1 Introduzione: Is This Love?
In una scena del film Estranei (All of Us Strangers, 2023) di Andrew Haigh, durante una cena con la moglie e il figlio, il padre di Adam fa girare un vinile dal quale risuonano le parole “I have often wondered why I ever wanted to / Leave these scattered hours behind me and speed myself to you / I choose never to forget”. A cantarle è Alison Moyet e la canzone è Is This Love?, una sua hit di una trentina abbondante d’anni prima, lo stesso lasso di tempo che separa il presente dell’azione da quel periodo di Natale del 1987 in cui i genitori di Adam sono morti in un incidente stradale: nel film viene messo in scena l’infattibile ritorno nel mondo dei vivi di due defunti, la mamma e il papà di uno scrittore britannico ormai ultraquarantenne con il quale i due si riconnettono dopo alcuni decenni di ovvia assenza. Adam, dalla Londra in cui abita, compie ciclicamente dei viaggi nella periferia di Sanderstead per recarsi nella casa di famiglia in cui è cresciuto e dove ritrova i genitori nelle esatte sembianze che avevano nel momento in cui l’hanno lasciato all’età di dodici anni; i tre si aggiornano sulla vita di quel figlio ormai estraneo.
L’uomo e la donna con cui Adam interagisce in età adulta sono figure che, riprendendo le parole che Jacques Derrida (1994 [1993]: 18) riserva alla definizione dello spettro, sfumano i confini tra “la cosa stessa e il suo simulacro” e tra “[r]ipetizione e prima volta, ma anche ripetizione e ultima volta”. Il loro collocarsi in questo spazio interstiziale dell’essere è dipendente proprio dal loro essere senza poter essere, dal fatto che Adam riconosca in loro, per aspetto fisico come per comportamento, i propri genitori: dei soggetti appartenenti ad un passato nel quale dovrebbero essere relegati dalla morte. Fuggendo da quel passato per intervenire nel presente, essi mettono in crisi i concetti stessi di prima e ultima volta, di originale e simulacro, di ciò che è e ciò che è stato, determinando il collasso della loro ontologia, che assume le forme di quella che, continuando ad utilizzare un lessico derridiano, è possibile definire hauntologia.1 I due, come si vedrà nel resto dell’articolo, sono spettri di un trauma di perdita mai risolto che infestano la vita di Adam al punto da incarnarsi in proiezioni disincarnate che continuano a determinare il presente dello scrittore.2 Come nella canzone di Moyet, Adam non ha mai dimenticato e, lasciandosi alle spalle le ore sparpagliate della sua vita, è corso alla ricerca dall’oggetto amato.
Elementi strutturali legati alla trama, quelli finora descritti, rintracciabili in forma piuttosto simile anche nell’ipotesto di Taichi Yamada Estranei (Ijin-tachi to no Natsu, 2005 [1987]),3 un romanzo giapponese che affonda le sue radici nei kaidan, tradizionali racconti di fantasmi nipponici. Il film di Haigh è, di fatto, quello che Linda Hutcheon (2011 [2006]: 204–205) definisce “adattamento transculturale”, un tipo di adattamento che spesso comporta “un cambiamento di lingua […] di luogo e periodo storico”, nonché “della valenza politica dell’opera”: traslando le vicende nel Regno Unito contemporaneo, Haigh rende evidenti le differenti concezioni della morte e della fantasmaticità che intercorrono tra la cultura europea e quella asiatica.4 La più grande discrepanza tra i due testi, soprattutto per lo scopo di questo lavoro, risiede tuttavia nel fatto che Adam, a differenza di Hideo, è omosessuale. Contestualmente al ritorno dei genitori, infatti, i protagonisti dei testi in analisi instaurano dei rapporti romantici: Adam con Harry e Hideo con Kei; in entrambi i casi persone che vivono nello stesso palazzo del protagonista e solo sul finale del testo rivelano la propria natura fantasmatica. L’omosessualità costituisce, tanto per Adam quanto per Harry, una rottura con l’ordine normativo della società che determina scomodamente e traumaticamente la loro relazionalità, situandoli nello spazio del queer. Ciò che si tenterà di fare nelle prossime pagine è osservare come, nell’adattamento di un testo originariamente connotato in senso strettamente eterosessuale, la queerness operi come un dispositivo di stratificazione semantica. In tale prospettiva, questa non si sovrappone semplicemente al testo originario, ma interviene a riattivare e riorientare elementi già presenti nell’ipotesto – nello specifico, la solitudine e la temporalità scompaginata – attribuendo loro nuovi significati e funzioni queer. La queerness stessa, nella sua residualità marginale, si configura come una condizione che si annoda a quella fantasmatica, mentre la spettralità viene utilizzata da Haigh come strumento per scandagliare la specifica condizione entro cui i soggetti queer vivono nella società eteronormata. Lo stretto intreccio di Eros e Thanatos ordito dal film si traduce, infine, in un’indagine sull’amore, sulla sua funzione e sulle forme che assume all’interno delle dinamiche di oppressione dei soggetti queer. Torcendo Alison Moyet, “is this [queer] love”?
2 I Don’t Want To Set The World On Fire: di coming out mancati e solitudini queer
Nel parlare del soggetto queer e nel tentativo di comprendere come questo si situi nella società eteronormata, si ragionerà a partire dai lavori di Sara Ahmed sulla politica culturale delle emozioni (2004, 2023 [2010]), in cui la società viene descritta come un’organizzazione basata su un dispositivo di reiterazione normativo – la famiglia eterosessuale – sulla scorta del quale questa è capace di imporre un modello di eterosessualità obbligatoria (Ahmed 2004: 144–145). Se seguire il modello porterà ad un’inconsapevole condizione di comodità i soggetti eteronormati, il soggetto queer sarà invece caratterizzato da una chiara scomodità di fondo (Ahmed 2004: 148). Tale scomodità appare come una parte essenziale del trauma di Adam, che in una conversazione con Harry afferma che “losing them, it just got tangled up with all the other stuff, about being gay, like the future doesn’t matter”: un unico grumo, dunque, in cui la morte dei genitori si fa tutt’uno con la scomodità queer nell’elaborazione di una negazione della futuribilità. Il nesso che intercorre tra questi due fili attraverso cui Adam tesse il disinteresse per il futuro può essere ripercorso fino ad individuare un nodo di disagio derivante dal suo non aver avuto tempo di affrontare il discorso della propria sessualità con i suoi genitori. Con la morte dei genitori di Adam, di fatto, muore la possibilità di un dodicenne di fare coming out, un momento delicato che costituisce, nella speranza di essere accettati, un passo importante nella direzione del non soffrire la scomodità che si prova nella società anche in ambito familiare.5 Se ciò che angustia la vita di Hideo è l’aver perso da bambino le sue figure genitoriali, nel caso di Adam questo trauma viene ulteriormente caricato dal non aver avuto tempo di dichiarare loro la propria sessualità.
A conferma della rilevanza del mancato coming out in relazione al suo trauma, durante le visite a Sanderstead Adam provvede a dichiarare la propria sessualità prima alla madre e poi al padre. Se la reazione di lei si colloca in una dimensione di perplessità dalle tinte negative,6 il modo in cui si sviluppa il discorso con il padre consente di analizzare un ulteriore aspetto della soggettività queer di Adam, quello della vergogna. Oltre a ricordare che i suoi compagni e le sue compagne di scuola usavano “call me a girl, ignore me, refuse to play with me, stick my head down the toilet, flick drawing pins in my face”, Adam chiede al padre perché non è mai entrato nella sua cameretta quando lo sentiva piangere per quegli stessi umilianti atti di bullismo. “I just didn’t want to think of you as the kind of boy that the other lads would pick on”, risponde il padre, procedendo a ricordare quei comportamenti stigmatizzanti che andavano a determinarsi in famiglia, come le imitazioni degli atteggiamenti effeminati del professore di inglese o il divieto di accavallare le gambe, arrivando a dichiarare la sua consapevolezza del fatto che “I knew that if I was at your school, I’d probably have picked on you too”. Sulla soggettività di Adam, dunque, non va solamente ad inscriversi quel nesso tra scomodità queer e vergogna derivante dall’essere queer utilizzato dalla società eteronormata come strumento per garantire il mantenimento dell’eterosessualità obbligatoria (Ahmed 2004: 106–107), ma il piangere da solo nella propria cameretta è il sintomo di una vergogna che, se trova un primo momento di sviluppo nello sguardo disciplinante della società, nella reiterazione di questo da parte degli occhi genitoriali vede una sua definitiva pregnanza.
Sulla scorta dell’idea di Ahmed (2004: 105–106) per cui il testimone necessario per provare vergogna, ovvero lo sguardo esterno capace di negativizzare una nostra azione, può essere introiettato dal soggetto in una “imagined view of the other”, è possibile intendere la morte dei genitori di Adam come un momento di cronicizzazione della vergogna. Lo sguardo stigmatizzante dei genitori viene interiorizzato da Adam con la loro morte e, divenendo una presenza immaginata ma persistentemente disciplinante, si associa al semplice trauma della morte genitoriale perdurando nella vita di adulto omosessuale di Adam. “I don’t want to set the world on fire / I just want to start a flame in your heart” ascoltiamo nella canzone su vinile che fa girare stavolta il padre di Adam. È un pezzo dei The Ink Spots del 1941, il preferito del nonno di Adam,7 e parla del desiderio di una persona di riuscire a entrare nel cuore di un’altra, di accendervi un fuoco circoscritto, incapace di incendiare il mondo intero. Il fuoco che Adam avrebbe voluto accendere nel cuore di suo padre attraverso un coming out capace di offrirgli l’opportunità di ritrarre quello sguardo di stigmatizzazione eterosessista e la cui assenza ha finito per dar fuoco ad Adam stesso.
Il grumo che ingombra il petto di Adam non si limita a prendere la forma del perdurare dell’ingiunzione umiliante a non accavallare le gambe impostagli dal padre da bambino,8 bensì si esprime dando vita ad un isolamento spettralizzante che qui sarà definito solitudine queer. Quel “hiding that requires the subject turn away from the other and towards itself” (Ahmed 2004: 103) tipico delle reazioni alla vergogna costituisce la dinamica fondamentale che determina nell’Adam adulto il persistere riconfigurato dell’azione del chiudersi in camera. La solitudine permea ogni aspetto del film, non solo nell’esiguo numero di personaggi9 ma anche nel palazzo stesso in cui abitano Adam ed Harry, un luogo che comprendiamo essere situato nel mezzo del viavai londinese ma ovattato nella sua singolarità, quasi completamente disabitato e profondamente silenzioso, che può essere letto come uno spazio in cui i fili della spettralità e della queerness vanno ad intrecciarsi. “London’s out there and we can’t hear a fucking thing”, dice Harry ad Adam all’inizio del film: il palazzo, il cui abbandono è funzionale alla costruzione di un’ambientazione che richiama la tradizionale casa abbandonata che Ezio Puglia (2018: 71) rintraccia come uno dei luoghi precipui del fantasma, si configura anche come uno spazio simbolico utile alla rappresentazione della condizione di isolamento cui i soggetti queer sono relegati all’interno della società eteronormata, divenendo così il vero e proprio teatro dello spettro queer. Soprattutto nella prima metà del film, sono inoltre frequenti inquadrature in cui l’unica presenza è quella di Adam nella sua quotidianità – Adam che scrive, Adam che guarda la TV, Adam che semplicemente vive la sua quotidianità nel suo solitario appartamento – mentre diversi dialoghi sono incentrati sulla solitudine.10
In quanto soggetto queer, Adam esperisce una specifica solitudine che può trovare una spiegazione passando nuovamente per Ahmed (2023 [2010]: 90, 132–133), che, ragionando sulla felicità, osserva come questa sia da una parte un obiettivo ritenuto necessario per la soddisfazione individuale, dall’altro un’emozione che la società propone come strettamente associata all’eterosessualità. Il soggetto queer, deviando dall’ingiunzione all’eterosessualità, viene destinato dalla società all’impossibilità della felicità, quindi alla tristezza, che viene a sua volta espulsa dalla dimensione comunitaria in quanto agente infetto di una comunità che vive nella promessa della felicità (Ahmed 2023 [2010]: 144–145); costretto ad assumere le vesti della tristezza, il soggetto queer viene radiato in una solitudine obbligatoria. La solitudine del protagonista è un elemento centrale anche nel romanzo giapponese, in cui è costantemente richiamata e definita dalla tensione tra due elementi. Il primo, in comune con la condizione di Adam, è la morte dei genitori (Yamada 2005 [1987]: 77), che si specifica anche come motore determinante del secondo,11 specifico di Hideo, ovvero il divorzio dalla moglie che lo porta a trasferirsi nel palazzo disabitato e a incontrare Kei (Yamada 2005 [1987]: 32). In entrambi i testi assistiamo ad un’articolazione melanconica dell’elaborazione della perdita, in cui, in termini freudiani, il soggetto incorpora in sé stesso l’oggetto perso determinando “un profondo e doloroso scoramento, […] un venir meno dell’interesse per il mondo esterno” (Freud 1976 [1917]: 103); ma se in Hideo il divorzio assume una funzione di ulteriore sfogo di quella solitudine germogliata col trauma di perdita essendone una conseguenza, in Adam la condizione di orfano e quella di giovane soggetto queer si puntellano vicendevolmente. In altre parole, la stratificazione degli elementi in un coagulo che rende impossibile il fluire della vita verso il futuro, abbandonandola alla mercé degli spettri del passato, è contestuale in Hideo e sepolta nell’ontologia del soggetto in Adam.
3 You Were Always on My Mind: alla posizione numero quattro, un precipizio retromaniaco nel 1987
La scomodità del soggetto queer è legata anche ad una dimensione diacronica che si esprime nella forma di quelle che Jack Halberstam (2005: 1) definisce temporalità queer, strutturazioni del tempo legate alle modalità di vita delle persone queer che non ricalcano quegli step che la società eteronormata prevede per il soggetto comodamente ordinario da essa prodotto. Come sottolinea Elizabeth Freeman (2010), difatti, la nostra esistenza è organizzata attorno ad aspettative temporali standardizzate che ad una temporalità sociale ritenuta corretta ne contrappongono una personale potenzialmente deviante: una tecnologia del potere atta a definire “teleologies of living” (Freeman 2010: 5) a cui Freeman dà il nome di chrononormativity, ovvero “the use of time to organize individual human bodies toward maximum productivity” (Freeman 2010: 3). Quanto il non seguire una temporalità che preveda passaggi considerati ovvi come il matrimonio e la riproduzione abbia come effetto una marginalizzazione dei soggetti queer viene reso esplicito da Adam, quando, rispondendo ad una domanda di Harry riguardo i suoi amici, dice che gran parte di questi si sono trasferiti fuori Londra per avere “gardens for their kids” e “to be near their grandparents so they can look after the kids”. Una prospettiva familista alla quale Adam sente di non appartenere: “it’s not for people like me”, dice ad Harry quando questi cerca di indagare una sua possibile volontà di andarsene da Londra.
A fornire un’elaborazione particolarmente intensa del nesso tra solitudine queer e temporalità queer è tuttavia Harry stesso, che in un dialogo successivo racconta ad Adam di come lo spotlight del palcoscenico familiare sia stato occupato dai suoi parenti aderenti alla temporalità eteronormata: mentre sua sorella con i suoi bimbi e suo fratello fresco di matrimonio fagocitano lo spazio e le attenzioni familiari, Harry sente come se “I have drifted to the edge. Or right up to the edge, almost. Over the edge”. Nell’immagine dell’avvicinarsi sempre più al margine degli affetti e dell’attenzione familiare e sociale fino a sporgersi, guardare il precipizio ed eventualmente finirci dentro, Harry non consente solamente di scrutare con fare prolettico la sua stessa morte.12 Egli fornisce anche una suggestiva rappresentazione di come la vita di un soggetto queer sia intrinsecamente legata ad uno strutturarsi secondo dinamiche relazionali escludenti fondate su una crescente scomodità del soggetto relata alla temporalità queer, sfociando in quella “insopportabilità” della vita che secondo Ahmed (2023 [2010]: 143–144) si verifica quando questa “va in pezzi sotto il troppo che viene sostenuto”. Se, come dice Freeman (2010: 3), il tempo imbriglia il corpo sociale ai fini di una produttività che il soggetto queer disattende e se questo, come si è visto nella sezione precedente, è obbligato attraverso la vergogna e la tristezza alla solitudine, allora è possibile leggere un meccanismo attraverso cui il soggetto queer viene costretto ad un’improduttività marginalizzante che lo rende inutile alla compagine sociale.13 Il soggetto queer, inteso come residuo sociale collocato ai margini della comunità, può essere a questo punto interpretato come una figura spettrale. Come nota Puglia (2018: 70–71), il fantasma è difatti una figura intensamente implicata con i residui: la persistenza dei resti del passato nel presente genera questo nesso concettuale che trova ampio spazio anche nella rappresentazione culturale del fantasma stesso, che tende a “fa[r] corpo con i residui”. In questa prospettiva, lo spettro può essere utilizzato come metafora per descrivere le esistenze queer, sottolineandone la natura liminale, invisibile, residuale.
Per Halberstam (2005: 2), un momento definitorio della temporalità queer è incarnato dagli anni più acuti della crisi dell’AIDS, in cui assistiamo ad uno schiacciamento sul presente della vita dei soggetti queer disincantati di fronte ad un futuro che percepiscono come inimmaginabile a fronte del trattamento governativo della crisi sanitaria. Adam, nato a metà anni Settanta, vive pienamente la crisi dell’AIDS ed è quindi un soggetto potenzialmente partecipe di questo spirito presentista di negazione della futuribilità. La mancanza di una prospettiva futura di Adam analizzata nella sezione precedente, tuttavia, non si definisce nel senso di un’antisocialità pulsionale, sfrenata e dissipativa à la Lee Edelman e Leo Bersani;14 tutt’altro: quella di Adam è una paralisi presentista che non gli consente di pensare al futuro mentre non riesce a vivere il presente. Gli spettri dell’AIDS si manifestano, oltre che nella preoccupazione della mamma di fronte al coming out del figlio (“and what about this awful, ghastly disease?”), nel rapporto con Harry: in un momento intimo, Adam dice all’amante più giovane che per molto tempo “I thought that if I fucked anybody, I’d die” e durante il loro primo bacio giustifica il suo impaccio dicendo che “I haven’t done this in a while”. Anche in questo caso è dunque possibile osservare un profondo intreccio del trauma di perdita e di un trauma legato all’omosessualità: impigliato nel 1987 a causa dei genitori, Adam continua ad essere perseguitato dagli spettri di una malattia che negli anni Ottanta marcava funestamente la sua sessualità.
La rappresentazione delle angosce spettrali di Adam, tuttavia, non si limita ad una dinamica di schiacciamento sul presente. A causa delle questioni legate all’omosessualità rimaste impigliate senza soluzione alla morte dei genitori, il presentismo si trasfigura in un risospingimento nel passato: l’immobilità paralizzante diviene una retromobilità in cui Adam sembra scivolare direttamente nel 1987.15 Un ruolo atto a facilitare questo slittamento è ricoperto dall’uso della musica: analizzando la colonna sonora del film, oltre ai pezzi puramente ambientali composti da Emilie Levienaise-Farrouch (2023) appositamente per il progetto, si noterà la presenza prevalente di canzoni di successo degli anni 1984–87. Preso nota di questo elemento, risulta utile considerare un noto testo di Simon Reynolds,16 in cui, trovandosi ad analizzare la cultura pop del primo decennio del nuovo millennio, il critico individua una tendenza, cui dà il nome di retromania, a praticare “usi e abusi contemporanei del passato pop” (2017 [2011]: 11). Quest’incapacità di guardare al futuro rifugiandosi nel passato recente viene marcata da Reynolds in senso eminentemente negativo,17 legandola ad una nostalgia “incurabile” per il passato per la quale “l’unico rimedio sarebbe viaggiare nel tempo” (Reynolds 2017 [2011]: 28). Risuonando prepotentemente con il rapporto che Adam intesse col passato, la musica, quasi esclusivamente intradiegetica, crea per tutto il film la sensazione di star guardando un prodotto ambientato in un periodo precedente. Queste canzoni pop, che si innestano nel testo filmico determinando un’intertestualità che in maniera squisitamente postmoderna diviene una “built-in feature of the aesthetic effect and […] the operator of a new connotation of pastness and pseudohistorical depth” (Jameson 1991: 20), ci comunicano nostalgicamente che per Adam il passato non è mai davvero passato. Scegliere proprio l’udito come senso da situare costantemente nel passato non è una decisione casuale, in quanto “il legame della musica pop con il qui e ora spiega la sua ineguagliata capacità di incarnare l’atmosfera di un dato momento storico” (Reynolds 2017 [2011]: 18): attraverso la musica si aprono le porte del 1987.
La costruzione di questo spazio, che è possibile a questo punto definire retromaniaco, può essere ulteriormente circoscritta, in primo luogo, ai momenti in cui Adam visita Sanderstead. Significativamente, le transizioni tra le scene londinesi e quelle ambientate in periferia sono rappresentate attraverso brevi riprese dei viaggi in treno che Adam compie per andare dai genitori: sulle vetrate del mezzo prendono vita ombre e riflessi annoverabili tra quegli “stilemi con funzione spettralizzante […] che smaterializzano l’immagine, rendendola più o meno spettrale” di cui parla Massimo Fusillo (2018: 170) e che contribuiscono alla costruzione dell’impressione di star accedendo ad una dimensione fantasmatica. La casa dei genitori viene presentata come una sorta di capsula del tempo in cui tutto sembra bloccato agli anni Ottanta: non solo i genitori stessi (che difatti sono più giovani dell’Adam adulto), il loro vestiario, l’utilizzare il giradischi del padre e i libri che cita la madre,18 ma anche gli oggetti hanno l’aspetto di essere rimasti bloccati in quel decennio. L’appartenenza al passato degli oggetti presentati nel film assume una rilevanza ulteriore se questi vengono comparati a quelli presenti nel testo di partenza. Nel romanzo, difatti, troviamo nei riguardi della caratterizzazione della casa d’infanzia un continuo insistere sulla natura incongruamente contemporanea degli oggetti di cui sono circondati quei genitori così giovani: il frigorifero, il thermos, il calendario del nuovo centro commerciale, la macchinetta per il gelato, il televisore e il ventilatore sono tutti oggetti sui quali si insiste nel tentativo di specificare l’assoluta contemporaneità dell’abitazione (Yamada 2005 [1987]: 55, 81). Se nell’ipotesto, quindi, sono senza dubbio i genitori le figure temporalmente fuori posto, nell’adattamento di Haigh la questione assume confini considerevolmente più ambigui, in cui la mobilità temporale di Adam si fa carico di una destrutturazione più radicale della temporalità stessa saldata nella queerness.
Un ulteriore, fondamentale, momento di scompaginazione temporale si situa alla base di un’importante sezione nel centro del film, totalmente assente nell’ipotesto, in cui il tempo canonicamente inteso collassa. Assumendo della ketamina durante una festa,19 Adam ed Harry entrano in una dimensione che mescola l’allucinazione col sogno attraverso la quale Adam precipita direttamente nel suo grumo traumatico. Passando per un supercut di un’immaginata relazione con Harry, Adam viene catapultato nella casa dei suoi genitori, dove sente una voce proveniente dalla televisione annunciare “at number four, The Pet Shop Boys and You Were Always on My Mind”: è il periodo di Natale del 1987.20 L’utilizzo di una sostanza, dunque, consente l’accesso ad un’impossibile dimensione di dissesto temporale, assistendo ad una vera e propria queerizzazione del tempo attraverso la quale Haigh rappresenta la condizione spettralmente queer del protagonista. Aperta la porta da cui proviene il suono della televisione, Adam trova i genitori impegnati a decorare un albero di Natale e, dopo essersi unito a loro, ascolta la mamma iniziare a cantare con la televisione. “Maybe I didn’t hold you / All those lonely, lonely times / […] / If I made you feel second best / I’m so sorry I was blind” mette in chiaro la donna guardando suo figlio e “Tell me that your sweet love hasn’t died” aggiunge il padre, unendosi al piccolo coro.
Il dolce amore di Adam nei confronti dei genitori non è evidentemente morto e nella scena successiva lo troviamo nel letto della sua cameretta a pregare la mamma di non uscire di casa, in un implicito tentativo di sventare l’incidente mortale. Le rassicurazioni materne non bastano a far dormire sonni tranquilli ad Adam, che, emulando un comportamento stridente con la sua età, si unisce ai genitori nel grande letto doppio. Qui intrattiene una toccante conversazione con sua madre, ripresa con un’inquadratura a macchina fissa con zoom progressivo che esclude la figura paterna, sulla sua vita successiva all’incidente, al termine della quale, in lacrime, si volta dall’altra parte del letto verso la mano di suo padre, allungata con fare consolante. A far capo a quella mano, tuttavia, non trova il genitore, bensì Harry: nella confusione rappresentata dal collasso temporale entro cui il trauma della queerness si esprime nel film, si specifica un’ambiguità tra le figure maschili del padre e dell’amante. Come il rifugiarsi in una dimensione infantile fatta di incertezze e turbolenze contrastanti con la stabilità che viene richiesta dalla società, anche l’indeterminatezza dell’oggetto amato può essere inquadrata in una negazione dei valori borghesi che secondo Halberstam (2005: 14–15) definiscono la temporalità normata incardinata su logiche riproduttive.
Gli spettri di una perduta condizione filiale ricoprono, dunque, una funzione strutturante della relazionalità romantica di Adam e questo tipo di ambiguità, che risulta evidente sin dal primo incontro col padre, che assume le forme di quello che sembrerebbe un hook up,21 consente di osservare come Harry costituisca il soggetto attraverso il quale Adam tenta di superare i propri fantasmi, tanto quelli legati alla sessualità e alla relazionalità quanto quelli più strettamente stabiliti dalla morte dei genitori, esprimendosi nella ricerca di una figura paterna nell’amante. A conferma di questa sovrapposizione traumatica, nella sezione seguente dell’allucinazione, ambientata in una stazione della metro, Adam si trova ad inseguire Harry, la cui presenza si tramuta dinamicamente in assenza: giochi di riflessi e trasparenze sui vetri dei treni alternano la vista di un Harry inafferrabile a visioni distorte dell’Adam bambino che chiama la sua mamma urlando. La paura di perdere l’oggetto amato, che definisce un desiderio spettrale “intrinsecamente elusivo e inappagante” (Fusillo 2018: 170), si confonde con il trauma di perdita subito da bambino: il gioco degli spettri dal 1987 funziona a pieno regime.
4 The Power of Love: “Love is the light / Scaring darkness away [?]”
Terminata la fase allucinatoria, il film si appresta alla conclusione. Adam si risveglia nell’abbraccio confortante di Harry e, a seguito di un tentativo infruttuoso di presentarlo ai propri genitori, questi decidono di congedarsi definitivamente dal figlio: facendo uso di un’agentività sepolta nell’inconscio di Adam, i due prendono coscienza del fatto che “we’re not allowing him to get on with his life”. Di ritorno dall’addio con i genitori, Adam entra nell’appartamento di Harry e vi trova il suo cadavere: nel breve scorcio che il film offre sul corpo del defunto, è possibile notare come i suoi abiti coincidano con quelli da lui indossati all’inizio della pellicola, durante il primo incontro tra i due protagonisti. In quell’occasione, Harry, ubriaco e con una bottiglia di un alcolico giapponese in mano, si presenta alla porta di Adam avanzando la proposta – destinata a essere rifiutata – di trascorrere del tempo insieme. La bottiglia vuota che Adam raccoglie accanto al cadavere di Harry suggerisce che il personaggio sia deceduto all’inizio degli eventi narrati, proprio in riferimento a quel rifiuto, e che quello che abbiamo visto successivamente relazionarsi con Adam fosse solamente un altro fantasma proiettato dal protagonista nel reale.22 Una discrepanza tra fabula e intreccio, dunque, mediata da una focalizzazione limitata alla visione alterata di Adam, volta a definire una costruzione temporale non lineare e a determinare una narrazione spettrale, in cui i fantasmi sono anche diegetici.
A conferma della duplice entità entro cui il personaggio di Harry si esprime, uscendo dalla stanza del cadavere Adam si trova davanti una versione vivente – ma, ormai lo sappiamo, fantasmatica – dell’amato, con la quale intrattiene una conversazione in cui gli spettri di entrambi vengono tematizzati: la solitudine di Harry in quanto soggetto queer si esprime nel suo dire che “I was so scared that night. I just needed not to be alone” e il palinsesto di traumi di Adam finora analizzati viene reso esplicito quando egli dice che “I was too scared to let you in”. La solitudine queer di entrambi, ovvero la paura di continuare a vagare nella solitudine di uno e quella di lasciar entrare qualcuno a spezzare l’assuefacente isolamento dell’altro, si traduce in un’atomizzazione mortifera dei soggetti, mentre la marginalità che Harry aveva espresso con la metafora del palcoscenico assume una tragica concretezza nel suo chiedersi com’è possibile che nessuno, né la sua mamma né il suo papà, abbiano trovato il suo corpo. Se la morte di Harry è una derivazione diretta della sua solitudine queer attraversata dal solco del rifiuto di Adam, il suicidio di Kei nell’ipotesto segue simili strutture, discendenti però da motivazioni differenti. La ferita omosessuale di cui soffre Harry è infatti la mutazione queer di una ferita letterale che la donna del romanzo di Yamada presenta sul petto e che la porta a quell’isolamento (Yamada 2005 [1987]: 67) sul quale poggia il rifiuto di Hideo che la spinge ad uccidersi. Gli spettri di Harry, evocati durante il primo incontro con Adam attraverso la frase “there’s vampires at my door” e poi celati per tutto il film dietro quelli fulgenti del protagonista reificati nei fantasmi dei genitori, emergono in maniera dirompente sul finale del film, rivelandosi come gli spettri che infestano la vita di tutte le persone queer: gli spettri di tutti noi estranei.
Adam e il fantasma di Harry si dirigono a questo punto a letto: alla presenza tanto del consistente cadavere di Harry quanto del suo inconsistente fantasma, Adam decide di abbandonarsi alla spettralità, solidificando definitivamente la fattura fantasmatica del suo essere in relazione alla condizione spettrale propria dell’esperienza queer. Il reale, la cui riconquista pareva confermata da quella solidità sensorialmente pregnante del cadavere di Harry che suggeriva la conclusione dei giochi allucinatori, si sgretola nuovamente e definitivamente proprio di fronte alla presa di coscienza della morte dell’amato. In questa maniera la vita di Adam assume da ultimo quella marca ahmediana di insopportabilità già discussa nella terza sezione, consentendogli di accedere ad un altrove metafisico e hauntologico visivamente contrassegnato da una caldissima luce arancione. “It’s so quiet. Never could stand how quiet this place was” dice Harry ad Adam, chiedendogli di far partire della musica, e il silenzio viene squarciato dagli accordi di The Power of Love dei Frankie Goes To Hollywood. Recitandone l’introduzione – “I’ll protect you from the hooded claw / Keep the vampires from your door” – Adam promette ad Harry di proteggerlo dai vampiri fuori dalla sua porta, quegli spettri che lo perseguitano, mentre la marginalità rappresentata dal silenzio del palazzo viene sovrastata da un inno volto a celebrare un amore purificante, caratterizzato come “undying, death–defying” e capace di “scaring darkness away”. Adam ed Harry diventano, attraverso uno zoom out, un punto di pura luce progressivamente affiancato da altre analoghe entità, in un cielo stellato dietro il quale è possibile immaginare una molteplicità di abbracci queer. In questa collocazione finale della queerness non nel reale ma nella metafisica hauntologica, riecheggia l’idea di José Esteban Muñoz (2009: 1) per cui le costrizioni normative del presente hanno come conseguenza che la “[q]ueerness is not yet here. Queerness is an ideality”. Se per Muñoz, però, l’idealità della queerness costitusice un potenziale utopico che consente di “see and feel beyond the quagmire of the present” (2009: 1), nel film questa diventa il segno della sua stessa irraggiungibilità. L’estaticità della temporalità queer muñoziana che sprona a “ask for, desire, and imagine another time and place” (2009: 26) viene sostituita da Haigh dall’affogare in quel pantano del presente.
Anche l’inno di questo irreale amore queer ha, a ben vedere, un sapore agrodolce, costituendosi come uno dei più intensi vettori retromaniaci della pellicola: oltre a guardare ossessivamente, in più punti del film, una registrazione dell’episodio di Natale del 1984 di Top of the Pops contenente una performance della canzone,23 durante una delle sue visite a Sanderstead Adam entra nella sua vecchia cameretta e, dopo aver visto sulle pareti un poster della band, trova tra gli oggetti del sé bambino il vinile di Welcome to the Pleasuredome, l’album che contiene The Power of Love.24 L’incapacità di sfuggire all’oppressione invischiata nella memoria si traduce per Adam nel lasciarsi coccolare dall’amore spettralizzante di un fantasma, quello di Harry, che riesce in maniera non agentiva ad attuare quel “ti trascinerò giù con me” che Yamada (2005 [1987]: 200) fa dire allo spettro di Kei, voglioso di vendicarsi del rifiuto iniziale di Hideo. In questo falso lieto fine, la canzone d’amore e l’abbraccio dei due personaggi indicano l’eterna solitudine spettrale della queerness: Adam ed Harry diventano luce, ma una luce che brucia usando come combustibile l’amore logorante di due soggetti queer che soccombono di fronte all’insopportabilità della propria esistenza, precipitando nel baratro al di là del margine.
Bibliografia
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In vista di quanto si sta per scrivere è significativo notare come, elaborando sul concetto derridiano di hauntologia, Mark Fisher (2019 [2013]: cons. in digitale) definisca l’haunting come un qualcosa che “[r]iguarda il rifiuto di rinunciare allo spettro, oppure – e a volte la cosa più assumere lo stesso significato – il rifiuto dello spettro di rinunciare a noi”.↩︎
Il loro essere proiezioni del trauma di Adam emerge anche dall’appiattimento sulla funzione genitoriale che li caratterizza: essi appaiono esclusivamente in relazione ad Adam, esclusivamente nelle vesti di genitori e non hanno nemmeno un nome, sono semplicemente mamma e papà.↩︎
Un primo adattamento cinematografico, molto aderente al romanzo e girato dal regista giapponese Nobuhiko Obayashi, esce l’anno successivo col titolo di The Discarnates (Ijin-tachi to no Natsu, 1988).↩︎
La questione del rapporto tra i testi analizzati e la cultura tradizionale giapponese, così come quella delle modalità con cui il testo occidentale accoglie e rielabora gli elementi della cultura nipponica, sono più ampie di quanto sia possibile, per spazio e scopo, riportare in questo articolo. Per una panoramica sul fantastico nella letteratura giapponese entro cui rintracciare le origini e il contesto del romanzo si rimanda a Soumaré (2023); sul ruolo culturale del fantasma in Giappone si segnala invece Iwasaka e Toelken (1994).↩︎
Non si intende inquadrare il coming out come un passo imprescindibile per il benessere del soggetto queer, bensì riconoscerne la natura di momento definitorio dell’esperienza omosessuale media di cui Adam è privato.↩︎
L’atteggiamento della madre è spiegabile come manifestazione delle ansie di Adam di fronte ad una reazione mai realmente vissuta ma immaginata con la consapevolezza del peso delle aspettative genitoriali. Il padre, a cui la madre racconta della sessualità di Adam prima che possa farlo lui in prima persona, quando si trova ad affrontare il discorso col figlio gli dice difatti che “[mom] just needs to rearrange some things in her head, and all the stories that she’s built up”: la perplessità materna scompare, insieme alla negatività, nelle successive occorrenze del personaggio.↩︎
I Don’t Want to Set the World on Fire è una delle poche canzoni non prelevate dagli anni Ottanta, utilizzata in questo caso per sottolineare la genealogia di quei rapporti padre–figlio posti al centro della scena.↩︎
“You told me not to cross my legs, like a woman, over and over, and over again. […] I still think about it every time I cross my legs”.↩︎
Adam interagisce solamente con i genitori ed Harry; altrove, in treno o durante la festa che sarà più avanti analizzata, le altre persone restano folla sullo sfondo.↩︎
Di due di questi, intrattenuti tra Adam ed Harry, si parlerà nella prossima sezione.↩︎
È Hideo a pensare che “[q]uelli che hanno trascorso un’infanzia sana imparano che esibire un giusto grado di dipendenza è un modo di conquistarsi l’amore degli altri. Ma un’adolescenza sfortunata mi aveva sottratto questo segreto, e quella mancanza aveva gradualmente raffreddato il rapporto con mia moglie” (Yamada 2005 [1987]: 77).↩︎
Essendo la morte di Harry, come si metterà in evidenza nell’ultima sezione, accaduta all’inizio degli eventi, si potrebbe inquadrare la questione in una tensione tra prolessi e analessi derivante dalla scompaginazione queer della temporalità.↩︎
È forte in questi passaggi l’eco della rivalutazione queer del fallimento compiuta da Halberstam (2022 [2011]).↩︎
Si rimanda ai noti testi di Bersani (1987) ed Edelman (2004) in cui viene proposta una visione della sessualità non finalizzata alla riproduzione normativa ma da spendere in maniera antisociale nel presente.↩︎
Può essere interessante notare come i cortocircuiti temporali interessino anche il rapporto stesso tra testo adattato e adattamento, in quanto la contemporaneità del romanzo costituisce il passato del film. Entrambi i testi collocano il presente all’incirca nella contemporaneità della pubblicazione – il romanzo (1987) nella Tokyo di fine anni Ottanta del Novecento e il film (2023) nella Londra di inizio anni Venti del Duemila – ma la morte dei genitori londinesi avviene proprio nel 1987. Se “spostare in avanti nel tempo l’ambientazione della storia per tentare di assicurare al proprio pubblico qualche risonanza con la contemporaneità” (Hutcheon 2011 [2006]: 200) è un’operazione canonica degli adattamenti, in questo caso l’intento è semmai quello di giocare col testo adattato per dare al pubblico qualche risonanza col passato.↩︎
I ragionamenti di Reynolds, come le varie argomentazioni che propongo in questa sede, sono ampiamente radicati nelle elaborazioni sul postmodernismo di Fredric Jameson. Inquadrando il postmodernismo come un assetto culturale che si è lasciato alle spalle “the high–modernist ideology of style – […] unique and unmistakable” (1991: 17), Jameson ne descrive la produzione culturale come strutturata intorno a riutilizzi nostalgici del passato che definiscono una “culture of the simulacrum” (18).↩︎
Reynolds tende ad utilizzare, in riferimento alla retromania, termini afferenti al campo semantico della malattia come “malessere” (2017 [2011]:13) o “sindrome” (19).↩︎
Durante la prima visita di Adam, sua madre cita alcuni libri di Stephen King appartenenti agli anni Settanta o Ottanta: Carrie (1974), Cujo (1981) e Different Seasons (1982).↩︎
Halberstam (2005: 5) individua nelle droghe dei “motor[s] of an alternative history” capaci di rivelare “the artificiality of our privileged constructions of time”.↩︎
Questa cover della famosa canzone di Elvis si trova alla quarta posizione della classifica del Regno Unito durante la settimana che va dal 06-12-1987 al 12-12-1987 (Official Charts: https://www.officialcharts.com/songs/pet-shop-boys-always-on-my-mind/).↩︎
Dopo essersi adocchiati in una radura che può far pensare al cruising, i due si incontrano di sera, come si fossero dati appuntamento, al di fuori di un piccolo esercizio commerciale di Sanderstead: quelli che non sappiamo ancora essere padre e figlio si rapportano l’uno all’altro come soggetti che si conoscono molto superficialmente e che si vedono per la prima volta. Occorre anche sottolineare che sia il padre che Harry sono più giovani di Adam, determinando un ulteriore cortocircuito tra le età dei personaggi e i loro ambigui ruoli.↩︎
Non viene esplicitata la causa della morte di Harry, questa è tuttavia probabilmente legata all’alcool e alla busta di quella che immaginiamo essere ketamina che Adam trova appena entrato nell’appartamento.↩︎
Top of the Pops era un programma musicale britannico di grande successo negli anni Ottanta e Novanta. La specifica performance della band durante l’episodio di Natale del 1984 (Top of the Pops Archive: https://totparchive.co.uk/episode.php?id=1084) è reperibile su YouTube (Frankie Goes To Hollywood 1984: https://www.youtube.com/watch?v=TCddKjPfeGU).↩︎
La canzone è anche intimamente legata al periodo natalizio, che, come si è visto, è il periodo della morte dei genitori di Adam. Per una ricostruzione dei rapporti della canzone col Natale si rimanda all’articolo di Mossman (2022).↩︎