1 Introduzione. Spettri mediali
Lo spettro, metafora storicamente radicata del dispositivo cinematografico e tema ricorrente in innumerevoli pellicole, è stato analizzato dalla critica perlopiù come simbolo socioculturale e archetipo narrativo (Hill 2010; del Pilar Blanco et al. 2013). Muovendo da tali premesse, il saggio propone di riorientare la prospettiva e di analizzarlo, invece, come forma intermediale ibrida tra materia ed energia. Ci proponiamo di documentare l’emergere nel cinema contemporaneo di una tendenza che definiamo archeologia spettromediale, uno strumento analitico-teorico capace di decodificare le dinamiche estetiche e le stratificazioni intermediali che modellano l’atmosfera spettrale sullo schermo. In vista dell’applicazione del concetto di archeologia spettromediale all’opera di Para One, lo studio prevede un approfondimento sul cinema d’autore contemporaneo che mira a illustrare, mediante una panoramica introduttiva, le potenzialità applicative dell’archeologia spettromediale.
Alla luce di ciò, si adotterà un approccio volto a esaminare il testo
nella sua relazione inscindibile con il medium di riferimento (Zecca
2015). L’indagine sulla dimensione mediale sarà affiancata da un’analisi
strettamente testuale, al fine di garantire una comprensione articolata
degli oggetti di studio. Si seguirà perciò una duplice direzione: da un
lato, esplorando le dinamiche tra testo, supporto e dispositivo;
dall’altro, conducendo un’analisi teorico-estetologica incentrata sullo
statuto ontologico dello spettro, sulle implicazioni narrative,
psicologiche e filosofiche che esso genera all’interno delle opere prese
in esame.
In quest’ottica, l’approccio intermediale si definisce come una
metodologia d’analisi che supera la nozione di sovrapposizione di media
(multimedialità) o di migrazione di contenuti tra media
(transmedialità). L’intermedialità è un’“arte delle trasmissioni”,
orientata a indagare le dinamiche di connessione, comunicazione e
registrazione dell’esperienza umana (Méchoulan 2017), coinvolgendo mezzi
materiali e immateriali, tecniche corporee e cognitive, dispositivi
sociali e istituzioni (Méchoulan 2015: 12). Seguendo Méchoulan,
deduciamo che esiste una relazione primigenia tra la dimensione
materiale del medium e quella semantica della significazione: le idee
emergono come prodotti di dispositivi concreti, siano tecnologici,
corporei, sociali ecc., e non possono essere intese come entità
disincarnate, slegate dai loro supporti materiali e sensoriali.
In linea con gli studi recenti sui nuovi materialismi audiovisivi e sul rinnovato interesse per il fotochimico nel cinema sperimentale (Knowles 2020; Cardin et al. 2024), il cinema di finzione contemporaneo teorizza e pratica un’archeologia spettromediale. In entrambi i casi, la spettralità mediale evoca tracce di formati obsoleti, linguaggi residuali e tecnologie abbandonate, le quali, attraverso processi attivi di rimediazione, influenzano forme e stili del cinema d’autore. Se il cinema sperimentale incarna tale estetica manipolando direttamente il supporto fisico della pellicola (Sami van Ingen, Emmanuel Lefrant, Louise Bourque e Jennifer Reeves e altri), il cinema di finzione la rielabora in chiave narrativa e compositiva (Victor Erice, Steven Spielberg e altri).
2 Transmitting cinema
All’inizio del XXI secolo, l’avvento dei media digitali e del virtuale ha paradossalmente spinto autori e studiosi a concentrarsi su pratiche materiali di conservazione, come il recupero e l’archiviazione di tracce sonore e visive del passato. I noti studi di Parikka (2012) parlano di archeologia dei media per definire il rifiuto di una lettura lineare e teleologica dello sviluppo tecnologico, privilegiando invece l’analisi delle contro-narrazioni storiche e delle stratificazioni nascoste negli artefatti mediali. Criticando l’idea di un tempo progressivo e di uno spazio sempre presente, la disciplina suggerisce di ripensare alla zona “di mezzo” tra ciò che è vivo e ciò che è morto come il luogo di esistenza di qualunque artefatto mediatico (Goodall 2019: 74).
Come ha ben illustrato Mireille Berton la medialità tecnologica difatti è sempre stata medianica (2018). Accanto ai dispositivi di telecomunicazione, quali il telegrafo, il telefono, la radio, il cinema e la televisione, si svilupparono nel corso del tempo ulteriori strumenti di visualizzazione, come il radiografo e il magnetometro, concepiti principalmente per applicazioni scientifiche. Sebbene differiscano nelle funzioni, questi condividono, oltre che fondamentali principi fisici ed elettromagnetici, una medesima finalità epistemologica: rendere accessibile alla percezione umana ciò che risulta invisibile o distante, che si tratti di un campo magnetico, di un’onda radiofonica o delle strutture interne del corpo. È nella genealogia dell’evoluzioni dei dispositivi in distans che emerge l’aspetto perturbante della storia delle tele-tecnologie che, in un intermezzo tra visibilità e invisibilità, tra vita e morte, si sviluppa in un’archeologia di fantasmi (Goodall 2019). A partire da ciò sono stati utilizzati concetti come haunted media (Sconce 2000), zombie media (Parikka 2012) e uncanny media (Botting 2015) per ridestare quell’aura originariamente spettrale del tessuto mediale che è teoricamente messa a punto dalle meditazioni di Jacques Derrida intorno all’archivio, alle teletecnologie e alla decostruzione come “logica spettrale” (Derrida 1997 [2005]).
La connessione tra medialità e spiritualità affonda le radici in una lunga tradizione storica. Già nel 1760, Tiphaigne de la Roche, nel romanzo Giphanthie, immaginò una fissazione chimica della luce mediata da ‘spiriti elementari’, sovrapponendo il medium come sostanza fisica (in quel caso l’atmosfera) ad un’entità metafisica. L’ibridazione tra tecnologia e occulto proseguì con esperimenti ottocenteschi come il necrofono di Edison (per captare le vibrazioni postume del corpo umano) e le riflessioni di Bergson (1913) sulla telepatia, sul sonnambulismo e sul paranormale come forme di intercomunicazione tra coscienze. Lo spiritismo vittoriano fu un nesso fondamentale tra la medialità e l’occulto, responsabile diretto di alcune modalità di sviluppo dell’intrattenimento moderno (Natale 2016, Leeder 2017). Le sedute spiritiche con la loro performatività (effetti luminosi e sonori), e la fotografia spiritica con le sue manipolazioni tecniche (doppie esposizioni), anticiparono logiche radiofoniche, cinematografiche e televisive. La negazione di una situazione evidentemente fittizia sorge proprio dalle dinamiche rituali e partecipative delle sedute spiritiche ottocentesche, rendendo evidente come questi fenomeni contribuirono, fin dal cinema delle origini (Leeder 2017), a definire l’immaginario mediale moderno (Natale 2016: 41). Approfondendo la questione, Yves Citton (2017) individua negli spettacoli di fantasmagoria di Robertson una matrice originaria dei dark media del XIX secolo: le esperienze sensoriali totalizzanti della fantasmagoria anticiparono il concetto di “médiarchie” coniato dall’autore per riferirsi a un regime di potere in cui i media plasmano percezioni, immaginari e strutture di senso, ridefinendo l’esercizio stesso dell’autorità culturale e politica. Dalle origini al presente, il cinema forgia “stati di coscienza particolari” (Epstein 2002): i primi spettatori, corpi magnetici e ipersensibili (Berton 2015), cedevano al sortilegio di un “regno di ombre” (Gor’kij 2005) che, oggi come allora, resta un “dispositivo di trasmissione” (Harbord 2016).
3 Archeologie spettromediali nel cinema contemporaneo
Uno dei tratti peculiari di una certa produzione filmica d’autore contemporanea risiede nella riflessione metalinguistica sull’evoluzione del dispositivo cinematografico, sondata mediante una ricostruzione genealogica dei supporti e delle tecnologie filmiche. Dall’ottica pre-cinematografica ai flussi di dati digitali, tali opere, allineandosi alla prospettiva intermediale teorizzata da Silvestra Mariniello (2010), inscrivono nel loro tessuto estetico una concezione polimorfa, refrattaria a rigide definizioni e aperta a interrogazioni critiche sulle componenti dell’ecosistema mediale. Più che circoscriverne i confini, Mariniello, in effetti, valorizza la natura fluida dell’intermedialità, sottolineando come essa si presti a analizzare dinamicamente e interdisciplinarmente le relazioni tra pratiche e linguaggi con una specifica attenzione alla componente materiale. L’autrice (2010: 25) osserva come molte fotografie, videoinstallazioni e film contemporanei non trasmettano significati preesistenti e codificati, ma mettano in scena “l’esistenza stessa delle cose”: la loro presenza come immagine, suono, durata, ritmo.
Ne sono un esempio The Fabelmans (Steven Spielberg 2022) e Cerrar los ojos (Víctor Erice 2023) in cui, ripercorrendo la storia del cinema, tramite la propria vita personale (Spielberg), oppure riattivando citazioni dalla propria filmografia (Erice), si riflette su come i transfert intermediali siano costruttori di “nuove forme dello stare al mondo” (Zucconi 2013: 21). Ad esempio, la ricorrente iconografia della sala cinematografica svuotata e in rovina, più che un elemento di mera scenografia, è la manifestazione concreta di questi continui trasferimenti intermediali o, più dettagliatamente, di fenomeni di rilocazione (Casetti 2015), cioè di riattivazione delle esperienze di fruizione in più ambienti mediali.
In Bestiari Erbari Lapidari (D’Anolfi e Parenti 2024), gli strumenti del pre-cinema – microcinematografie e radiocinematografie – diventano strumenti enciclopedici per scrutare l’invisibile, rivelando però l’impossibilità di cristallizzare un’ecologia integrale in rigide categorie. Il film documentario rientra nella nostra panoramica in quanto, seguendo Pietro Montani ne L’immaginazione intermediale, una caratteristica del nuovo paradigma audiovisivo contemporaneo è la coalescenza di costruzioni narrative e di modalità documentarie: un cinema che non si limiti al confronto tra “diversi formati tecnici dell’immagine (l’ottico e il digitale)”, ma si estenda anche alle sue “diverse forme discorsive (finzionale e documentale)” (Montani 2010: XII).
È ciò che accade anche in Retratos fantasmas (Mendonça Filho 2023): le sale cinematografiche abbandonate e i proiettori-obsoleti si trasformano in reliquie di un ecosistema mediale scomparso, mentre lo spazio domestico diventa, da set dei primi corti amatoriali, un sito archeologico privato. Filho, fotografando un’ombra nell’appartamento del vicino, incarna un medium moderno, il veicolo di una medialità medianica: un valido erede della fotografia spiritica della metà del XIX secolo.
Infine, il film A Ghost Story (David Lowery 2017) rappresenta perfettamente l’intreccio tra tecnologia, spettralità e psiche che definisce l’archeologia spettromediale. Attraverso la vicenda di una casa, il film riattiva gli intervalli perduti del tempo umano, trasformando il dispositivo cinematografico in un medium di raccordo tra mondi sensibili e invisibili, tra storia collettiva e privata. Ciò dimostra come le tensioni spettromediali nel cinema contemporaneo diano spesso vita a una narrazione tecnicamente e narrativamente ibrida: in primo luogo si pensi alla scelta del formato 4:3 (rimando all’aspect ratio del cinema muto in 35 mm) e alla regia del suono che amplifica rumori ambientali e interferenze elettromagnetiche; in secondo alla narrazione sospesa tra finzione e documento.
4 Disarchiviare: da Chris Marker a Para One
Chris Marker, pioniere del cinema francese, ha plasmato con le sue immagini elettroniche le archeologie spettromediali contemporanee e, infatti, Spectre di Para One intrattiene un legame genealogico per forma, contenuti e intenti con uno dei più significativi lavori di Marker, Sans Soleil. L’ecrivain multimedia (Gauthier 2003), già alle soglie del nuovo millennio, attraverso opere visionarie (Sans Soleil, 1983; Level Five 1997; Immemory 1997), ha interrogato profeticamente la “nuova cinematica del digitale” (Murray 2000), anticipando con le stratificazioni temporali e le materialità residuali presenti nelle sue creazioni le coordinate estetiche e concettuali di un linguaggio cinematografico ancora a venire.
Premettendo che l’esperienza del mondo non poteva essere ormai separata da tutte le forme di registrazione ed elaborazione elettronica e digitale, Marker propone una riflessione artistica e filosofica sullo status delle immagini e sul loro valore ontologico e di verità, associandola sempre ad un’operazione mnemonica. Il cinema in questo caso si rivela l’unico mezzo in grado di catturare e reiterare un tempo qualitativo (Perniola 2011: 74), quello che esercita sul soggetto una travolgente carica affettivo-emotiva. Allo stesso tempo, però, l’immagine materiale del ricordo analogico, quella realmente impressa sulla pellicola, si confronta e trasmigra in materia elettronica.
Come nota Dalmasso (2015), le immagini di Marker sono sans soleil. Immagini iper-mediate e impure, generate senza il grafismo diretto della luce: la loro creazione prescinde dall’impronta ottica, sostituita da codici e linguaggi multipli. La stratificazione mediale dissolve il legame con il referente, trasformando ogni immagine in un artefatto potenzialmente falsificabile. Eppure, in questa apparente crisi epistemologica, la tecnologia elettronica – con i suoi assemblage stratificati – finisce per mimare il meccanismo mnemonico umano di creazione di “immagine memoria” (Dalmasso 2015: 268). È qui che l’archivio mentale e quello digitale convergono in un processo associativo che, citando Zucconi (2013: 27), supera la nozione di mero deposito storico, delineandosi come “la misura discorsiva e la stratificazione delle forme di comprensione del reale che si sono espresse e si esprimono, aggiornandosi continuamente all’interno delle rappresentazioni sociali”.
La trilogia Spectre (2021) del regista e compositore francese Para One si configura come un progetto transmediale articolato in tre componenti: l’album Machines Of Loving Grace, lo spettacolo performativo Operation Of The Machine e il lungometraggio Sanity, Madness & The Family. Il rapporto tra le due opere, Sans Soleil e Sanity, Madness & The Family, si misura nell’operazione di disarchiviazione che i due protagonisti, Sandor Krasna (un doppio di Marker) e Jean-Baptiste de Laubier (il nome di battesimo di Para One e, in un certo senso, il suo doppio originario), compiono sulle immagini e sulle parole (scritte e ascoltate) del loro passato. Nel lungometraggio Sanity, Madness & The Family, Para One narra in prima persona la storia della propria famiglia, segnata dalla schizofrenia e influenzata dalla guida spirituale Chris, che promuove terapie collettive ispirate all’antipsichiatria (il titolo cita l’omonimo testo di R.D. Laing). Come Chris Marker – di cui Catherine Lupton (2004) analizza l’autorappresentazione finzionale – Para One diviene personaggio di sé stesso, ibridando documentario e finzione, come avverte una didascalia iniziale.
Disarchiviare gli spettri visivi e sonori implica un’interrogazione radicale del loro statuto ontologico e di verità: confrontarsi con le tracce del passato non per conservarle, ma per rigenerarle mediante pratiche di riattivazione, scoprendo deviazioni e possibilità alternative, puntando a significare ciò che l’archivio tradisce o esclude. In questa operazione, il cinema emerge, sia per Marker che per Para One, come il dispositivo di ri-mediazione per eccellenza: un meta-archivio che meta-opera in sé stesso tramite il montaggio e l’ibridazione intermediale.
Para One cita apertamente Sans Soleil di Chris Marker: come il videoartista Hayao Yamaneko, che in quel film manipola immagini dei tumulti anni ’60 con l’EMS Spectre (Fig. 1), Para One (Fig. 2) utilizza un sintetizzatore per alterare filmati familiari recuperati da nastri magnetici. Attraverso questa manipolazione elettronica, costruisce una vita parallela virtuale, dove gli eventi storici vengono decostruiti e risignificati nello spazio liminale de La Zona (citazione diretta a Stalker di Tarkovskij).
Nella Zona, luogo di sospensione degli ordini spazio-temporali, si preserva l’oscillazione tra un ricordo autentico del passato e un ricordo sintetizzato del futuro (Perniola 2011: 172): un evento analogico, vissuto nel presente come esperienza diretta, e il suo doppio digitale, ricostruito retrospettivamente attraverso mediazioni tecnologiche. Se Marker, però, come abbiamo detto, si ritrova perfettamente all’interno della conversione digitale – e ciò motiva la sua curiosità verso le immagini sintetizzate – Para One invece, con un approccio ibrido da cinefilo e archeologo digitale, si colloca in una posizione anacronistica che gli permette di interrogare le forme intermediali contemporanee come oggetti da decostruire e non come entità già date, rivelando così il potenziale di una pratica critica che rifiuti la piena sincronia mediale.
5 Corpi ipermediatici
Mi sentivo un archeologo del futuro, intento a riportare in vita un vecchio fantasma.
– Para One
Il film Sanity, Madness & The Family si apre con l’assenza di immagini dell’infanzia di Para One, legata al divieto di registrazione nella comunità terapeutica in cui è cresciuto. Il vuoto viene riempito da un pacco inviato dalla sorella Anne contenente frammenti della storia familiare lasciati dal maestro Chris. Il materiale, accompagnato da una lettera, è costituito da videocassette, nastri magnetici delle sedute terapeutiche e fotografie (Fig. 3). Para One, all’interno di un attrezzato studio di registrazione, maneggia tastiere, mixer audio, televisioni a tubo catodico e proiettori, riproducendo cassette in mangianastri e videoregistratori. Se i mangianastri convocano delle voci provenienti “dal vuoto dell’oltretomba” (Sconce 2000: 64) dialoganti non più nel mentre di una seduta terapeutica, ma quasi spiritica (Fig. 4, 5), il proiettore invece rende visibili in un fascio di luce i corpi assenti dei protagonisti che si materializzano in un’apparizione spettrale (Fig. 6).
Immerso nei dispositivi di registrazione, il corpo di Para One si trasforma a sua volta in un dispositivo dotato di una doppia sensibilità: tecnica ed emotiva, meccanica ed umana. A proposito, Thacker ha parlato di biomedia (2004) per chiarire il modo in cui il corpo umano, immerso in un ambiente mediale, interagendo con più dispositivi tecnologici, muti in un organismo protesizzato, in un “corpo-ambiente virtuale” (Diodato 2021) relazionale ed interattivo. Un corpo-schermo che incarna un dualismo filosofico (Carbone 2019: 11): lo schermo come strumento di mistificazione (Para One che ammette la romanzizzazione della propria biografia), ma anche come dispositivo riflessivo (l’autore che ricostruisce e svela la sua storia). È in questo senso che il corpo del regista è a sua volta un medium che rimedia e viene rimediato (Boltin et al. 1999): un medium medianico, un essere “ipermediatico” (Berton 2018: 78) che, metà tecnologico e metà organico, sembra poter comunicare con i morti.
Una sequenza del film si apre con la voce ipnotica di Chris che esorta François, padre di Para One, a chiudere gli occhi e ascoltare la musica. Para One inserisce una videocassetta in un registratore, avviando un filmato che inizia con il rumore bianco dello schermo catodico, pixel casuali generati dall’assenza di segnale. Lo sfarfallio casuale di punti e il rumore elettronico captato dal ricevitore introducono un ambiente elettrico e scisso, in cui ogni dispositivo si attiva quasi possedente una vita propria: una paranormale vivacità (Sconce 2000). Più della radio o dello schermo cinematografico, lo schermo televisivo costituisce un’interfaccia elettronica diretta: palpabile, visibile e materialmente ‘reale’, anche se completamente assente e fantasmagorica (Fig. 7).
Il legame tra media e fruitore assume qui i tratti di un delirio schizofrenico (Sconce 2000), centrale nella narrazione autobiografica di Para One. La comunità terapeutica di Chris cura i membri della famiglia senza psicofarmaci, ma tramite la sovrascrittura dell’immaginario onirico e la somministrazione ripetuta di immagini e suoni. L’elettropsicologia sottopone i pazienti a sessioni di trance psichedeliche, monitorate e raffigurate tramite diagrammi computerizzati, visibili in vecchi monitor monocromatici di colore verde. Ad avvalorare il rapporto tra medialità e follia già lo psicoanalista Viktor Tausk che nel 1919 trattò dei pazienti schizofrenici convinti di essere manipolati da ‘macchine influenzanti’ (batterie, ruote, fili, pulsanti). Conferma Sconce che, lungi da essere una ideazione allucinata, gli influssi elettromagnetici che affliggono i pazienti di Tausk sono “uno spostamento piuttosto logico delle nuove meraviglie delle telecomunicazioni dell’epoca: vale a dire, il cinema, la telegrafia, la telefonia e il wireless” (Tausk 1919, Sconce 2011: 72).
Le nuove tecnologie sono macchine fantasma con una psicotica componente strutturale: le immagini e suoni disarchiviati abitano l’anacronismo del trauma, generando cortocircuiti temporali che sovvertono i modelli positivisti di causalità ed evoluzione, congiungendo ad una archeologia materiale una archeologia psichica. Se la storiografia ha un impianto teleologico e narrativamente chiuso, l’archivio è invece discontinuo e interrotto, perché le sue relazioni non hanno legami causali, ma reticolari e traumatici. Quando il regista riproduce fotografie della famiglia in vacanza, in un’apparente atmosfera di pace e serenità, ai ritratti fotografici dei famigliari è però sottratto il volto, sostituito da un alone bianco sfocato che, impedendo di scorgere i tratti espressivi, conferisce ai protagonisti una fisionomia spettrale (Fig. 8).
I corpi delle fotografie di famiglia emanano un’insolita luce perché composti di sostanza luminosa: la loro natura fotonica plasma una memoria familiare scomposta, dislocata e a-temporale. Dei membri della famiglia del regista non resta che una sagoma spettrale: una virtualità senza corpo capace di “oltrepassare il tempo lineare, di navigare, anticipare o riciclare momenti passati e futuri” (Gunning 2007: 117).
6 Medialità vibranti e contagiose
La poliedricità di Para One, regista e compositore, infonde nel lungometraggio un campo vibrazionale geograficamente situato, riflesso del pellegrinaggio transcontinentale in Giappone, Indonesia e Bulgaria sulle tracce di Chris ed Elina. In Giappone, la collaborazione con i Kodō, leggendari maestri dei tamburi taiko sull’isola di Sado, è l’emblema del percorso transmediale instaurato da Para One: le performance rituali, filmate e poi rielaborate elettronicamente, trasformano il corpo sonoro del taiko in un’immagine sintetizzata, dove il ritmo ancestrale dei tamburi si fonde con glitch e distorsioni. Inoltre, Para One assorbe strutture armoniche e ritmiche dalle tradizioni musicali incontrate, ibridandole con sintetizzatori modulari e campionamenti: una prassi compositiva che trasgredisce ogni gerarchia tra analogico e digitale, tra locale e globale e che ha come risultato il suo album Machines Of Loving Grace (2021).1 Il concept album si fonda sull’idea di corpi umani e dispositivi come superfici risonanti, capaci di emettere e ricevere vibrazioni in una “medialità contagiosa” (Goodman 2010: 79). L’album, fondendo minimalismo (Steve Reich, Philip Glass), musica trance, sonorità elettroniche e gamelan indonesiano, e realizzato in collaborazione con Kenji Kawai, celebre compositore della colonna sonora di Ghost in the Shell, è un tessuto sonoro ibrido e poliritmico.
La profonda interazione tra materie espressive differenti, dal visivo al sonoro, secondo una dinamica traduttiva intermediale (Zecca 2015: 122), supera la fisicità del mezzo in cui le onde si incanalano (apparati di registrazione e poi di emissione e proiezione), riconfigurando l’immagine e il suono in intensità (Massumi 2002: 14). Se il suono può divenire superficie tattile, modulando la grana visiva, l’immagine può farsi traccia ritmica, scandendo le frequenze uditive: da contorni definiti si passa a sfumature luminose, fino a macchie informi che smaterializzano le sagome in onde (Fig. 9, 10). L’approccio archeologico-intermediale di Para One svela così una epistemologia della risonanza in cui i media fungono da catalizzatori di trasformazione: “Non solo operatori di complicazioni, ma anche entità risonanti animate da auto-complicazioni immediate” (Citton 2017: 252). È il caso del coro Le Mystère des Voix Bulgares che, fondendo musica popolare e innovazione armonica, intrecciando diafonie, contrappunti e dissonanze ritmiche, genera una polifonia estraniante di voci in cui il suono si materializza e diviene visualizzabile in un insieme di linee e forme.
Il passaggio dalle diafonie armoniche del coro bulgaro alle interferenze fastidiose dei sistemi di telecomunicazione sottolinea una ricorrenza nelle teorie dell’archeologia dei media2: il rumore (fruscii, ronzii elettromagnetici) è una manifestazione “della presenza o del simulacro delle macchine o dei supporti di registrazione” (Bottini 2024: 18-19). L’approccio hauntologico (Derrida 1993) interpreta la registrazione come un atto intrinsecamente spettrale: la meccanizzazione della voce separata dal corpo istituisce un “tempo fonografico” (Sterne 2003), intensificato dalla transizione da una registrazione analogica, a contatto diretto con la fonte sonora, a una digitale, mediata da una lettura dell’onda sonora. Di seguito, Reynolds (2006) e Fisher (2013) rielaborano il concetto di hauntologia connettendolo al contesto musicale contemporaneo e soprattutto alle produzioni elettroniche (Para One ne è un esempio). L’anomalia provocata dai media tecnici postumani (Parikka 2011: 256) rappresenta in Sanity, Madness & The Family lo spazio spettrale dell’indicibile: un luogo in cui la narrazione si frammenta in rovine discorsive (Ernst 2005), ed è incapace di codificare il segreto transgenerazionale che perseguita la famiglia Laubier. Rientrato a Parigi, Para One rielabora il materiale filmico utilizzando un sintetizzatore modulare per trasformare i filmati in partiture audiovisive: l’autore realizza un patchwork mediale ‘suonando’ le immagini come fossero onde sonore.
7 Osservazioni conclusive
Nel lungometraggio di Para One, gli spettri mediali non sono astratte metafore di un passato da rielaborare mediante un lavoro di analisi, ma presenze materiali, energie audiovisive che irrompono nel presente tramite anomalie formali. Lo spettro mediale è ben rappresentato da contaminazioni temporali (la coesistenza dell’archivio con la ripresa diretta, dei montaggi discontinui con quelli narrativi, della finzione con il documento); da disturbi sonori (le interferenze compresenti con segnali audio puliti e privi di rumore); da ibridazioni tecniche (le manipolazioni elettroniche su pellicola analogica e viceversa).
Dunque, l’archeologia spettromediale si estende a un’intera costellazione di dispositivi e linguaggi: dalla radio alla televisione, dalla fotografia alla musica e al teatro, fino alle reti digitali. È tramite tracce materiali residue (pellicole, nastri, segnali analogici) e processi di riattivazione intermediale (ossia la riappropriazione creativa di formati e linguaggi del passato) che questa messa in forma ridefinisce il rapporto con la temporalità e la materialità dei media, smascherando la natura composita della realtà mediale contemporanea e trasformando sia il dispositivo cinematografico che le soggettività in esso implicate in un medium autoriflessivo capace di interrogare criticamente le proprie storie.
Il lavoro di Para One si serve dello spettro mediale come operatore di mediazione, cioè come il campo energetico di riconfigurazione del cinema (Casetti 2015), il nucleo della sua rinascita integrativa e intermediale (Gaudreault et al. 2015: 123). Da un lato lo spettro funge da medium, incarna in sé il dispositivo (è dapprima il pacco giunto dal Giappone, la lettera inviata, il videoregistratore, il registratore, lo smartphone e, naturalmente, il dispositivo cinematografico), dall’altro fornisce gli strumenti per meta-operare e meta-riflettere sul medium stesso.
La forma archeologica spettromediale, quindi, inglobando un’operazione tematica o archetipica, ma non riducendosi ad essa, si configura essa stessa come medium. Attivando dialoghi tra epoche mediali distanti (si pensi al recupero di forme del pre-cinema o del cinema muto) e dimensioni psichiche (rappresentate narrativamente dal passato dei protagonisti, dalla perdita e dal successivo recupero della memoria), essa rivela processi stratificati di mediazione tra realtà soggettive e psichiche da un lato e realtà oggettive e materiali dall’altro. In questo quadro, il cinema è nodo intermediale privilegiato, come dimostra emblematicamente il caso di Para One, la cui opera assorbe, cita e riconfigura al suo interno molteplici dispositivi e supporti mediali.
L’estetica spettromediale nel cinema contemporaneo emerge come fenomeno relazionale, in cui convivono “revenant individualizzati” e “moltitudini e ambienti, […] relazioni inestricabilmente intrecciate in apparati e reti di medialità” (Citton 2020: 1). Nella visione di Para One, la spettralità mediale è un’ecologia complessa (Fuller 2005), sostanziata da flussi di energia che distribuiscono forze psichiche, chimiche ed estetiche.
In ultima istanza chiariamo come, nonostante il saggio consideri le derive nostalgiche che attraversano il film di Para One, l’archeologia spettromediale non possa essere risolta nella manifestazione di un afflato nostalgico per un passato individuale e collettivo. Superando “i confini restrittivi del retro-feticismo” (Knowles 2020: 15), del “revival nostalgico” (Parrika et al. 2018: 45), occuparsi della materialità energetica dei media, più che nostalgia acritica, celata dietro le abusate contrapposizioni dicotomiche tra analogico e digitale, richiede una totale focalizzazione sul tempo presente, sulle nuove forme di immaginazione, elaborazione,3 associazione, memoria e dimenticanza.
References
Bergson, Henri (2015 [1913]). Fantasmi. Roma: Lit Edizioni.
Berton, Mireille (2018). Le médium (au) cinéma. Le spiritisme à l’écran. Ginevra: Georg Editeur.
Bolter, Jay David, Grusin, Richard (1999). Remediation: Understanding New Media. Cambridge: MIT Press.
Botting, Fred (2015). “Technospectrality: Essay on Uncannimedia”. In Technologies of the Gothic in Literature and Culture. Technogothics, edited by Justin D. Edwards, 17–34. New York: Routledge.
Bottini, Guglielmo (2024). Due teorie sulla hauntology. Dal ‘fantasma’ del rumore mediale alla ricerca del suono perduto. Conferenza Anacronismi, ucronie, discronie: la musica nel tempo, il tempo nella musica. Università degli Studi di Milano.
Carbone, Mauro (2019). Philosophy-Screens. From Cinema to the Digital Revolution. New York: State University of New York Press.
Cardin, Fanny, Fromont, Garance, Harris, C.E., Hewison, Charlie, Rostan, Anastasia Barnabé Sauvage (2024). Cinématérialismes. Nouvelles approches matérialistes de l’audiovisuel. Sesto San Giovanni: Éditions Mimésis.
Casetti, Francesco (2015). La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene. Milano: Saggi Bompiani.
Citton, Yves (2017). Médiarchie. Parigi: Éditions du Seuil.
Citton, Yves (2020). “Nature’s Ghosts: Environmentalism as Spectral Mediality”. Trad. ita in RITORNI SPETTRALI. Storie e teorie della spettralità senza fantasmi, a cura di Ezio Puglia, Massimo Fusillo, Stefano Lazzarin e Angelo M. Mangini, 59–82. Bologna: Società editrice il Mulino.
Dalmasso, Anna, Caterina (2015). “La mémoire numérique de Chris Marker. Reflets et désirs des images sans soleil”. Écrans 1(3): 259–277. https://hdl.handle.net/2434/1018669 (ultimo accesso 10-05-2025).
Del Pilar Blanco, Maria, e Peeren, Esther (2013). The Spectralities Reader: Ghosts and Haunting in Contemporary Cultural Theory. Londra: Bloomsbury Publishing.
Derrida, Jacques (1994 [1993]). Gli spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Derrida, Jacques (1997 [1996]). Ecografie della televisione. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Derrida, Jacques (2005 [1995]). Mal d’archivio. Un’impressione freudiana. Napoli: Filema.
Diodato, Roberto (2021). Image, Art and Virtuality. Towards an Aesthetics of Relation. Cham: Springer.
Edison, Thomas A. (2015). Le Royaume de l’au-delà. Grenoble: Jérôme Million.
Epstein, Jean, a cura di Pasquali, Valentina (2002). “Bonjour cinéma”, in L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte. Roma: Bianco e Nero/Marsilio.
Ernst, Wolfgang (2005). “Let There Be Irony: Cultural History and Media Archaeology in Parallel Lines”. Art History 28: 582–603. https://doi.org/10.1111/j.1467-8365.2005.00479
Ernst, Wolfgang (2013). Digital Memory and the Archive. Minneapolis: University of Minnesota Press.
Fisher, Mark (2019 [2013]). Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti. Roma: Minimum Fax.
Fuller, Matthew (2005). “Media Ecologies: Materialist Energies”. In Art and Technoculture: Materialist Energies in Art Technoculture. Cambridge: MIT Press.
Gaudreault, André, e Marion, Philippe (2015). The End of Cinema? A Medium in Crisis in the Digital Age. New York: Columbia University Press.
Gauthier, Guy (2003). Chris Marker écrivain multimédia ou voyage à travers les medias. Parigi: L’Harmattan.
Goodall, Mark (2019). “The Ghosts of Media Archaeology”. In New Media Archaeologies, a cura di Ben Roberts e Mark Goodall, 69–82. Amsterdam: Amsterdam University Press.
Goodman, Steve (2012). Sonic Warfare: Sound, Affect, and the Ecology of Fear. Cambridge: MIT Press.
Gor’kij, Maksim (1996). “The Kingdom of Shadows”. In Imagining
Reality: The Faber Book of Documentary, a cura di K. McDonald e M.
Cousins. Londra: Faber & Faber.
Gunning, Tom (2007). “To Scan a Ghost: The Ontology of Mediated
Vision”. Grey Room 26: 94–127. https://doi.org/10.1162/grey.2007.1.26.94
Harbord, Janet (2016). Ex-centric Cinema. Londra–New York: Bloomsbury.
Hill, Annette (2010). Paranormal Media: Audiences, Spirits and Magic in Popular Culture. Londra: Routledge.
Jiménez-Alonso, B., e Brescó de Luna, I. (2022). “Griefbots. A New Way of Communicating With the Dead?” Integrative Psychological and Behavioral Science.
Knowles, Kim (2020). Experimental Film and Photochemical Practices. Cham: Palgrave Macmillan.
Leeder, Murray (2017). The Modern Supernatural and the Beginnings of Cinema. Londra: Bloomsbury Academic.
Lupton, Catherine (2004). Chris Marker: Memories of the
Future. Londra: Reaktion Books.
Mariniello, Silvestra (2010). “L’intermédialité: un concept polymorphe”.
In Intermedia. Études en intermédialité, a cura di Célia Vieira
e Isabel Rio Novo. Parigi: L’Harmattan.
Massumi, Brian (2002). Parables for the Virtual: Movement, Affect, Sensation. Durham: Duke University Press.
Méchoulan, Eric (2015). “Intermediality: An Introduction to the Arts of Transmission”. SubStance 44: 3–18. https://www.jstor.org/stable/24540835
Méchoulan, Eric (2017). “Intermédialité, ou comment penser les transmissions”. Fabula / Les colloques. https://www.fabula.org/colloques/document4278.php
Montani, Pietro (2010). L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile. Sesto San Giovanni: Meltemi.
Murray, Timothy (2000). “Wounds of Repetition in the Age of the Digital: Chris Marker’s Cinematic Ghosts”. Cultural Critique 46: 102–123. https://www.jstor.org/stable/1354410
Natale, Simone (2016). Supernatural Entertainments: Victorian Spiritualism and the Rise of Modern Media Culture. Pennsylvania State University Press.
Parikka, Jussi (2011). “Mapping Noise: Techniques and Tactics of Irregularities, Interception, and Disturbance”. In Media Archaeology. Approaches, Applications, and Implications, a cura di Erkki Huhtamo e Jussi Parikka. Londra: University of California Press. Parikka, Jussi (2012). What is Media Archaeology? Cambridge–Malden: Polity Press.
Parikka, Jussi, e Catanese, Rossella (2018). “Handmade Films and Artist-Run Labs: The Chemical Sites of Film’s Counterculture”. European Journal of Media Studies. https://necsus-ejms.org/handmade-films-and-artist-run-labs-the-chemical-sites-of-films-counterculture/
Perniola, Ivelise (2011). Chris Marker o Del film-saggio. Torino: Lindau.
Reynolds, Simon (2006). “Haunted Audio: Society of the Spectral”. The Wire 273: 26–33. https://www.thewire.co.uk/issues/273
Reynolds, Simon (2017 [2011]). Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato. Roma: Minimum Fax.
Sconce, Jeffrey (2000). Haunted Media: Electronic Presence from Telegraphy to Television. Durham: Duke University Press.
Sconce, Jeffrey (2011). “On the Origins of the Origins of the Influencing Machine”. In Media Archaeology, a cura di Erkki Huhtamo e Jussi Parikka. Londra: University of California Press.
Sofka, C. (2020). “The Transition from Life to the Digital Afterlife. Thanatechnology and Its Impact on Grief”. In Digital Afterlife: Death Matters in a Digital Age, a cura di M. SavinBaden e V. Mason-Robbie. New York–London: CRC Press.
Sterne, Jonathan (2003). The Audible Past: Cultural Origins of Sound Reproduction. Durham: Duke University Press.
Tausk, Victor (1991 [1919]). “Sexuality, War, and Schizophreni[a]”. In Collected Psychoanalytic Papers, a cura e con introduzione di Paul Roazen. Londra: Routledge.
Thacker, Eugene (2004). Biomedia (Electronic Mediations). Minneapolis: University of Minnesota Press.
Zecca, Federico (2013). Cinema e intermedialità. Modelli di traduzione. Udine: Forum Edizioni.
Zucconi, Francesco (2013). La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità. Milano: Mimesis.
L’album di Para One è disponibile su You Tube:
https://www.youtube.com/watch?v=_8qx_nL5G8Q&list=RD_8qx_nL5G8Q&start_radio=1&rv=_8qx_nL5G8Q&ab_channel=ParaOne↩︎A proposito si considerano testi come Kelly C. (2009). Cracked Media. The Sound of Malfunction, The MIT Press ; Kittler F. (2018). Signal-to-Noise Ratio in Disruption in the Arts. Textual, Visual, and Performative Strategies for Analyzing Societal Self-Descriptions. De Gruyter.↩︎
Ad esempio, nel cinema d’autore contemporaneo (da Piero Messina a David Cronenberg) emerge una micro-tendenza di archeologia spettromediale, ossessionata dalla visualizzazione, estensione e controllo ipertecnologico del corpo post-mortem. La morte si trasfigura in un archivio di dati interrogabili e performabili, trascendendo i supporti analogici (pellicola, nastro magnetico) per incarnarsi nelle infrastrutture del virtuale (realtà aumentata, deep learning), reti di sorveglianza e piattaforme algoritmiche.↩︎