Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.27 (2025), 187–200
ISSN 2280-9481

“Movies $3 Million Italian Doll”: Sophia Loren a Hollywood (1957-1960)

Alberto ScandolaUniversity of Verona (Italy)

Alberto Scandola is professor of Cinema and Audiovisual Communication at the University of Verona. His work mainly focuses on modern and contemporary cinema and his areas of expertise include acting and star studies. Among his books: The Image and the Void. The Last Godard (2014), Greed (2017), and The Body and the Gaze. The Actor in Modern Cinema (2020).

Ricevuto: 2025-02-14 – Versione revisionata: 2025-03-22 – Accettato: 2025-04-08 – Pubblicato: 2025-07-30

“Movies $3 Million Italian Doll”: Sophia Loren at Hollywood (1957–1960)

Abstract

This article examines the less known (and less studied) section of Sophia Loren’s filmography: her American period. It is an experience that definitively transforms the national maggiorata into one of the most desired and well-paid international stars. Arriving in Los Angeles in 1957, Sophia Loren seduces Hollywood with her Latin charm, naturalness, spontaneous and crafted vitality, but especially thanks to the ‘controlled’ exaggeration of her curves, perfectly in line with the clichés of Italian beauty. However, the roles assigned to her are not only functional to highlight her physical appearance: most of the characters she portrays are autonomous, independent, determined, and courageous women, capable of rebelling against the will of their male partners.

Keyword: Sophia Loren; Unruliness; Sex Symbol; Dramatic Acting; Italianness.

“La peccatrice nazionale”, “la scugnizza di Pozzuoli”, “Italy’s National Idol”. Queste sono solo alcune delle definizioni assegnate a Sophia Loren, una delle dive più longeve, produttive e biografate del secondo dopoguerra. La favola della ragazzina di Pozzuoli che, plasmata dal pigmalione Carlo Ponti (Cfr. Tognolotti 2020), scala le vette della celebrità come una novella Galatea, è infatti nota a tutti, mentre poco o nulla – soprattutto in Italia – si è scritto sulla sua attorialità.1 Sbocciata, dopo una lunga gavetta, tra i vicoli del neorealismo rosa, Sophia Loren ha alternato senza soluzione di continuità l’immaginario urbano (Peccato che sia una canaglia, A. Blasetti, 1954) con quello rurale (La bella mugnaia, M. Camerini, 1955), le corde della commedia (Ieri, oggi, domani, V. De Sica, 1963) con quelle del melodramma (La donna del fiume, M. Soldati, 1954) e la fiaba (Olympia, A Breath of Scandal, M. Curtiz, 1960) con la Storia (La ciociara, V. De Sica, 1960).

Questo articolo prende in esame, con una dolorosa selezione,2 la sezione meno conosciuta (e meno studiata) della filmografia dell’attrice, ovvero il periodo americano, un’esperienza che trasforma definitivamente la maggiorata nazionale (Cfr. Vitella 2024) in una delle più desiderate e remunerate star internazionali. Ci concentreremo quindi sulla produzione che va dal 1957, anno in cui Loren si trasferisce negli States, al 1960, quando l’attrice torna in Italia per girare La ciociara (V. De Sica, 1960). Questi, nello specifico, i film di cui ci occuperemo: Orgoglio e passione (The pride and the passion, S. Kramer, 1957), Il ragazzo sul delfino (Boy on a Dolphin, J. Negulesco, 1957), Timbuctù (Legend of the Lost, H. Hathaway, 1957), Desiderio sotto gli olmi (Desire under the Elms, D. Mann 1958), Un marito per Cinzia (Houseboat, M. Shavelson, 1958), La chiave (The Key, C. Reed, 1958), Orchidea nera (The Black Orchid, M. Ritt, 1958), Olympia, Il diavolo in calzoncini rosa (Heller in Pink Tights, G. Cukor, 1960), La baia di Napoli (It Started in Naples, M. Shavelson, 1960) e La miliardaria (The millionairess, A. Asquith, 1960).

Tutto comincia con una copertina, datata 22 agosto 1955. Il settimanale Life omaggia la pescivendola di Pane, amore e… (D. Risi, 1955) – film distribuito negli USA due anni dopo con il titolo Scandal in Sorrento – con un mezzo busto frontale accompagnato da una didascalia che non lascia alcun dubbio sulle potenzialità divistiche di questa giovane italiana: “Europe n.1 cover girl” (fig. 1).

Fig. 1. Sophia Loren sulla copertina di Life 22 agosto 1955.

La foto, scattata durante la lavorazione del film, è interessante perché evidenzia uno degli atout che caratterizzeranno il brand della star, ovvero il contrasto tra la carnalità delle forme e una purezza interiore che, in questo caso, traspare dallo sguardo sorridente, quasi innocente, rivolto fuori campo. Il sex symbol, dunque, non cerca la complicità dell’obiettivo, lasciando l’osservatore libero di contemplare indisturbato i dettagli di un seno messo quasi a nudo dalla stoffa bagnata della camicetta. Nel breve articolo interno, limitato a una pagina, sono riprodotte le copie di dodici copertine dedicate all’attrice da altrettante riviste europee, al fine di ribadire come questa Italian bambina fosse, in quel momento, la più importante cover–girl d’Europa quando la copertina di una rivista era uno dei principali (se non il principale) luogo di circolazione dell’immagine per una movie star.

Nella primavera del 1957, all’età di 23 anni, la “rivale de Gina” – come la battezzò Paris Match su una copertina del 1955 – sbarca all’aeroporto di Los Angeles accompagnata non dal marito, trattenuto in Italia da impegni improrogabili, ma dalla sorella Maria, dopo aver, così almeno narra la leggenda, singhiozzato sulla spalla della madre sino a pochi minuti prima del decollo. Il guardaroba, firmato dal fido Emilio Schubert, è di tutto rispetto, sia in qualità che in quantità: quarantadue abiti, cinquanta paia di scarpe, tre pellicce e un numero indecifrato di foulard, guanti, vestaglie, sottovesti e camicie da notte eleganti come abiti da sera. Aspettano la diva un ricco contratto con la Paramount, una folta schiera di giornalisti, un centinaio di fotografi e, soprattutto, tanta gente comune, tra cui un bambino italo–americano di quattro anni che – a quanto sostengono alcuni biografi – riceve sulla guancia il primo bacio di una star tanto “dislocata” (Cfr. Jandelli 2013) quanto paziente, ironica e disponibile, soprattutto con la stampa. Nel mondo plastificato di quella Hollywood – ricca di stelle ma povera di spettatori – la signora Ponti colpisce per il suo fascino latino, per la sua naturalezza, per la sua al contempo spontanea e costruita vitalità, ma soprattutto – come ha annotato Bertrand Meyer–Stabley – per la dismisura ‘controllata’ delle sue forme, perfettamente consone ai cliché del bel Paese:

C’est dans ce trop, dans ce démesuré, dans cet exceptionnel qu’elle s’affirme. 96cm de poitrine c’est beaucoup, mais elle les porte bien, crânement, et sans en perdre un pouce. […] On la sent de marbre, sous les hardes mouillés de La fille du fleuve ou les maillots clinquants d’Ombres sous la mer. Ce marbre doré et chaud du soleil, vivant, des statues d’Italie qui se promènent sans façon, nues et sereines, sur les places publiques (Meyer-Stabley 2003: 98–99).

Eppure, nella seconda apparizione su Life, datata 6 maggio 1957, l’immagine di Sophia non ha (più) quasi nulla di latino, né di mediterraneo (Fig. 2).

Fig. 2. Sophia Loren sulla copertina di Life 6 maggio 1957.

Capelli corti e orecchini di perla, Sophia – presentata con l’appellativo di “Movies $3 Million Italian Doll” – indossa un abito da giorno bianco come le scarpe, assolutamente casto… se non fosse per quello strategico colpo di vento che provoca il sollevamento della gonna e la conseguente messa a nudo delle bellissime gambe. Vengono in mente, naturalmente, le sopracitate gambe di Marilyn scoperte due anni prima da un altrettanto strategico colpo d’aria sul set di Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch, B. Wilder, 1955). Appena sbarcata nel Nuovo Mondo, dunque, la nostra maggiorata deve già confrontarsi con i miti autoctoni, quanto meno sul piano del sex appeal. L’obiettivo del fotografo la coglie in equilibrio su due pietre nell’atto di guadare uno specchio d’acqua, probabile metafora di quell’Oceano che separa l’Europa dagli USA e la ragazza di Pozzuoli dalla superstar internazionale. La didascalia che campeggia in basso a sinistra – “Sophia steps into Hollywood” – avvalora questa interpretazione e le otto pagine del dossier interno – intitolato “Sophia at Peak of her Busy Career” – non hanno altro scopo che quello di rinnovare il cliché della stella venuta dal nulla. Come spesso accade in questi casi, però, il testo è meno interessante delle illustrazioni, volte a documentare non solo la vita privata di Sophia – fatta di telefonate, pedicure e calore famigliare –, ma anche quella pubblica. L’italian bambina è ritratta nell’atto di guardare con apprensione fuori dal finestrino del suo aereo, camminare a braccetto con Cecil De Mille, chinarsi per baciare il piccolo fan all’aeroporto e ricevere un baciamano da Peter Lorre. Ma, per convincere i suoi lettori che Sophia è anche una performer, Life decide di pubblicare una divertente “gallery of exaggerated italian gestures”, ovvero delle pose istantanee di Sophia impegnata a mimare, servendosi unicamente delle mani, del busto e dei muscoli del volto, otto diversi stati d’animo, ovvero love, humility, suspicion, reproach, anger, jalousy e delight, definiti dall’autore dell’articolo “una parte della gamma di emozioni che il cinema europeo ha richiesto all’attrice”. E l’attrice? Che cosa chiede Sophia a Hollywood? Stando a una dichiarazione riportata da Italo Moscati, l’esilio dorato sull’Olimpo dello star system doveva garantire non solo fama, successo e ricchezza, ma anche intimità, tranquillità e serenità a una coppia da troppi anni sotto il fuoco incrociato della stampa di costume:

In tre anni che restammo in America saremo andati a tre cocktail in tutto. Io lavoravo tutto il giorno negli studi e passavo le serate con Carlo. Guardavamo la televisione e andavamo a letto. Ero andata a Hollywood, oltre che per la mia carriera di attrice, per uscire da una situazione insostenibile. A Roma Carlo stava con la moglie e io da sola. In America sapevo che per la prima volta lo avrei avuto tutto per me (Loren in Moscati 1994: 155–156)

I doveri di una star hollywoodiana, però, non si limitano certo al set e alle apparizioni pubbliche. L’americanizzazione di Sophia, ha osservato Raffaella Giancristofaro, consiste infatti in “una catena di montaggio che prevede lezioni di danza, diete, colorazioni di capelli, parrucche, e una graduale ‘garbo–izzazione’ con l’assottigliamento delle sopracciglia, sempre più ad arco e alte, come la fronte” (Giancristofaro 2024: 40). Una domanda, a questo punto, nasce spontanea: cosa cerca l’industria hollywoodiana da questa cover girl? Cosa intende fare di questo corpo dislocato? Alcune risposte, seppur parziali, le possiamo trovare nelle cosiddette “runaway productions” (Cfr. Small 2009), ovvero nei tre lungometraggi prodotti con capitali USA ma girati in Europa con un comparto tecnico europeo: Orgoglio e passione, Il ragazzo sul delfino e Timbuctù. Si tratta delle prime performance offerte dalla signora Ponti, convolata a nozze in Messico proprio nel settembre di questo fatidico 1957, in lingua inglese. Analizziamole in dettaglio.

1 Unruliness

Nel 1956 Stanley Kramer sta preparando Orgoglio e passione, un melodramma ambientato durante le guerre napoleoniche in Spagna. La produzione pensa a Gina Lollobrigida per la parte della protagonista femminile, ma la Lollo è impegnata con un altro film. A questo punto interviene Carlo Ponti. Kramer viene invitato a Roma per visionare una copia di La donna del fiume e, colpito dalla fotogenia dell’attrice, le offre 200 mila dollari (l’equivalente di centoventicinque milioni di lire) per entrare nel cast del suo film, a patto che ella perfezioni il suo inglese. Dopo un anno di intenso studio con la coach irlandese Sarah Spain, Sophia arriva sul set spagnolo perfettamente in grado di affrontare un personaggio – quello di Juana, la coraggiosa compagna del guerrigliero Michel (Frank Sinatra) – invitato a comunicare non solo, come forse frettolosamente ha affermato Pauline Small, con il linguaggio del corpo, ma anche con le parole:

Her performance in the early comedies with De Sica and Mastroianni is finely judged and characterized by verbal and body language at once extravagant and subtly played out. In the runaway productions all such nuances are discarded. The nature of her performance in the various roles, whether located in the Libyan desert (Legend of the Lost) or on the Spanish plain (The Pride and the Passion), is exaggerated and declamatory (Small 2009: 50–51).

Se però visioniamo con attenzione il mélo di Kramer ci accorgiamo che non c’è nulla di particolarmente “esagerato” nella recitazione di Sophia, la cui direzione – compresa la modalità di gestione dell’entrata in scena – obbedisce più alle esigenze della narrazione che alle logiche dello stardom. A differenza di quanto accadeva in La donna del fiume, per esempio, la presenza schermica della star è qui molto distillata ma non per questo, come è stato frettolosamente affermato anche di recente, necessariamente “decorativa” (Giancristofaro 2024: 39). Loren appare soltanto quando il suo personaggio deve dire o fare qualcosa, per esempio leggere pubblicamente la lettera inviata ai guerriglieri dal comando inglese oppure intervenire nella discussione tra Michel e Anthony (Cary Grant) per dirimere la controversia sulla modalità di trasporto del cannone. La prima (e tutto sommato unica) occasione utile ad esibire la merce del sex symbol è costituita dalla scena del ballo, un flamenco danzato in solitaria al centro di una piazza che funge da punto di fuga degli sguardi, non solo maschili: anche Silvana Mangano, del resto, ballava da sola il suo boogie–woogie all’inizio di Riso amaro (G. De Santis, 1949). Si tratta di un pretesto narrativo perfetto per visualizzare, con un découpage ricco di reaction shot, non solo la sensualità delle movenze e delle forme di Sophia/Juana, ma anche la tensione conflittuale che regola il rapporto tra i due maschi, accomunati dal desiderio per una ragazza che – al pari delle “unruly women” (Cfr. Reich 2004) interpretate dall’attrice nei film italiani – appare consapevole del proprio potere seduttivo e determinata nel far valere le proprie ragioni al di là degli schemi maschilisti del patriarcato: unruly, secondo Reich, è da intendersi nel senso di ribelle, indisciplinata, non addomesticabile. Emblematico, in questo senso, è il linguaggio del corpo, caratterizzato dal frequente utilizzo di una postura che prevede la stazione eretta con schiena dritta, gomiti larghi e mani sui fianchi. Si tratta di una posizione che esprime autorevolezza e, in alcuni casi, anche aggressività: i gomiti larghi costituiscono una sorta di minaccia per gli interlocutori, costretti ad aumentare la distanza prossemica con il soggetto in questione. Mi riferisco, in particolare, a una scena di conversazione piuttosto accesa tra Juana e Anthony nella prima parte del film, quando la ragazza, – dopo aver cercato invano di convincere l’uomo in merito alla bontà della causa di Michel – perde la pazienza e, mani sui fianchi, provoca l’ufficiale stuzzicandolo sul piano della sua mascolinità: “Captain, I have an idea you’d like to act more like a man than a cold piece of english mutton”. Nel contratto stipulato con la United Artists, naturalmente, è previsto un certo numero di primi piani, la maggior parte dei quali – però – hanno una funzione più espressiva che divistica. Si veda, ad esempio, il duetto tra Juana e Anthony ambientato nella tenda dell’ufficiale e culminante con il primo, attesissimo bacio tra le due star. La cinepresa di Kramer si avvicina ai due amanti, riprendendoli prima in figura intera e poi in mezza figura, senza ricorrere alla suddivisione tra campo e controcampo. Nel momento in cui Juana racconta la nascita del suo sentimento per Miguel, però, la continuità della ripresa è spezzata da un primissimo piano che evidenzia tanto lo sforzo mimico quanto le piccole imperfezioni fisiche dell’attrice, come il naso pronunciato e l’asimmetria delle labbra. Rievocando il giorno in cui Miguel, con il suo coraggio, salvò la vita a lei e ad altri prigionieri, Juana per qualche secondo abbassa gli occhi e la cinepresa resta lì, a pochi centimetri da un volto che – con grande sorpresa del pubblico americano – non esprime soltanto sensualità, erotismo o gioia di vivere, ma anche le sfumature di sentimenti profondi e complessi, come quel mélange di ammirazione, devozione, fascinazione e gratitudine che la ragazza prova per il coraggioso Miguel: “I had no hope, no purpose, until the man who was son of the shoemaker came. He gave us a reason to live, to fight”. Quando, qualche giorno dopo, Miguel manifesta alla compagna la consapevolezza di non essere intellettualmente alla sua altezza e la invita a cercare altrove quello che lui non può darle, Loren dipinge, con un piccolo quanto intenso movimento del labbro inferiore, il tumulto emotivo che abita la mente di Juana, tesa tra la riconoscenza per l’uomo e l’attrazione, più mentale che fisica, per l’ufficiale.

Mai, forse, il cinema italiano aveva fatto risuonare con tale intensità le corde non verbali di un’attrice che – come dimostreremo anche tra poco – a Hollywood non interpreta personaggi ornamentali, ma personagge3 risolute, mature e autodeterminate, aventi un ruolo attivo nelle dinamiche che regolano i rapporti tra i protagonisti, i quali, nella maggior parte dei casi, sono tre: due uomini e una donna (Sophia). Nella femminilità di Juana, ma anche in quella di Dita, la prostituta protagonista del successivo Timbuctù – non c’è solo l’intensità selvaggia e il sapore indigeno di chi deve incarnare l’esotismo (Cfr. Gundle 1995: 372), ma anche qualcosa che ricorda il femminino simboleggiato, in quegli stessi anni, da un’altra star dislocata quale Ingrid Bergman: una forte integrità morale, un istinto di protezione quasi materna nei confronti dell’uomo amato e una sensualità priva di accenti volgari sono i tratti che accomunano i personaggi di due attrici più vicine di quanto si potrebbe pensare.

Anche il plot di Timbuctù, come quello di Orgoglio e passione, è costruito attorno a un triangolo composto da preda (Loren) e pretendenti, che questa volta hanno i nomi di John Wayne (Joe) e Rossano Brazzi (Paul), ovvero natura vs cultura, mascolinità bruta vs mascolinità intellettuale. Il racconto, incentrato sulla ricerca di un tesoro nascosto in una città perduta nel deserto del Sahara, si dipana secondo gli stilemi classici del road–movie, dove il viaggio non è solo un’avventura del corpo ma anche un percorso interiore. Un percorso che, alla fine, avvicinerà i destini sentimentali del rude Joe e dell’affascinante Dita, giovane prostituta invaghita dell’ambiguo Paul, esploratore disposto a tutto pur di trovare il misterioso tesoro. I tratti latini di Sophia Loren mal si conciliano con quelli di una donna araba, ma poco importa. I criteri della verosimiglianza, in questo caso, passano in secondo piano rispetto all’esigenza – dettata dalla United Artists – di mescolare tra loro tre ingredienti non facili da amalgamare quali eros, avventura e western. Al pari di Kramer, Hathaway sfrutta il talento drammatico dell’attrice in molte delle scene di conversazione che punteggiano questo adventure film girato nel deserto della Libia. Penso, ad esempio, al dolore misto di rimpianto e malinconia visibile sul volto di Dita durante la rievocazione, alla luce di un falò, della propria infanzia ad Algeri, o all’espressione raggelata dipinta sul volto della donna nel momento in cui Paul, deluso per il mancato ritrovamento del tesoro, rivela la sua natura meschina e tenta di usare violenza contro di lei. Sul volto e, più in generale, sul corpo di questa ragazza non si vedono più i rapidi micromovimenti che caratterizzavano i body languages dei personaggi italiani (per esempio quello di Antonietta in La fortuna di essere donna, A. Blasetti, 1956). Mentre ascolta le ragioni dell’uomo, Dita appare catatonica: le labbra sono semichiuse, le braccia appoggiate senza peso sulle ginocchia e gli occhi rivolti nel vuoto. Ma quando Paul tenta nuovamente di rubarle un bacio, la ragazza lo respinge con un pugno, dimostrando quella determinazione, quel coraggio e quella forza (non solo d’animo) che ormai appartengono alla persona dell’interprete e che avevamo già visto anche in Ines (La donna del fiume) o Lina (Peccato che sia una canaglia).

Determinazione e forza d’animo appartengono anche a Fedra, la pescatrice di spugne protagonista di Il ragazzo sul delfino, film d’amore e d’avventura prodotto dalla 20th Century Fox e girato in Grecia. I tratti psicologici e biografici ricalcano alla lettera quelli di Dita (Timbuctù) e Juana (Orgoglio e passione), ovvero: estrazione sociale umile, desiderio di indipendenza, forza fisica e desiderio d’amore. Per la terza volta, inoltre, abbiamo a che fare con un triangolo amoroso, che vede al vertice la carne mediterranea di Sophia e ai lati due maschi rappresentanti, rispettivamente, di quelli che potremmo definire il Bene e il Male. Da un lato James Calder (Alan Ladd), onesto archeologo desideroso di donare a un museo la preziosa statua rinvenuta dalla ragazza sul fondale marino, e dall’altro Victor Parmalee (Clifton Webb), trafficante senza scrupoli disposto a tutto pur di impadronirsi del bronzeo ‘ragazzo sul delfino’.

L’entrata in scena, questa volta, è gestita come si conviene a una superstar, di cui bisogna valorizzare la sensualità senza però oltrepassare i confini di quello che, all’epoca, era considerato il “buon gusto”. E così Sophia fa la sua apparizione low delayed (ovvero “non dilazionata”: Cfr. Vitella 2024) emergendo dall’acqua non in costume da bagno, ma avvolta in un abito di stoffa sufficientemente succinto per far intravedere le celebri forme. Il linguaggio del corpo non è quello della vamp, ma quello della unruly woman intraprendente già vista in Orgoglio e passione. Con le mani sui fianchi e il busto frontale rispetto alla cinepresa, Fedra guarda dall’alto il compagno Rhif accusandolo di non svolgere le proprie mansioni di breadwinner, preferendo dormire anziché lavorare. Nel dirigere la futura signora Ponti Negulesco ricalca la strada intrapresa dai due colleghi americani, sfruttando in senso narrativo non solo la sensualità della presenza ­– evidenziata con il solito espediente del ballo, che questa volta è un sirtaki improvvisato in un locale –, ma anche un elemento della Loren persona sino ad ora poco utilizzato quale l’istinto materno. Nei confronti di Niko, il fratellino, Fedra infatti agisce e si comporta come una madre apprensiva e protettiva. Non c’è una sola intervista, tra quelle concesse alla stampa sul finire degli anni Cinquanta, in cui la star non dichiari di considerare il matrimonio e la maternità come i due grandi obiettivi della sua vita. Non stupisce dunque che quest’auto-narrazione – finalizzata a raffreddare il sex-appeal di una donna che già doveva scontare la colpa della bigamia – cominci a contaminare anche i personaggi filmici, convincendo spettatori e spettatrici del fatto che, al pari di Fedra, anche Sofia Loren potrebbe essere una brava madre, attenta, affettuosa e premurosa.

Al pari di Timbuctù e del futuro Desiderio sotto gli olmi, infine, Il ragazzo sul delfino è ricco di scene di conversazione che richiedono all’attrice un lavoro diverso – ma non necessariamente più complesso – da quello effettuato, in Italia, sui personaggi delle commedie brillanti. Si veda, ad esempio, nella seconda parte del film, il duro confronto verbale tra l’archeologo e la giovane Fedra, scissa tra ragione e sentimento. Con rapidi ma efficaci effetti di trascinamento (Cfr. Vicentini 2007) Sophia Loren, nei brevi spazi a lei concessi dal découpage in campo-controcampo, passa in pochi istanti dalla fermezza alla rabbia e dalla rabbia a un pianto dove l’amore si mescola con l’odio, prima di cadere, in lacrime, tra le braccia ­del good man altruista, colto e virtuoso. La “donna più bella della storia d’Italia” (Aspesi 2024: 12) insomma, sta dimostrando di essere anche una performer raffinata e tecnicamente completa.

2 Tre mariti per Sophia

Contrariamente alla consuetudine ancora in essere nella Hollywood dei Fifties – si pensi al contratto settennale stretto nel 1950 da Gina Lollobrigida con la RKO – Loren non si legò alla Paramount con un solo contratto, ma ne firmò ben tre, distinguendo per ognuno non solo il compenso, ma anche la durata, il numero dei film e la clausola di esclusività. Desiderio sotto gli olmi e Un marito per Cinzia sono le produzioni previste dal primo contratto, stipulato direttamente con l’attrice senza l’intermediazione di Ponti. Caratteristica di questo “personal–employment contract” è l’assenza di esclusività, che consente a Sophia, per esempio, di correre a Londra per girare La chiave, vincendo le resistenze di un produttore – Carl Foreman – che non riteneva l’attrice abbastanza matura per la parte. Il nome di Carlo Ponti, unito a quello del socio Marcello Girosi, figura invece nel secondo e nel terzo accordo stipulato con la Paramount, che produce – nell’ordine – Quel tipo di donna, Il diavolo in calzoncini rosa e Olympia. Tali contratti, che “toccano quote che non hanno confronti con quelli ottenuti in tutta la storia del cinema da attrici straniere” (A.P. 1957: 5), sottopongono la giovane attrice a sforzi e fatiche durante le quali – stando a quanto si legge sulla stampa italiana – “ella rischia di crollare” (A.P. 1957: 5). È probabile che tra le ragioni che spinsero Ponti a incoraggiare (e sostenere) la carriera hollywoodiana della moglie ci fosse l’urgenza di contenere le reazioni negative dell’opinione pubblica italiana al loro matrimonio, stipulato in contumacia il pomeriggio del 17 settembre 1957 a Ciudad Juarez, quando Sophia si trovava a Beverly Hills e il marito nella villa di famiglia sull’Appia Antica, condivisa con la (prima) moglie Giuliana Fiastri. In Italia, però, il contratto messicano è carta straccia: il pigmalione e la sua amante sono dunque considerati semplici concubini e in quanto tali passibili di condanna in virtù dell’articolo 556 del Codice penale. Sophia e Carlo diventano, nel giro di un mese, l’incarnazione del peccato. Come ha osservato Elena D’Amelio, che ha analizzato la copertura mediatica dello scandalo Loren–Ponti sulla stampa non solo cattolica, il caso Loren presto esce dai confini del divismo per diventare un fatto che riguarda la morale pubblica:

L’accusa di bigamia rivolta alla Loren tradisce inoltre gli stereotipi sessisti circolanti nella società dell’epoca: secondo l’articolo 556 del codice penale sia chi è già sposato e contrae un altro matrimonio, sia chi sposa qualcuno già unito in precedente matrimonio è perseguibile per legge. Ma la Loren, in quanto donna e attrice, paga il prezzo di una moralità a doppio standard, che da Eva in poi attribuisce la colpa della corruzione morale alla figura femminile. È l’attrice, infatti, ad essere accusata di essere una rovina famiglie e di aver indotto in tentazione il già maritato Ponti (D’Amelio 2024: 85–86).

Più che il chiacchiericcio scandalistico, però, qui ci interessano le curiose corrispondenze tra vita e arte, ovvero le affinità quasi elettive tra la seconda moglie di Carlo Ponti e le protagoniste dei primi film targati Paramount, ovvero Anna Cabot (Desiderio sotto gli olmi) e Cinzia Zaccardi (Un marito per Cinzia), entrambe spose in seconde nozze di due (in)consolabili vedovi. Sia il melodramma di Mann che la commedia di Shavelson raccontano infatti una storia di rimatrimonio, che nel primo caso ha un esito tragico mentre nel secondo, come si conviene alle regole del genere, assume i connotati rosa della fiaba. Cominciamo da Anna, nome italiano scelto da Irvin Shaw per portare sullo schermo, in una sceneggiatura tutto sommato fedele al modello, il personaggio di Abbie Putnam, eroina dell’omonimo dramma scritto da Eugen O’Neill e rappresentato, per la prima volta, nel 1924 a New York. Vestita (da Wally Westmore) più come una zingara che come una donna di campagna e truccata da Goffredo Rocchetti, Loren fa la sua prima apparizione quando il film è cominciato da venti minuti e la situazione è la seguente: i figli più grandi del vecchio Ephrain, contadino burbero e anaffettivo, hanno deciso di partire in cerca di fortuna e Anna, vedova di origini napoletane scelta da Ephrain come nuova moglie, cerca di trovare un modo per relazionarsi con Eben, il figlio minore, ipersensibile, “foul” e proprio per questo affascinante. La matrice teatrale del personaggio di Anna si avverte fin da subito, nonostante l’attrice cerchi di dinamizzare, con rapidi sottogesti, brevi spostamenti nello spazio e frequenti movimenti degli occhi, una recitazione fondata essenzialmente sul linguaggio verbale. Il passato della donna, riassunto al figliastro con le parole “I’ve had a hard life, I had to fight in my life for else I got nothing”, ricorda da vicino quello dell’interprete, così come le attività volte alla cura della casa filmate in piano–sequenza evocano la Loren post–neorealista, ma le somiglianze finiscono qui, perché quella della novella Fedra, infanticida crudele e incestuosa, resta a tutt’oggi la parte più contre–emploi mai interpretata in 50 anni di carriera. Non è un caso che nella sua autobiografia “nonna Sofia” dedichi quasi un capitolo alle sue (faticose) gravidanze e solo poche righe al lavoro su questo personaggio, che pure è costruito con grande cura e meticolosità. Si vedano, per esempio, le azioni fisiche utilizzate per rafforzare la climax emotiva nella seconda scena di conversazione con Anthony Perkins (Eben). Nello spazio di poche battute Anna passa senza soluzione di continuità dall’indolenza alla collera, dimostrando la sorprendente maturità dell’attrice nell’utilizzo in senso simbolico delle strutture d’ambiente. Decisa a sedurre l’inquieto Eben, la matrigna si alza dalla sedia a dondolo e si appoggia al palo che sostiene il patio, accarezzandolo con movimenti studiati e lenti, come se si trattasse di un corpo maschile: “I have ve the sun inside me”, dice la donna sorridendo alla sua futura preda.

Nei rari momenti in cui il suo personaggio non parla, infine, Loren dà prova di un’assoluta padronanza della mimica del volto, come evidenziano gli sguardi rivolti a Eben nel duetto che suggella lo sbocciare della passione tra i due amanti e nella scena di conversazione precedente l’infanticidio. Nel primo caso scenografia, regia e suono partecipano attivamente alla costruzione dello stardom dell’attrice. Anna indossa lo scialle, esce dalla sua stanza e bussa alla porta di Eben; una provvidenziale folata di vento, accompagnata da un tuono, provoca l’apertura della porta e la conseguente apparizione di una dark lady illuminata come una femme fatale. Lo sguardo, imbiancato dalla key light e fisso sull’amato, esprime un desiderio immediatamente soddisfatto dal bacio, mentre inquietanti ombre oscurano il volto della donna nel momento in cui ella – alla disperata ricerca di una prova d’amore per Eben – decide di sopprimere il figlio. Questa volta gli occhi sono sbarrati e l’espressione è sospesa tra la disperazione, l’orrore e la catatonia. Il primo piano con cui la sequenza si conclude non ha nulla di divistico; è la semplice testimonianza che l’ex–ragazza di Pozzuoli possiede ormai una palette articolata e variegata, estensibile ben al di là delle corde comiche, come del resto aveva già dimostrato la performance offerta sul set di La chiave, melodramma bellico tratto da un racconto di Jan de Hartog e diretto da Carol Reed. Quella di Stella, vedova di guerra rassegnata all’idea di perdere gli uomini che ama, è “una storia di guerra, di mare, d’amore, con un risvolto drammatico che – sono parole della stessa Loren – richiedeva una certa presenza” (Loren 2014: 133). Una presenza che si fa sentire in termini non di quantità – perché il minutaggio occupato dall’attrice è relativamente esiguo – ma di qualità, grazie a un minuzioso lavoro di sottrazione effettuato sia sul piano vocale che su quello della recitazione non verbale. Il film nasce come un war movie incentrato su valori quali coraggio, eroismo e amicizia virile, per cui lo spazio occupato dal personaggio femminile non può essere che quello del focolare domestico. Ma nel modo in cui Stella si prende cura prima di Chris e poi di David, i due ufficiali impegnati in rischiosissime missioni militari, non c’è nulla dell’esuberanza, della naturalezza e dell’italianità mostrate dalle eroine interpretate in precedenza: le origini del personaggio, in effetti, non sono esattamente italiane ma ticinesi. La vedova ascolta, in disparte, silenziosa le conversazioni tra i due uomini e, anche quando la sua mente è turbata da presentimenti funesti, ella mantiene il controllo, affidando a qualche rara lacrima il compito di rigare un volto al contempo angosciato e disteso, quasi trasognato. Della “unruly woman” seduttiva e mobile che, mossa da un forte istinto vitale, sfidava divertita le regole del patriarcato non è rimasto nulla. Quando riceve la notizia della morte di Chris, l’uomo che avrebbe dovuto sposare di lì a poco, Stella resta impassibile e continua la conversazione con David senza interrompere i propri gesti di house keeper, cosa che invece non accade nel duetto che segue la prima notte d’amore con il giovane ufficiale. Per esprimere la fragilità e l’instabilità emotiva di un personaggio incapace di superare il trauma della perdita Loren dosa in modo calibrato e preciso gli effetti di trascinamento, scivolando – nello spazio di pochi secondi – dalla spensieratezza del presente all’angoscia di un passato che non passa. Nel momento in cui le labbra di David (William Holden) si posano sulla sua guancia, la donna sgrana gli occhi, corruga le sopracciglia e invoca, come in una sorta di trance, il nome di Philip, il marito scomparso durante una missione identica a quella in cui è coinvolto David.

Decisamente meno impegnativo è il lavoro sul personaggio di Cinzia, l’immatura e viziata “figlia di papà” che seduce il vedovo Tom Winters in Un marito per Cinzia, commedia romantica scritta e diretta da Melville Shavelson, che due anni dopo dirigerà di nuovo Sophia nell’oleografico La baia di Napoli. Come noto, il film nasce da un’idea di Betsy Drake, la moglie di quel Cary Grant con cui – stando alle cronache ufficiali – Sophia avrebbe avuto un flirt sul set di Orgoglio e passione. Quando Drake abbandona il marito (e il progetto), Shavelson è costretto a riscrivere la sceneggiatura, cucendo il personaggio della protagonista su misura dell’italianità brillante e spigliata di Sophia. La struttura è quella di una fiaba alla rovescia, con la giovane principessa italiana (Cinzia) che, stanca di frequentare solo “best people”, fugge dalla guardia del padre padrone ed entra nella vita del fascinoso Tom, il quale – vedendola in abiti bagnati e sgualciti – le offre un lavoro come domestica. Nelle intenzioni della produzione è chiara la volontà di riaccendere i riflettori sulla chiacchierata relazione ‘amicale’ tra Lady Ponty e l’instancabile corteggiatore Grant, il quale – come ricorda la diva – “non si era ancora dato per vinto. Incurante della presenza di Carlo, mi mandava ogni giorno un gran mazzo di rose, mi telefonava, mi scriveva” (Loren 2014: 129). Il matrimonio con Cary ha luogo, ma solo davanti alla cinepresa di Shavelson, al termine di una serie di peripezie più romantiche che rocambolesche. In “una di quelle commedie fatte apposta per Cary Grant” (Loren 2024: 129) Sophia accetta di ironizzare sulla sua italianità interpretando una bonne che non sa né cucinare né lavare, ma riesce ad entrare in sintonia con i figli del vedovo, accudendoli, rassicurandoli e coccolandoli come una vera madre. Gli ammiratori hanno appena il tempo di intravedere le sempre toniche gambe nel rapido swing ballato con un partner occasionale prima dell’incontro con Tom: per il resto sensualità, erotismo e sex appeal sono sacrificati sull’altare dei sentimenti, esattamente come accade sul set di un altro star vehicle targato Paramount ovvero Orchidea nera, dramedy scritto da Joseph Stefano e diretto da Martin Ritt.

Questa volta il rimatrimonio serve a colmare anche il vuoto del personaggio femminile, un’operaia di origine (naturalmente) italiana vedova di un gangster italo-americano. La parte di Rose Bianco, pensata in origine per Anna Magnani, si rivela perfetta per le corde drammatiche di un’attrice che – come dimostrerà poco tempo dopo anche La ciociara – sembra dare il meglio di sé nei panni della vedova-madre, diffidente ma non chiusa a nuove relazioni, pur tuttavia concentrata quasi interamente sui suoi doveri genitoriali. Doveri che questa volta si scontrano con le difficoltà di un adolescente chiuso in riformatorio e la solitudine auto–imposta di una vedova che – sono parole di Rose – “non sa più ridere”. La ventitreenne italian doll prende alla lettera la sceneggiatura e, sin dalla prima apparizione – per nulla dilazionata –, disegna sul suo volto una maschera di lutto sospesa tra la contrizione e l’apatia. Pur giustificato da esigenze narrative quali il lutto del personaggio, l’abito nero – indossato dalla prima alla penultima sequenza – nasconde le non morbide forme di una maggiorata che solo sul finale sembra ritrovare il contatto con il tratto più conservatore del suo femminino, quello della casalinga amorevole, materna e remissiva. Davanti alla famiglia acquisita, finalmente riunita a tavola, Rose abbandona il lutto, indossa un grembiule e prepara la colazione, rifiutando qualsivoglia aiuto: “In una famiglia per bene – recita Lydia Simoneschi, la doppiatrice scelta per la versione italiana del film – è la donna che serve”. Vertice virtuosistico della performance è però la scena di conversazione con Frank (Anthony Quinn) successiva alla notizia della fuga del figlio dal riformatorio, quando le carezze del compagno non riescono a consolare una madre impietrita da un dolore troppo grande: Loren lascia scivolare solo qualche lacrima sulla guancia per poi concentrare tutta l’espressività sui muscoli della fronte e in modo particolare sul movimento degli occhi, agitati in modo frenetico verso i bordi del quadro. Acconciatura (capelli raccolti), trucco e postura (quasi sempre curva) completano un lavoro, quello sul personaggio, che non passa inosservato ai giurati del Festival di Venezia, i quali le conferiscono la Coppa Volpi per la miglior attrice protagonista. Il rientro in Italia per il ritiro del premio regala alla “rovinafamiglie” tre liete sorprese: il plauso dei media, che leggono in questo premio il “riconoscimento della nuova bravura, acquisita con duro studio” (Cfr. Anon. 1958), l’accoglienza festante di cinquemila ammiratori a Venezia e i complimenti di Anna Magnani a Roma, in occasione dell’anteprima nazionale del film.

3 Variazioni sul tema

Nel 1960 l’immagine del “symbol of Italianness for foreigners” (Salmeri, Schrader 2022: 80) si colora di rosa. Olympia e La baia di Napoli, pur con le dovute distinzioni di carattere storico, stilistico e narrativo, si offrono infatti come variazioni fiabesche sul tema della unruly girl che, dopo una serie di prevedibili peripezie, realizza quello che è alla fine è il desiderio di quasi tutti i personaggi interpretati per la Paramount, ovvero convolare a nozze con un (facoltoso) maschio americano. Nel primo caso abbiamo a che fare con Olympia, una capricciosa principessa viennese che, dopo essere stata esiliata dalla corte per le sue bizzose intemperanze, rifiuta un matrimonio combinato della madre per sposare Charlie Foster (John Gavin), un fascinoso ingegnere statunitense. La baia di Napoli invece racconta una parabola già vista (e replicata anche in futuro), ovvero quella di una ragazza al contempo frivola e morigerata che seduce un maturo avvocato americano incorporando quegli stessi cliché – ovvero passionalità, esuberanza e calore – incarnati da una città filmata con uno sguardo cineturistico. Il personaggio di Lucia Curcio, eletta regina d’Aragona dagli abitanti del suo rione, è in un certo senso una riscrittura in chiave moderna della pizzaiola di Materdei (L’oro di Napoli, V. De Sica, 1954), in una Napoli dove, come ha osservato Stefano Pettinati, “tutti sono senza scarpe ma felici, i bambini rubano perché sono vivaci e furbacchioni, tutti cantano e ballano, mangiano la mozzarella e si occupano dell’amore che oggi si chiamerebbe sesso” (Pettinati 1990: 23). Per quanto riguarda la recitazione… nulla di particolare da segnalare, né sul set viennese (costruito interamente a Cinecittà) né su quello di Shavelson, se non l’adozione in chiave comica della mise en abyme ai fini della seduzione del partner. Sia Olympia che Lucia, infatti, giocano a confondere la loro “vittima” interpretando la prima la parte della sventurata fanciulla caduta da cavallo e la seconda quella della mondana viziosa e dissoluta, inadatta a crescere un figlio perché troppo propensa ai piaceri della carne e della musica. Mi riferisco, in particolare, alla celebre sequenza di La baia di Napoli in cui Lucia abbandona i panni della popolana per quelli della cantante e ballerina, sostituendo il grembiule liso utilizzato per cucinare gli spaghetti con un outfit tra i più audaci mai indossati: costume verde con strass, tacchi alti e gonna viola a fili fluttuanti che, durante le piroette, si solleva permettendo agli spettatori – tra cui figura anche Michael Hamilton (Clark Gable) – di ammirare la tonicità delle cosce. Tu vuò fa’ l’americano, hit composto da Renato Carosone nel 1956 e qui eseguito con l’accompagnamento di Paolo Carlini, rappresenta in ambito musicale esattamente ciò che Sophia Loren incarna nell’immaginario cinematografico, ovvero un fascinoso ibrido di tradizione e modernità, “una figura–soglia […] lungo un asse transatlantico fra Italia e Stati Uniti, fra un culto classico della star e uno moderno, fra immagine–azione e immagine–tempo” (Salmeri, Schrader 2022: 79). La satira della fascinazione esercitata dallo stile di vita USA nei confronti dell’italiano medio, però, in questo film non morde, e ciò che fa notizia non è il lavoro di Shavelson (che si limita al cosiddetto ‘compitino’) quanto lo svenimento dell’attrice avvenuto nel teatro 18 di Cinecittà, il 1° ottobre 1959, durante le prove di questa canzone: sui giornali circolano immediatamente voci di una incipiente maternità, subito smentite dalla diretta interessata (Cfr. Anon. 1959).

Non solo di fiaba, però, vive il mito di Sophia. Nel 1960 esce infatti anche – negli USA ma non in Italia (!) – Il diavolo in calzoncini rosa, western diretto da George Cukor e scritto dalla coppia Dudley Nichols–Walter Bernstein, che adattano con licenza di inventare il romanzo Heller with a Gun di Louis L’Amour. Il plot, ambientato nel Wyoming del 1880, prevede ancora una volta la drammaturgia del triangolo amoroso: al centro Angela Rossini (Loren), che nei titoli di testa è presentata come “beautiful and flirtatious actress”, ai lati i due contendenti, ovvero il capocomico nonché marito Tom Healy (Anthony Quinn) e il tenebroso fuorilegge Mabry (Steve Forrest), che ha ‘vinto’ la donna a poker. Angela, naturalmente, compie nel film le medesime scelte che la sua interprete porta avanti nella vita, ovvero antepone la stabilità di un legame consolidato e in qualche modo rafforzato dalla differenza di età all’ebbrezza dell’avventura, un’ebbrezza che in questo caso assume le sembianze della sublimazione. Quando, non appena arrivata a Cheyenne, si accorge di essere spiata e seguita dal fascinoso Mabry, infatti, la ragazza reprime quel misto di paura e desiderio scaturito dallo sguardo dello sconosciuto rubando un frettoloso bacio al marito. Singolare è il fatto che la dinamica del triangolo amoroso regoli anche la struttura di La belle Hélène, la pièce che la compagnia si appresta a mettere in scena con Angela nei panni di Elena e Tom in quelli di Paride. Nonostante le rassicurazioni del capocomico (“This is a comic opera”!), Mr. Pierce, l’impresario di Cheyenne che ha organizzato lo spettacolo, interrompe scandalizzato le prove dello spettacolo, non comprendendo che cosa ci fosse di comico nella rappresentazione di una femminilità intrisa di civetteria, egoismo e vanità. La frase con cui Angela descrive la psicologia del suo personaggio – “I’m young and very beautiful and do only what enjoy” – rappresenta però solo in parte il modello di femminilità incarnato dalla diva, la quale proprio in questi anni confeziona, con il beneplacito della stampa di costume, l’immagine di un sex symbol rubacuori, corteggiato da uomini fascinosi come Cary Grant ma assolutamente incorruttibile, in quanto stoicamente fedele alla promessa fatta al marito pigmalione.

Sin dalle sequenze iniziali la regia rivela l’obiettivo (ambizioso) dell’operazione, ovvero contaminare i codici del western con una riflessione sulla dialettica tra realtà e rappresentazione tanto cara al regista di È nata una stella (A star is born, 1954). Il tutto, però, senza rinunciare al diktat imposto dalla coppia Carlo Ponti–Marcello Gerosi, ovvero esaltare, illuminare ed erotizzare la stella di Sophia, che qui, oltre agli sgargianti costumi di Edith Head, sfoggia un’inedita capigliatura bionda. Quando la compagnia teatrale arriva a Cheyenne Angela è l’ultima ad uscire dalla carrozza e Cukor ne svela le sinuose forme – alleggerite di una decina di chili per esigenze di copione – con una lenta panoramica dal basso verso l’alto che termina con un primo piano al contempo divistico e narrativo. Protetta dal velo del cappello, la soubrette ricambia infatti lo sguardo ammirato della folla con un sorriso enigmatico, disegnato sia con gli occhi che con le labbra, per una volta chiuse e non socchiuse. La direzione dello sguardo e l’espressione, volutamente indecifrabile, richiamano alla mente la mimica utilizzata dall’interprete in molte delle foto glamour scattate in questi anni e non è un caso che, per la scelta del colore e della luce, Cukor si sia avvalso della consulenza del color coordinator George Hoyningen–Huene, in passato capo fotografo per Vogue e in quegli anni nome di punta della fotografia di moda. Guardando Angela Rossini, insomma, gli spettatori vedono Sophia Loren, come se stessero sfogliando un dossier sui costumi di fine Ottocento in una rivista di moda.

Angela, però, non è esprime solo un’idea assoluta di bellezza. La conturbante primadonna – che dopo aver ceduto all’attrazione fisica per Mabry troverà la soluzione per salvare la compagnia teatrale dal fallimento – ricalca infatti per filo e per segno quella tipologia femminile che ormai appare inscindibile dall’immagine di Sophia Loren: una donna forte, determinata e intraprendente, sensibile al richiamo della passione, ma disposta a tutto pur di salvaguardare il proprio matrimonio.

Il matrimonio è invece il punto di approdo delle avventure di Epifania Ognissanti di Parerga, protagonista di La miliardaria. Il personaggio dell’ereditiera viziata – ideato da George Bernard Shaw nel 1935 – fu proposto a Katherine Hepburn, che però trovò la sceneggiatura eccessivamente funny. Da navigata “star–as–professional” (Geraghty 2000) Sophia non fa una piega. Si adatta alle richieste di Asquith, che cerca di coniugare il ritmo della screwball comedy con i toni della fiaba, e sfodera un’inedita vis comica, dimostrandosi – tanto nella mimica quanto nel timing delle battute – assolutamente all’altezza del partner Peter Sellers, che interpreta il filantropo Ahmed El Kabir, oggetto del desiderio dell’irriducibile ereditiera. Pur rispettando alla lettera le indicazioni della produzione, intenzionata a mescolare bellezza, sorrisi e buoni sentimenti, Asquith cerca anche di accontentare i fan del sex symbol, sfruttando ogni occasione per svelare almeno parte della carne della star. Si veda, a questo proposito, la divertente sequenza relativa al salvataggio dal secondo tentativo di suicidio messo in scena da Epifania. Bagnata ma non abbastanza da scalfire il trucco di Dave Aylott, la ragazza viene portata dal futuro sposo in una scalcinata pescheria, le cui aringhe appese al soffitto richiamano alla mente l’atmosfera sordida e popolare della fabbrica di anguille dove lavorava Nives (La donna del fiume). Qui Epifania tenta la carta della seduzione, svelando alla cinepresa la schiena e le formose natiche (protette da un intimo nero), ma l’azione non sortisce alcun effetto. Del resto – e questo è ciò a cui puntava il press–agent Enrico Lucherini – gli atout della signora Ponti, dopo il matrimonio, non devono essere (più) la carica erotica e il sex appeal, ma la bontà d’animo, la filantropia e il rispetto di istituzioni sacre (per gli italiani) quali la famiglia e la Chiesa.

Della tragedia di Nives, del suo sudore e delle sue lacrime – però – non resta che un vago ricordo. Sei anni dopo Sophia Loren non è più né l’ex–scugnizza di Pozzuoli né un’attrice emergente, ma una star del valore di 200 mila dollari al contempo contesa dai fotografi del jet set internazionale e invisa a milioni di cattolici italiani. L’esperienza hollywoodiana ha permesso al futuro premio Oscar non solo di potenziare in senso internazionale la propria immagine divistica, ma anche di ampliare in modo significativo una palette espressiva che fino a quel momento – con l’eccezione di La donna del fiume – era sostanzialmente limitata alle corde della commedia.

Per la consacrazione definitiva manca soltanto un film che convinca pubblico, critica e addetti ai lavori del fatto che la “quintessenza della donna italiana” (Cfr. Carotenuto 2009) è anche una grande attrice drammatica. L’occasione è l’adattamento di un romanzo di Moravia, amato da Sofia e incentrato sulle peripezie di due donne (madre e figlia) che, sul finire del 1943, fuggono da Roma in attesa dell’arrivo delle forze alleate e, nei duri nove mesi di occupazione tedesca, subiscono, come tanti altri innocenti, la fame, il freddo e la violenza. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia.

Bibliografia

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  1. Gli unici studi su Sophia Loren, quanto meno in ambito italiano, riguardano la sua immagine divistica. Mi riferisco a: Tognolotti (2019, 2021), Pesce (2021) e Salmeri e Schrader (2022). Conferma la regola, pur con qualche eccezione, il dossier monografico “Sophia Loren” curato da Piera Detassis (2024) in Bianco e Nero, 608.↩︎

  2. La necessità di operare una selezione dei film non ci ha permesso di prendere in esame la performance offerta da Sophia Loren in Quel tipo di donna (That Kind of Woman, S. Lumet, 1959), che vede l’attrice nei panni di una signora sofisticata e sentimentalmente divisa tra un ricco uomo d’affari e un soldato semplice. Ci riserviamo di farlo presto in un’altra sede.↩︎

  3. Cfr. Mazzanti, Roberta, Silvia Neonato, Bia Sarasini (2016). a cura di, L’invenzione delle personagge. Roma: Iacobelli Editore.↩︎