potenziale eppure presente:

So the image is the uncanny content of a medium, the shape or form it assumes, the thing that makes its appearance in a medium while making the medium itself appear as a medium. It remains in memory as a place or face encountered, a landscape or a body, a ground or a figure, a repeatable gesture or “movement image” (Ivi: 40, corsivo mio).

E probabilmente tanto Mondzain quanto Mitchell devono qualcosa alla più complessa e stimolante riflessione contemporanea sulla natura profondamente instabile, sfuggente e fantasmatica delle rappresentazioni visive, quella di Georges Didi–Huberman interprete di Aby Warburg (o, in linea diretta, del solo Warburg), la cui portata e influenza vanno ben al di là dell’ambito degli studi storico–artistici, trovando anzi proprio nel campo dei visual culture studies una delle sue più convinte riprese. Ribattezzato il dibbuk della storia dell’arte, «il fantasma della nostra disciplina», ma anche «il fuoco fatuo o, meglio, il passamuri della storia dell’arte» (Didi–Huberman 2006: 34–37, corsivi dell’autore), nel sistema teorico articolato da Didi–Huberman a partire da Warburg2 si è precisato via via un modello fantasmale segnato, per sintetizzare molto, da una decostruzione della temporalità storica delle immagini. A prevalere, è, per l’appunto, l’approccio warburghiano, in cui «i tempi non erano più ricalcati sulla trasmissione accademica dei saperi ma si esprimevano per assilli, “sopravvivenze”, rimanenze, “ritornanze” delle forme – cioè per non-saperi, per impensati, per inconsci del tempo» (Didi–Huberman 2006: 30). Proprio le nozioni di “sopravvivenza”, “anacronismo”, “intempestività” sono rapidamente assurte a termini guida di un pensiero che, in modo trasversale all’interno delle discipline che si occupano del visivo, ha rilanciato un’idea particolarmente fertile – “un impulso” nuovo e profondo – di immagine (come) fantasma. 3 Per semplificare molto l’intuizione warburghiana tradotta da Didi–Huberman: le immagini possiedono una natura fantasmatica sia nel senso che danno voce e forma al “popolo dei fantasmi” di cui parlano, in modo diretto o indiretto, sia nel senso che il loro tempo non storico, il loro essere un “momento energetico o dinamico”, invita non solo a decompartimentare le idee di tempo e storia delle discipline classiche (prime tra tutte la storia dell’arte, con il suo incedere per periodi, stili, teorie del genio) ma, contestualmente, a pensare un altro tempo – anacronistico, intemporale, fantasmatico, appunto – con cui guardare alle immagini e considerane la (ri)emergenza. Le immagini sono qui intese, in definitiva, come energie e “formule di intensità”: tracce in cui la vita presente si mescola alla vita passata, emblemi di «una morte appena evitata e quasi continuata, in una parola fantasmale» (Ivi: 79), forme che esistono fuori dal tempo e dentro lo spazio di una costante reminiscenza.

2 Fantasmi digitali

Anche da questa rapidissima evocazione della ripresa e dell’analisi dell’opera di Warburg da parte di Didi–Huberman è facile intuire il perché della sua fortuna recente nell’ambito dei visual e media studies, esplicitamente testimoniato, tra le altre cose, dallo sviluppo della mediarcheologia, la cui principale prospettiva metodologica nell’analisi dei media, dei dispositivi e delle forme si fonda proprio su un modello warburghiano di temporalità (per una sintesi, si veda l’Introduzione delle curatrici in Dalmasso e Grespi 2023). In termini più generali, tuttavia, è soprattutto la digitalità, intesa anzitutto come regime di esistenza del visivo e delle pratiche visuali, ad aver favorito, in anni recenti, una decisa ripresa, sempre meno metaforica, della figura del fantasma e del paradigma della spettralità. 4 Lo ha puntualizzato con estrema chiarezza Tom Gunning in apertura al suo To Scan a Ghost: The Ontology of Mediated Vision, un saggio imprescindibile nell’analisi della dimensione fantasmatica dei moderni media visivi e sonori:

In the new media environment based in the proliferation of virtual images, the concept of the phantasm gains a new valency as an element of the cultural imaginary. The ghost has emerged as a powerful metaphor in recent literary studies, cultural history, and even political theory. An examination of their history of representation, including the newly emerging visual devices, can sharpen and renew these metaphors (Gunning 2007: 98).

Gunning mette qui a fuoco la principale motivazione alla base del rilancio contemporaneo della metafora del fantasma all’interno degli studi culturali e, in particolare, visuali, vale a dire la diffusione del virtuale – inteso anzitutto come regime di esistenza delle immagini – e di nuovi dispositivi di visione. Tale fenomeno avrebbe intensificato e, insieme, chiaramente reificato una condizione caratteristica dell’immagine mediata, ossia il fatto che essa «wavers between the material and immaterial» (Ibid.), rendendo inoltre ulteriormente esplicita la natura “magica” del realismo delle immagini tecniche. La spettralizzazione dei media e del visivo assurge anzi a leitmotiv di tutto il dibattito sulla digitalizzazione, soprattutto nella sua prima fase (tra la metà degli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo),5 per additare in particolare tre aspetti: la smaterializzazione condotta dalla numerizzazione binaria; l’indebolimento della contiguità fisica tra realtà e supporto di registrazione/cattura e, dunque, della relazione referenziale (intensa, tra l’altro, come “prova” dell’esistenza stessa delle immagini); l’affermazione di un diverso regime di presenza, anzi di presentificazione, del visivo, dipendente dalla logica della visualizzazione, dall’eterno presente della processualità dei dati e dalla spazializzazione ubiqua del network. L’idea, in estrema sintesi, è quella dell’avvento di una nuova specie di immagine: immateriale, incorporea, evanescente, ubiqua, proteiforme, sfuggente, non più un’inscrizione ma, appunto, un’apparizione; le immagini digitali, potremmo dire, accadono, manifestazioni provvisorie e mutevoli di memorie sospese, in attesa di rendersi visibili. Qualcuno, in modo assai suggestivo per il nostro discorso, ha descritto questo nuovo regime di esistenza e vita del visivo come l’esito del passaggio da una hard a una softimage: «The image is not […] a passive and fixed representational form, but is active and multi–platform, endowed with a signaletic temporality that is not only the result of digital screening (and compression), but also of transfer across digital networks» (Hoelzl e Marie 2015: 132).

L’idea di softimage dialoga efficacemente con un’altra prospettiva di studio affermatasi di recente, sempre in chiave postmediale, nell’ambito dei media studies, quella di atmosfera mediale (per una sintesi, si veda Eugeni e Raciti 2020). Entrambe, infatti, insistono, in linea con i presupposti dell’attuale spectral turn, sulla smaterializzazione tecnologica, sulla (conseguente) pervasività spazio–temporale dei media e dei loro contenuti, sulla centralità performativa della mediazione (Kember e Zylinska 2012), sulla visualizzazione schermica come logica di esistenza del visivo – «the digital image is inseparable from the screen, and that this image–screen is the thread that sews together physical space and data space» (Hoelzl e Marie 2015: 131). In questo contesto, il paradigma della fantasmagoria può allora, comprensibilmente, tornare attuale, fino a imporsi come una specie di perfetto “reperto” archeologico della virtualità contemporanea (si veda Grespi e Violi 2019), senza però dimenticare, come spesso accade, il più significativo passaggio intermedio lungo questa strada, ossia l’ologramma e il suo precursore, il Pepper’s Ghost (Johnston 2016, Ng 2021): non è un caso che sulla piazza della Hill Valley del 2015 immaginata da Robert Zemeckis in Ritorno al futuro – Parte II (Back to the Future Part II, 1989) si allunghi uno squalo–ologramma che promuove l’uscita di Jaws 19, un holofilm di un tale Max Spielberg.

Softimage e ologrammi (fantasmatici e fantasmagorici) sono modi specifici, contemporanei di additare il fantasma digitale, e di sottolineare al tempo stesso – come suggerisce di fare Tom Gunning – l’emergere di una di una nuova antropologia, vale a dire di una nuova relazione tra individuo, corpo, tecnologie, rappresentazioni e ambienti mediali. In questo senso, essi sono specie e formazioni visive strettamente imparentate alla nozione di simulacro, quella che, più di tutte, ha contribuito a rinsaldare la relazione tra spettralità e immagine sullo sfondo dell’affermazione delle tecnologie elettroniche prima, digitali poi. Com’è noto, la nozione di simulacro si è imposta nel dibattito sulla società e la produzione culturale contemporanea già negli anni Settanta grazie a Jean Baudrillard (1976, 1981), il quale l’ha costantemente rilavorata fino al riassuntivo Perché non è già tutto scomparso? del 2007, intendendola non soltanto come privilegiato strumento interpretativo dei media e della visualità contemporanea, ma anche come esempio e modello per un’analisi generalizzata della società occidentale. Ma più che tornare sul concetto stesso di simulacro,6 mi preme qui sottolineare un aspetto della teoria di Baudrillard poco avvertito dalla critica, che tende perlopiù a valorizzare il carattere apocalittico dell’affrancamento dell’immagine dalla realtà e del trionfo della simulazione. Nella teoria del filosofo francese, queste questioni, certamente cruciali, emergono in realtà come l’esito di un incessante processo di decostruzione, ontologica e pragmatica, dell’una nell’altra, dell’una a causa dell’altra, dell’una attraverso l’altra. Tutta la sua prospettiva sulla società, la medialità e la visualità postmoderne si sviluppa, più esattamente, a partire dal concetto di sparizione della realtà: un processo costante, complesso, proteiforme, guidato tanto dal desiderio di un suo governo scientifico e tecnologico assoluti (analizzare significa, letteralmente, “dissolvere”), quanto da quello, paradossale negli esiti, di una vittoria sulle morte, condotta annientando la vita fino a che l’essere umano diventa «il membro fantasma, l’anello debole, la malattia infantile di un apparato tecnologico che ci domina» (Baudrillard 2013: 14). Baudrillard parla esplicitamente di “Grande Sparizione”, quella «della trasmutazione virtuale delle cose, in cui la realtà rimanda a sé stessa all’infinito» (Ivi: 19), ridotta a una specie di ossessivo fantasma, a un imperterrito revenant. Insieme, essa conduce a un’intensificazione qualitativa di un carattere essenziale della realtà, che proprio le immagini rendono evidente: «Dietro ogni immagine, qualcosa è scomparso – ed è questo a donargli fascino. Dietro la realtà virtuale, in tutte le sue forme (telematica, informatica, numerica, eccetera), la realtà è sparita. Ed è questo che affascina tutti» (Ivi: 21).

La teoria della sparizione – e quindi del simulacro – di Baudrillard non postula soltanto l’affermazione di un’immagine forte, che si libera da una contingenza referenziale imponendosi sulla realtà stessa (ridotta a una specie di “iporealtà”, per opposizione a un regime prevalente di iperrealtà visuale); essa postula anche l’affermazione di una fantasmizzazione del mondo di cui proprio le immagini, in virtù della loro qualità strutturale, specificano la logica: l’immagine debole, incerta, sospesa tra due dimensioni, segno evanescente e dubbioso, gioco di ombre o luci, traduzione “spettrale”, appunto, sarebbe adesso la realtà stessa. L’immagine, nel suo passaggio dall’analogico al digitale, diventerebbe insomma “il più bell’esempio” della “Grande Sparizione” della realtà contemporanea. Un concetto ben illustrato, sul piano mediale, anche da Régis Debray nel suo Vita e morte dell’immagine (la prima edizione francese risale al 1992), in cui viene opportunamente ripreso proprio il dibattito attorno all’immagine come fonte di inganno:

La simulazione abolisce il simulacro, togliendo così l’immemorabile maledizione che accoppiava immagine e imitazione […]. Sarebbe allora la fine del millenario processo delle ombre, la riabilitazione dello sguardo nel campo del sapere platonico. Con il concepimento assistito dal computer, l’immagine prodotta non è più compia seconda di un oggetto anteriore, è l’inverso. Aggirando l’opposizione dell’essere e dell’apparire, della parvenza e della realtà, l’immagine infografica non deve più mimare un reale esterno, poiché è il prodotto reale che dovrà appunto imitarla per esistere. Tutta la relazione ontologica che svalutava e drammatizzava al contempo il nostro dialogo con le apparenze, a partire dai Greci, si trova capovolta. Il “re” di rappresentazione salta, al punto conclusivo di quella lunga metamorfosi in cui le cose già appaiono sempre più come le pallide copie delle immagini (Debray 1999: 231).

Le riflessioni di Baudrillard e Debray in merito all’immagine contemporanea suggeriscono di operare lo stesso tipo di rovesciamento rispetto al paradigma della spettralità: essa non è tanto o soltanto «actuality, metaphor, and concept» (Blanco e Peeren 2013: 3); essa è, piuttosto, una condizione strutturale della società contemporanea, una dimensione propria e costitutiva della nostra realtà – del nostro essere e agire sociale, della materia di cui è fatto il mondo, dello spettro (inteso questa volta in senso scientifico) del visibile. La smaterializzazione condotta dal linguaggio digitale e algoritmico, proprio come insegna in modo trasparente il territorio dell’immagine, stabilisce a tutti i livelli una radicale cambiamento di paradigma in merito all’idea stessa di realtà e, contestualmente, in merito a ciò che non lo è o lo è in forme diverse, parziali o intermedie (virtuali o potenziali), liminari o periferiche, suscettibili di essere integrate oppure riconosciute come alterità. In particolare, la condizione digitale e algoritmica ha stabilmente impiantato nell’ordine della realtà la presenza e l’azione del virtuale e dell’artificiale: non li ha, banalmente, addomesticati in quanto forme di razionalità alternative, quando non opposte, all’umano, che variamente lo simulano, doppiano, estendono o contraddicono, ma le ha integrate nell’orizzonte dell’esperienza quotidiana. È un passaggio decisivo, in senso sia antropologico sia filosofico, che stabilisce di fatto una permeabilità culturale e un’attitudine interpretativa e operativa nuove ad accogliere forme di pensiero, vita e azione che si collocano al di fuori di uno “spettro” eminentemente umano e antropomorfo. Lo spectral turn va inteso, oggi, molto più che come un ritorno deciso, in termini di significato e popolarità, della metafora del fantasma: esso descrive, piuttosto, una svolta ontologica in senso spettrale e un ampliamento della “partizione del sensibile” della nostra società, in cui il fantasma perde quasi del tutto il suo coefficiente perturbante per tradursi in un’estensione delle forme di presenza, vita e azione sociale dell’essere umano incarnato.

3 Ghostly Self

Il rapido movimento disegnato nei due paragrafi precedenti da una teoria generale della fantasmalità del visivo a una spettralità come condizione strutturale della società contemporanea (che il visivo, meglio di altri ambiti, incorpora, testimonia, rivela) ha inteso evidenziare, tre le altre cose, come la relazione tra le immagini e i media visivi e la figura e la semantica del fantasma sia da intendere sempre meno in senso metaforico. La relazione tra le due forme culturali è oggi stringente, e questo appare ancor più chiaro volgendo l’attenzione al territorio delle pratiche espressive e comunicative quotidiane, sociali e digitali, definite in modo tutt’altro che secondario proprio da fenomeni di spettralizzazione. Pratiche espressive e comunicative, di esternalizzazione e racconto del Sé e di elaborazione multimediale (verbale, visiva, audiovisiva ecc..) della propria identità, che si richiamano esplicitamente a una matericità, a una temporalità e a una spazialità di ordine fantasmatico. Esse appaiono segnate, più in dettaglio, da continui processi di smaterializzazione e rimaterializzazione, virtualizzazione e attualizzazione; da modi di presentificazione al confine tra apparizione e scomparsa, latenza e manifestazione inattesa; da forme di inscrizione e permanenza dell’ordine della traccia e della memoria volatile, transitoria, revenant.

Lo spazio dei social media emerge, in particolare, come un nuovo, originale “spettro di visibilità” (e sensibilità) in cui il soggetto si esercita quotidianamente a fantasmizzare sé stesso, esercitandosi quotidianamente a farsi immagine. «Waves between materiality and immateriality» – per riprendere le parole di Gunning – è il movimento alla base di un complesso e multiforme gioco di spettralizzazione del Sé che assume un significato che va ben al di là delle pratiche stesse. L’idea è, appunto, quella dell’esercitarsi, attraverso il meccanismo della rielaborazione visuale del Sé (digitale e algoritmica, postfotografica e postcinematografica),7 a esperire non soltanto forme di duplicazione, estensione, sostituzione del Sé “originale” ma, piuttosto, modi di presenza e azione segnati da un alleggerimento materico e fenomenologico e, di conseguenza, da nuove possibilità esistenziali e operative. Per Baudrillard, nel suo lessico tipicamente apocalittico (e in questo caso particolarmente “fantasmatico”), società digitale, virtualità, sparizione della realtà e crisi del soggetto segnerebbero una perdita definitiva:

Il soggetto […] scompare a beneficio di una soggettività diffusa, aleggiante e senza sostanza – ectoplasma che tutto avvolge e trasforma in un’immensa superficie di riverberazione d’una coscienza vuota, disincarnata – in cui tutte le cose risplendono di una soggettività senza oggetto – ogni monade, ogni molecola presa nelle maglie di un narcisismo definitivo, di un ritorno–immagine perpetuo (Baudrillard 2013: 19).

È una versione solo in parte condivisibile, che chiude l’immagine (del Sé), ormai svuotata di realtà, su un movimento senza azione, fuori dalla storia; una “peripezia fatale” (sono sempre parole di Baudrillard) in cui il soggetto si dividerebbe all’infinito polverizzando la propria coscienza di sé negli interstizi della realtà, onnipresente e insieme superfluo. Ed è una versione che riflette un pensiero fortemente binario assai comune in quel momento – analogico/digitale, on–line/off–line, reale/virtuale –, e che proprio l’avvento dei social media (tra il 2007 e il 2008, quando il filosofo francese pubblica il suo saggio) avrebbe contribuito rapidamente a depotenziare e poi a contraddire. In particolare, la diffusione capillare e la pratica quotidiana dei social media avrebbe spinto non soltanto a limare in senso dialettico le opposizioni citate, ma anche ad accentuare la natura via via strutturalmente ibrida o, se vogliamo, cyborg (nel senso suggerito da Deborah Lupton),8 dell’identità digitale in cui la logica della sparizione non si traduce fatalmente in una perdita – come temono Baudrillard e molti osservatori dell’epoca – ma, piuttosto, in una riconfigurazione di ordine fantasmale dei nostri modi di presenza e azione, mediata e, insieme, amplificata dall’immagine.

Questo aspetto appare evidente anche a un primo sguardo rivolto alle logiche di funzionamento, alle procedure di ingaggio, agli automatismi e alle affordances che regolano – generalizzando un po’9 – i social media. 10 Non si tratta, banalmente, di sovrapporre virtuale e spettrale, ma di sottolineare come le logiche pragmatiche e le modalità espressive proprie delle immagini digitali e algoritmiche favoriscano usi e modi di presenza e azione del visivo che evocano, in forme ora dirette ora oblique, una semantica fantasmale. Si pensi, in primo luogo, al principio cardine della visualità contemporanea, la visualizzazione, ossia all’immagine come formazione audiovisiva immateriale, ubiquitaria e intangibile che “prende corpo”, appare (non si imprime), su superfici a loro volta instabili, multiformi, ubique, solo debolmente ritagliate dal continuum dell’esperienza fenomenologica – un’immagine costantemente dislocata, più che rilocata. La visualizzazione post–schermica non sancisce soltanto un cambiamento di ordine tecnologico. Come osserva giustamente Jenna Ng,11 essa rimette completamente in gioco la relazione tra le entità coinvolte – soggetto, immagine, realtà –, non erodendo semplicemente, come nella vulgata postmoderna, la consistenza e l’evidenza della realtà; essa, piuttosto, come si è anticipato più sopra, inaugura nuovi spazi di “indifferenza” in cui le coppie materiale/immateriale, tangibile/intangibile, puntuale/ubiquitario – per limitarci alle caratteristiche più specificamente derridiane della fantasmalità – sono rimesse in gioco dialetticamente, in quanto polarità di un costante processo di scambio e ibridazione. In secondo luogo, il funzionamento dei social media appare definito da una vitalità propriamente fantasmatica: si pensi, in particolare, alla natura temporanea ed effimera – allo svanire – di molte modalità di pubblicazione (storie Instagram e Facebook, gli stati WhatsApp)12 e all’“effetto ritorno”, spesso inatteso, di contenuti (identificati come “memorie” e “ricordi”) generati da automatismi incontrollabili, riflesso diretto della “black box” algoritmica. È il trionfo di una logica della scia e della traccia, della disseminazione contemporanea e molteplice, disincarnata, di contenuti personali, di frammenti di sé; ed è, anche, il trionfo di una memorialità instabile, di una rigenerazione pulviscolare di immagini passate, di una imperscrutabile dimensione revenant che amplifica la natura immateriale, fugace, transitoria della visualità contemporanea e genera fenomeni di incontro inatteso, potenzialmente perturbante con un passato mai davvero archiviato come tale. Del resto, se l’idea di spettralizzazione rimanda in prima istanza a una condizione di constante, continuo svanire nell’immagine, essa non può non essere intimamente legata all’idea del ritorno e, anzi, dell’haunting, dell’infestazione condotta dall’archivio invisibile (perché algoritmico) di ciò che ci si è lasciati dietro – tracce di sé, frammenti di vita. L’azione di automatica, imprevedibile, indifferente riemergenza di tracce del passato da parte di applicazioni e dispositivi emerge con macabra evidenza nel caso della “vitalità” degli account di persone decedute: essi continuano non solo a esistere ma anche a funzionare, per esempio attraverso la segnalazione di compleanni o ricordi in comune, vere e proprie “macchine spettrali”, come suggerisce il titolo di un libro che ha sollecitato la ricerca in questo ambito, The Ghost in the Machine (2019) di Elaine Kasket, 13 in cui la fine non è mai davvero celebrata, in cui la morte non è mai davvero definitiva. E come non ricordare, infine, che ghosting è un termine ormai entrato stabilmente nel lessico comune per indicare il “diventare fantasmi” di sé stessi agli occhi di partner, amici e conoscenti: un dileguarsi che, al di là delle ricadute psicosociali (ormai ampiamente indagate nell’ambito degli studi di psicologia sociale),14 rende effettiva, anzi strategica – quasi magica, “spettacolare” – la natura fantasmatica delle interazioni mediate da dispositivi e applicazioni digitali.

Dentro questo scenario visuale, pragmatico e tecnologico, si profila allora l’idea (e l’ipotesi teorica) di un Ghostly Self che non è semplicemente il prodotto di una matericità e di una vitalità fantasmatiche del racconto e della rappresentazione del Sé favorite, come si è visto, sia dallo statuto dell’immagine contemporanea, sia dalla logica e dalle affordances dello storytelling in prima persona dei social network; dentro una condizione digitale che, come si è detto nel precedente paragrafo, incorpora sempre più insensibilmente altri modi e forme di esistenza e vitalità, l’idea di Ghostly Self vale anche come emblema di un esercizio alla spettralizzazione del Sé: un esercitarsi a farsi immagine, a scambiarsi con l’immagine, ad assentarsi nell’immagine. Più che il sostituirsi o lo scomparire – verbi che, come nel saggio di Baudrillard, articolano una dinamica oppositiva tra reale e virtuale e un conflitto o un’alternativa tra diverse forme del Sé –, l’assentarsi (una modalità del ritirarsi di Mondzain) evoca con maggiore efficacia la condizione attuale delle pratiche di scrittura personale (visiva, sociale, digitale), insistendo in particolare sul rinvio a ciò che non c’è e, di conseguenza, sulla possibilità di un suo ritorno, di uno scambio. L’assenza, del resto, in quanto condizione dell’“essere altrove”, stabilisce una referenza forte, latente e in negativo, affermazione visibile temporaneamente spossessata della persona reale ma pur sempre attiva e presente; modo di essere virtuale, appunto, anziché attuale, in cui entrano in gioco, proprio come nella figura del fantasma, la dimensione memoriale (“fantasma” come forma immaginale di qualcuno o qualcosa) e il principio della somiglianza (“il fantasma di sé stesso/stessa”). È in questi termini, per portare un ultimo esempio, che va pensata l’attuale proliferazione di avatar personali, la cui creazione è ormai esplicitamente incoraggiata dalle più diverse applicazioni (WhatsApp, Instagram, Facebook, Messanger ecc.).

L’avatar intrattiene da sempre un rapporto privilegiato con la figura del fantasma,15 ma pochissimo si è riflettuto e scritto su una nuova generazione di avatar, caratterizzati, in estrema sintesi, dal fatto di essere identità virtuali personali, figurativamente riconducibili a un soggetto particolare. Li si può definire memoji,16 e sono stati introdotti per la prima volta da Apple nel 2018, con Ios 12, e da Meta nel febbraio del 2022 (Instagram, Facebook, Messanger), per andare successivamente incontro a un’ampia diffusione. Essi rappresentano un caso particolarmente interessante di fantasmizzazione del Sé, sia perché disinnescano la classica logica escapista dell’avatar videoludico, sia perché problematizzano in modo originale alcuni aspetti generali del rapporto tra identità reale e identità digitale, suggerendo chiaramente una svolta, certamente non solo iconica, compiuta dalle identità virtuali nel corso di questi ultimi anni: una svolta verso “second life” sempre meno intese come condizioni immaginarie, sospensioni più o meno radicali di un codice realista, e sempre più vissute come dimensioni operative, del tutto contigue e coerenti alla realtà di partenza, prolungamenti della propria identità, presenza, azione – in breve, una “first life” estesa e aumentata.17

L’idea dell’assentarsi in una dimensione e in una forma che della realtà sono, al tempo stesso, una versione fantasmatica e simulacrale e un prolungamento e una riscrittura, si fa in questo caso particolarmente evidente. I memoji, infatti, sono una creazione grafica e digitale, di carattere più scultoreo e pittorico che fotografico, in cui i principi referenzialità e riconoscimento figurativo tra soggetto e rappresentazione si giocano al confine tra customizzazione (basata sulla selezione di alcuni tratti fenotipici ed espressivi) e dissoluzione del corpo originario, in particolare della sua matericità. Detto sinteticamente, la tipologia di avatar cui appartengono i memoji è, più che una generica rappresentazione figurativa del soggetto, una sua sineddoche (termine che, vale la pena notare, deriva etimologicamente dalla mancanza e dall’assenza): gli avatar, del resto, sono immagini in cui l’aspetto simbolico, di sostituzione di una presenza reale, caratteristico del ritratto, risulta significativamente subordinato a un aspetto operativo. Sono, più esattamente, immagini create per agire in vece del soggetto, in cui il processo di avatarizzazione non è orientato alla produzione di un altro da Sé (una virtualità e un travestimento assoluti, eventualmente segnati da un’inflessione migliorativa), ma di un altro Sé, un Sé profondamente diverso per quanto riguarda la materia di cui è fatto ma, al tempo stesso, riconoscibilmente ancorato al soggetto (“me”), qualcosa di separato da quest’ultimo (per poter funzionare) e, al tempo stesso, da esso inseparabile, pena la nullificazione operativa dell’avatar.

Anche la problematizzazione del tema della somiglianza fa dei memoji un caso paradigmatico della fantasmalità digitale, declinando la referenza come ritrovamento, più che come relazione: ritrovamento di un indice di realtà, di una connessione tra dimensioni, di una temporalità dell’azione. Insieme, come anticipato, a differenza dell’avatar (video)ludico, queste forme di trasfigurazione personale si caricano di un coefficiente metalinguistico che rimanda alla logica profonda della società digitale, ossia alla fantasmizzazione della realtà, al suo scomparire con l’immagine, secondo il dettato baudrillardiano. Farsi immagine attraverso queste procedure è, insieme, un gesto che rinnova la fantasmalità mediale caratteristica dell’immagine tecnica (“il fantasma nella macchina”) e, al tempo stesso, un esercizio quotidiano di consapevole negoziazione tra presenza e assenza, materialità e virtualità, realtà e illusione, dentro un nuovo regime sensibile e spettrale:

It is the time of the ghost, the revenant and the spectre […] In this digital age […] the ghost is not a retreat to the margins, whether of art history, aesthetics or cultural studies, but is rather an assertion that the virtual is in some sense real, and the paranormal normal, as what was formerly invisible comes into visibility (Mirzoeff 2002: 239).

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  1. Si pensi soltanto a come il cinema, fin dalle origini, ha costantemente lavorato e rinnovato la narrazione e la rappresentazione del genere “ghost story”; si veda in proposito Leeder, Murray (ed.) (2015). Cinematic ghosts: haunting and spectrality from silent cinema to the digital era. New York–London: Bloomsbury Academic.↩︎

  2. Si vedano, in particolare, L’immagine insepolta (pubblicato nel 2002, tradotto in italiano nel 2006) e la sua ideale premessa, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (pubblicato nel 2000, tradotto in italiano nel 2007). Ma al di là di questi due titoli, Aby Warburg è, a sua volta, una specie di fantasma che serpeggia lungo tutta la riflessione dello studioso francese.↩︎

  3. Un “successo”, quello contemporaneo delle tesi warbughiane, che ha però, come conseguenza quasi inevitabile, una sua eccessiva volgarizzazione; così, lo studioso stesso «si iperspettralizza nel momento stesso in cui tanti si mettono a invocarlo come nume tutelate delle scelte teoriche più diverse: della storia delle mentalità, della storia sociale dell’arte, della microstoria; dell’ermeneutica; di un sedicente antiformalismo; di un cosiddetto “postmodernismo retromoderno”; come nume tutelare infine della New Art History, nonché grande alleato della critica femminista…» (Didi–Huberman 2006: 35).↩︎

  4. Si vedano molti dei saggi inclusi nelle due antologie curate da Blanco, Maria del Pilar e Esther Peeren. Popular Ghosts. The Haunted Spaces of Everyday Culture (2010). New York: Continuum; The Spectralities Reader. Ghost and Haunting in the Contemporary Cultural Theory (2013). New York–London: Bloomsbury. Vale inoltre la pena segnalare come la pandemia di Covid abbia ulteriormente favorito l’impiego della metafora del fantasma, anche in direzioni nuove; si veda, per esempio, Kattago, Siobhan (2021). “Ghostly pasts and postponed futures: The disorder of time during corona pandemic”. Memory Studies 14(6): 1401–1413. https://doi.org/10.1177/17506980211054015↩︎

  5. In proposito, mi permetto di rimandare al mio Postmoderno e cinema. Nuove prospettive d’analisi (2017). Roma: Carocci.↩︎

  6. Di cui qui, non da ultimo per ragioni di spazio, si dà per scontata la conoscenza.↩︎

  7. Per la nozione di postfotografia, mi limito a rimandare al recente Grespi, Barbara e Federica Villa (a cura di) (2024). Il postfotografico. Dal selfie alla fotogrammetria digitale. Torino: Einaudi; per quanto riguarda invece la meno fortunata etichetta di postcinema, si vedano Denson, Shane e Julia Leyda (eds.) (2016). Post-Cinema. Theorizing 21st-Century Film. Falmer: Reframe Books; Chateau, Dominique e José Moure (eds.) (2020). Post-Cinema. Cinema in the Post-Art Era. Amsterdam: Amsterdam University Press.↩︎

  8. Lupton, Deborah (2018) Sociologia digitale. Milano: Pearson.↩︎

  9. Generalizzazione favorita anche dalle acquisizioni di Instagram (2012) e WhatsApp (2014) da parte di Facebook (con la creazione del gruppo Meta), che ha via via allineato il funzionamento di questo app.↩︎

  10. Nell’ampia bibliografia sul tema, mi limito a segnalare alcuni testi particolarmente significativi per lo studio delle pratiche di autorappresentazione: Ensslin, Astrid e Eben Muse (a cura di) (2011). Creating Second Lives. Community, Identity and Spatiality as Constructions of the Virtual. New York-London: Routledge; Rettberg, Jill Walker (2014). Seeing Ourselves Through Technology. How We Use Selfies, Blogs and Wearable Devices to See and Shape Ourselves. London: Palgrave Mac­millan; Humphreys, Lee (2018). The Qualified Self: Social Media and the Accounting of Everyday Life. Cambridge-London: The MIT Press; Ibrahim, Yasmin (2018). Production of the “Self” in the Digital Age. London: Palgrave Macmil­lan; Friedenberg, Jay (2022). The Future of the Self. An Interdisciplinary Approach to Personhood and Identity in the Digital Age. Oakland: University of California Press.↩︎

  11. Faccio riferimento al volume di Jenna Ng, The Post–Screen Through Virtual Reality, Holograms and Light Projections del 2021, anche per il suo valore di sintesi e rilancio di ambiti di studio – primi tra tutti quelli relativi alla Screen Culture e alle interfacce – che sarebbe qui impossibile anche solo sintetizzare.↩︎

  12. Impossibile, qui, ampliare la riflessione, ancora tutta da sviluppare e di grande interesse, in merito al recentissimo dilagare delle procedure comunicative (verbali e visuali) dichiaratamente effimere o “ghost” in tutte le principali applicazioni di messaggistica.↩︎

  13. Espressione che, vale la pena ricordare, viene dal filosofo Gilber Ryle, che la impiega nel suo The Concept of Mind (1947) per criticare la separazione cartesiana tra corpo e mente e la caratterizzazione di quest’ultima come immateriale, effimera, ideale – un’entità fantasmatica, appunto, dentro la materialità del corpo. L’espressione è divenuta poi proverbiale nell’ambito della teoria dei media, e non a caso figura come titolo della terza sezione del volume di Blanco e Peeren, The Spectralities Reader (2013), dedicata, appunto, al rapporto tra occulto e media e al ruolo della metafora del fantasma nella storia delle tecnologie moderne. L’inversione dei termini nel titolo del saggio di Robin Boast – The Machine in the Ghost (2017) – suggerisce un interessante rovesciamento del punto di vista: l’autore, infatti, mira a tratteggiare una storia del digitale scindendo computing da computer (il linguaggio dalla tecnologia), per concentrarsi sul «ghostly process of computation, the processing of numbers by mathematics held in virtual – electronic – suspension», posizione 5.21. Il riferimento all’espressione di Ryle vale anche come monito: «In this book, I try to show that the virtual ghost of digitality is very real, very physical, and very active in the constitution of our contemporary digital world», posizione 5.23.↩︎

  14. Mi limito a segnalare Timmermans, Elisabeth, Anne– Mette Hermans e Suzanna J. Opree (2021). “Gone with the wind: Exploring mobile daters’ ghosting experiences”. Journal of Social and Personal Relationships 38(2): 783–801. https://doi.org/10.1177/0265407520970287; e Pancani, Luca, Davide Mazzoni, Nicolas Aureli e Paolo Riva (2021). “Ghosting and orbiting: An analysis of victims’ experiences”. Journal of Social and Personal Relationships 38(7): 1987–2007. https://doi.org/10.1177/02654075211000417↩︎

  15. Si veda, a titolo di sintesi, Lino, Mirko (2018). “Una ‘singolare’ spettralità tecnologica. L’avatar tra cinema, letteratura e serie Tv”. In Ritorni spettrali. Storie e teorie della spettralità senza fantasmi, a cura di Puglia, Ezio, Massimo Fusillo, Stefano Lazzarin e Angelo M. Mangini,185–206. Bologna: Il Mulino.↩︎

  16. Il termine è la contrazione di “me” e di “emoji”; quest’ultimo termine, di origine giapponese, può essere tradotto letteralmente come “carattere pittografico” (il primo set di emoji è stato introdotto da un gestore telefonico giapponese nel 1997). Ho avviato la riflessione su questo tema in Malavasi, Luca (2023). “Farsi una faccia come tutte le altre: il caso dei memoji”. In Il Sé riflesso. Immagini, narrazioni, tecnologie e altre forme contemporanee di autorappresentazione, a cura di Dalpozzo, Cristiano, Federica Negri e Arianna Novaga, 49–75. Milano: Meltemi. Per un inquadramento generale, si veda Villa, Federica (2024). “Self”. In Il postfotografico, a cura di Grespi, Barbara e Federica Villa, 201–218. Torino: Einaudi.↩︎

  17. Come ha osservato Adam Mosseri, CEO di Instagram, in un video caricato il 2 febbraio 2022 sul proprio profilo in occasione del lancio della novità, l’avatar del Metaverso è «a key building block for the future of personal identity in the metaverse», «the virtual identity you use to show up across the metaverse – whether that’s an app built by Meta or another company».↩︎