1 Introduzione
Il rapporto tra i soggetti della scena musicale e il mondo del cinema oggi si configura come una galassia formata da elementi diversi. In questo ambito nello scenario internazionale l’attenzione del pubblico è stata calamitata dal successo di Bohemian Rhapsody (2018), a cui è seguita una proliferazione di biopic musicali di ambito pop che sono gradatamente subentrati a quelli dedicati ai compositori di ascendenza classica. In generale, come ha notato Gianni Sibilla (2023: 56), il turn biograficistico (Surace 2022: 190) che domina nel panorama mediale contemporaneo da almeno un ventennio ha portato – tra le altre cose – a una “rinascita del documentario dedicato alla popular music”, per ragioni che vanno dalla diffusione di nuove “forme di rappresentazione e di racconto della musica e della canzone sui media” sino “all’affermazione di nuovi modelli produttivi dell’industria dell’intrattenimento” come la moda dei film-concerto-evento in sala o la platformizzazione.
Anche il territorio italiano appare ricco di pratiche analoghe che hanno coinvolto in termini (audio)visivi la popular music, mettendo in circolo da oltre un decennio prodotti per il grande o piccolo schermo che presentano diverse forme di narrativizzazione e di mediatizzazione audiovisiva dell’esperienza degli artisti pop (Bertoloni 2024a, Gallico et al. 2025). Il fenomeno non è certo nuovo: tutta la grande stagione dei musicarelli e dei film-canzone (Arcagni 2006) si era infatti costituita non solo intorno alla messa in scena di numeri musicali che sollecitavano una “dimensione spazio-temporale peculiare, ossia un qualcosa che implicasse un modo particolare di guardare/ascoltare il canto” (Bisoni 2020: 127), ma anche intorno alla costruzione di parabole biografiche che stabilivano presso il pubblico un’identificazione tra il personaggio rappresentato, l’attore/performer e l’artista, di cui spesso venivano narrativizzati, seppur in forma romanzata, gli esordi musicali. Già negli anni Cinquanta e Sessanta queste forme di rappresentazione narrativa e mediale della celebrità (Gabler 2001, Evans, Hesmondhalgh 2005) musicale si configuravano per uno statuto transmediale e intermediale che convergeva proprio nella persona fisica del cantante: come ha notato Paola Valentini (2021: 21), in quel periodo in Italia infatti “la star [musicale] non solo porta negli altri media la sua narrazione, ma opera in essi […] per espansioni che arricchiscono, innovano e compongono, talvolta a caleidoscopio talvolta a mosaico, immagini stratificate e complesse”. Questo statuto appare ancora più saldo nel panorama attuale in cui le immagini di finzione si mescolano a riusi di repertorio e di archivio, in cui i soggetti della sfera musicale si configurano sempre più come contenuti mediali (Locatelli, Mosconi 2024), e in cui il regime rappresentazionale della celebrity culture si trasforma di sovente in regime presentazionale (Marshall 2010).
In questa sede vorremmo rileggere alcuni degli sviluppi di questo fenomeno attraverso l’analisi di Hanno ucciso l’uomo ragno. La leggendaria storia degli 883 (2024-), prima stagione di una serie formata da otto episodi dalla durata di 50 minuti ciascuno prodotta da Sky e dedicata agli esordi degli 883 (Max Pezzali e Mauro Repetto), un duo che, oltre a riscuotere – sia all’epoca che oggi – un grande successo presso il pubblico nazionale, ha stimolato nel tempo diverse riflessioni di carattere linguistico, musicale e socioculturale (Berselli 1999, De Rosa, Simonetti 2003, Tomatis 2017, 2019, Bertoloni 2024b). I riscontri positivi di cui ha goduto la serie (riconfigurando diversi caratteri ormai consolidati del modello-Sky (Barra, Scaglioni 2013, Barra 2015), hanno coinvolto anche le logiche produttive: la piattaforma infatti, a pochi giorni dal suo rilascio, ne ha annunciato tramite una massiccia campagna pubblicitaria la seconda stagione (che narrerà l’ultimo anno di attività del duo), in modo da tener vivo sin da subito l’interesse degli spettatori e mantenere con loro un legame tale da colmare “quell’attesa eccessiva” che, come osserva Daniela Cardini (2017: 101), “non aiuta la serialità”. Nello stesso tempo i brani degli 883 sono ritornati nelle classifiche delle piattaforme, giovando anche all’immagine (e al riscontro commerciale) dei singoli Pezzali e Repetto.1
Dopo aver messo a fuoco, grazie agli strumenti analitici dei film studies, gli elementi narrativi e autoriali intorno a cui il biopic struttura la sua narrazione seriale, interpelleremo in particolare la narratologia transmediale della popular music (Sibilla 2003, 2024) con l’obiettivo di indagare le forme di rinegoziazione della visibilità del duo che emergono dalla serie (Spaziante 2007, 2016) e di esplorare le modalità attraverso cui viene rimodulato nel formato audiovisivo il loro immaginario. Ci chiederemo dunque attraverso quali modalità un prodotto seriale di finzione che non è realizzato direttamente da un performer musicale possa contribuire alla sua costruzione come contenuto mediale-culturale e come personaggio pubblico, e in che modo oggetti di questa tipologia rientrino in un più ampio processo di mediatizzazione culturale (Bertoloni 2025)2 dei soggetti di ambito musicale che interpella spesso il linguaggio delle immagini. L’analisi della serie sarà poi l’occasione per mettere in luce, più in generale, alcuni meccanismi formali del biopic musicale pop contemporaneo, e nello stesso tempo ci consentirà di comprendere come la musica pop da tempo si dia in un’articolata dimensione transmediale ed ecosistemica (Cecchi 2019, Soldani 2023) in cui il formato audiovisivo gioca un ruolo discorsivo di primo piano, poiché viene caricato di istanze primarie che giovano in primis ai brand musicali su un piano sia produttivo che simbolico (Sibilla 2024).
2 Le forme di (auto)racconto dei performer pop tra grande e piccolo schermo
Hanno ucciso l’uomo ragno (2024-) arriva a compimento di un percorso che negli ultimi anni in Italia ha visto il diffondersi di diversi prodotti audiovisivi legati ai performer musicali pop e ai loro universi biografici e discorsivi. Possiamo esplorare questo fenomeno attraverso due macro-traiettorie.
La prima è rappresentata dal modello del docu-film, e coinvolge quei prodotti che contengono immagini di repertorio di un’artista (interviste, concerti) girate nel corso del tempo, ma montate con retrospettive sincroniche contenenti interventi dell’artista stesso, dei suoi collaboratori o di persone a lui vicine. Anche questi prodotti, soprattutto quando coinvolgono soggetti che, essendo ancora in vita o in attività, possono avere una parte attiva nel processo creativo, sono, come ha notato Bruno Surace (2022: 197) per gli autobiopic, un’occasione in cui “raccontarci come ci si racconta, cosa si elude e cosa si magnifica e in quali circostanze, [e] cosa, di era in era e di luogo in luogo, è considerato pertinente o impertinente nell’atto di dirsi” da parte di un artista musicale pop. Nel farlo, offrono un ampio ventaglio di modelli formali che va dalla sit-com serializzata – Ligabue. È andata così. Sogni di rock’n’roll (2021) distribuito da RaiPlay; Sbagliata ascendente Leone (2022) dedicato a Emma Marrone e distribuito su PrimeVideo; Vasco Rossi: il supervissuto (2023) prodotto e distribuito da Netflix – sino al film-concerto, talvolta corredato di immagini del dietro le quinte o più genericamente paratestuali – Tutto in una notte - Live Kom 015 (2016) con protagonista Vasco Rossi; Claudio Baglioni - In questa storia che è la mia (2021) trasmesso in streaming sulla piattaforma It’s Art; Cremonini Imola 2022 (2022), per limitarsi soltanto ad alcuni titoli. Questi modelli sono accumunati da storytelling più o meno standardizzati che si diversificano a seconda del target a cui sono indirizzati, dalla forma di condivisione che propongono, dallo scopo che si prefiggono e da specifiche logiche distributivo-produttive spesso riconducibili alle differenti case di produzione o alle strategie di distribuzione (piattaforme online nel primo caso, e distributori come Nexo Digital nel secondo caso) (Landrini 2018).
La seconda invece ha un orientamento più finzionale, e riguarda quei prodotti in cui i performer sono interpretati da attori che ne ricreano voci, prossemiche e movenze con rispetto filologico, realizzati da case di produzione differenti come Rai Fiction, che nel suo nuovo corso (Buonanno 2012) appare particolarmente interessata alla costruzione di parabole biografiche di personaggi centrali nella recente cultura mediale del paese – De André Principe libero (2018) o Io sono Mia (2019), entrambi prodotti da Rai Fiction e distribuiti al cinema da Nexo Digital –, oppure piattaforme come Netflix – Sei nell’anima (2024) dedicato a Gianna Nannini e prodotto e distribuito da Netflix. All’interno di questa traiettoria si osservano differenti forme di riuso di immagini e suoni di repertorio.
In primo luogo, questi segmenti possono contribuire alla costruzione mimetica delle scene di fiction, spesso modulate frame per frame intorno a sequenze ben sedimentate nell’immaginario (poiché facilmente accessibili nell’ecosistema mediale contemporaneo) che appaiono dunque come vissute e potenzialmente condivisi(bili) direttamente dal pubblico; inoltre possono intaccare direttamente la diegesi tramite una duplicazione fisica dei protagonisti, separati tra le loro entità corporee/vocali reali e gli interpreti diegetico-finzionali. In questo modo anche i biopic più tradizionali (Altman 2004, Arlanch 2008, Scognamiglio 2019) riconfigurano una serie di materiali iconografici e sonori noti che entrano senza soluzione di continuità nel girato garantendo al prodotto un effetto visivo e sonoro di realtà, pur nella libertà della narrativizzazione diegetica. Tali docu-film e biopic (ma anche i prodotti che intraprendono una strada ibrida tra i due poli) vanno dunque a gravitare nell’immaginario di un artista (o di un genere) pop configurandosi come nuove espansioni transmediali del suo universo musicale, che così si alimenta di contenuti audiovisivi inediti, e come forme di narrativizzazione o di vetrinizzazione mediale del loro statuto di celebrità (Evans, Hesmondhalgh 2005, Ricci 2013, Codeluppi 2017).
Intento comune a queste traiettorie è il perseguire un afflato che deve apparire documentario, e che si esprime in costruzioni narrative in bilico tra mimesi e testimonianza. Come ha notato Dario Cecchi (2016: 31), è proprio nel ventaglio di gradazioni tra questi registri che si gioca l’esperienza documentaria intermediale che caratterizza il panorama dell’ultimo ventennio: i nuovi documentari intermediali, la cui natura è sempre ibrida, sono infatti operazioni che “definiscono lo statuto delle tracce (immagini, video) in cui ci imbattiamo, le quali fanno parte di un archivio informale (la rete) o formalizzato solo con criteri di classificazione (i luoghi, gli eventi, le persone) per farne l’oggetto di un’esperienza di memoria condivisa”. Anche i documentari musicali pop allora, oltre a rispondere a intenti meramente commerciali, si pongono lo scopo di ricreare (o creare ex novo) una memoria condivisa che può attingere sia a elementi del passato, riconfigurati talvolta da un filtro nostalgico amplificato dalla nuova mediatizzazione (Morreale 2009), e sollecitare l’immediato presente per realizzare contenuti da fruire istantaneamente o in brevissimo tempo (instant documentary) che intendono analogamente sedimentare l’artista nella memoria collettiva, offrendo al contempo una finestra pubblica dal carattere presentazionale sul suo vissuto privato.
Sul piano testuale, questi dispositivi di narrazione audiovisiva dei soggetti del mondo della popular music appaiono costruiti intorno a tre poli. Il primo è la mediatizzazione culturale (Bertoloni 2025) e narrativa dei performer, che si ottiene in primo luogo tramite la costruzione diegetica di salotti discorsivi e mediali in cui si ibridano alcuni modelli di messa in scena televisivi (Barra, Brembilla, Innocenti 2024) con quelli di rappresentazione (anche in diretta) dei social o dei concerti dal vivo (Landrini 2018), attraverso i quali gli artisti, i loro collaboratori o gli attori che li interpretano finzionalmente possono parlare di loro stessi, e offrire così una sorta di testimonianza diretta (reale o presunta tale) della loro esperienza musicale e personale. La mediatizzazione si può ottenere anche tramite la costruzione di parabole narrative che attingono a materiali autobiografici dei singoli performer (autobiografie letterarie, romanzi, pagine social, etc.), attuando un processo di retroazione tra elementi apparentemente reali e narrazione finalizzato alla loro mitizzazione, alla costruzione della loro celebrità (Turner 2014) e alla sollecitazione della loro identità mediale in quanto icone (Spaziante 2016). Sotteso a questo polo vi è dunque, complessivamente, un processo di “direzione ideologica” (Surace 2022: 190) che porta a selezionare sapientemente – da parte dei performer e dei loro agenti – i contenuti, e a riconfigurarli in un’inedita dimensione narrativo-discorsiva.
Il secondo polo è la mediatizzazione audiovisiva della canzone, che di norma non si manifesta – per ricorrere a una distinzione proposta sempre da Sibilla (2023: 58-59) – nei termini della performance teatralizzata dei musical/musicarelli o della performance iper-spettacolarizzata del videoclip (Di Marino 2018), ma come una performance-concerto. In questo modo la riconfigurazione mediale e audiovisiva della liveness (Auslander 1999) fa collassare il distinguo tra il regime mimetico-finzionale e quello testimoniale creando nel pubblico un effetto di realtà che si ottiene sia grazie alle riprese reali di concerti, spesso distribuiti sul grande schermo come film-eventi in modo da conservare la “singolarità esperienziale” della manifestazione musicale (Landrini 2018: 142), sia grazie a ricostruzioni filologicamente curate di performance del passato, secondo un modello fissato nell’immaginario contemporaneo proprio da Singer.
Il terzo polo, infine, è il dialogo che questi prodotti intessono in termini ecologici con un ecosistema narrativo più ampio: la loro fruizione infatti non può mai essere isolata, ma va contestualizzata con altri prodotti, i quali, insieme (in termini sia crossmediali che soprattutto transmediali), contribuiscono alla costruzione narrativa del performer come contenuto mediale. Questo approccio ecologico, che caratterizza l’attuale cultura visuale (Ugenti 2016), permette di comprendere sia logiche meramente distributive, come quelle di docu-film pubblicati in contemporanea all’uscita di album, che narrative e disvelative, come quelle di prodotti in cui i performer svelano elementi del proprio privato. In questo modo tali prodotti intercettano il continuo riposizionamento nella scena mediale di soggetti che curano con attenzione il loro apparire/scomparire, e che dosano gli aspetti della narrazione secondo strategie che possiamo definire autoriali su un piano intermediale, poiché caratterizzate da una “riconoscibilità identificativa di elementi […] grazie ai quali […] si posizionano nel mediascape contemporaneo con una loro specifica voce, ‘parlando’ attraverso più formati, più piattaforme e più prodotti” (Bertoloni 2022a: 91).
Questi tre poli sono poi tenuti uniti dalla struttura complessiva dello storytelling, che oscilla tra la riproposizione di contenuti già noti e lo svelamento personale di dimensioni ancora sconosciute per il pubblico, sia di fan che generalista. Vedremo ora in che modo questi elementi vengono riconfigurati dalla serie di Sydney Sibilia.
3 Il racconto (auto)biografico e seriale di una nostalgia intergenerazionale
Hanno ucciso l’uomo ragno appare contestualizzata all’interno di due macro-contenitori produttivi ed estetici. Il primo è rappresentato dal cinema e dalla poetica dello showrunner3 Sibilia (che ne dirige i primi due episodi), da cui vengono mutuati alcuni stilemi sperimentati soprattutto in Mixed by Erry 4 (2023), una “storia tutta italiana” (Giorrello 2023) di ambito musicale che ricostruisce l’immaginario di un’epoca e di un territorio liminale (Napoli) tramite una messa a fuoco del contesto mediale del momento, ma filtrato dalla parabola biografica di protagonisti fortemente “ingenui”. Il secondo è rappresentato dal modello seriale di Sky (Barra, Scaglioni 2013, Barra 2015, Cardini 2017: 101-103), che come ha notato Luca Barra (2015: 36-37, 40) è incentrato, sin dalle sperimentazioni della lunga serialità del primo decennio degli anni Duemila (che culmina nel 2021 con l’apertura di Sky Serie, dove è trasmessa la serie degli 883), sulla “forza di insieme di una comunità di attori capace nel complesso di cementare la fedeltà del pubblico”, su un “rinnovamento dell’immaginario” e sulla costruzione di un inedito divismo collettivo che si rispecchia in una cultura promozionale in cui le logiche testuali di una “produzione quantitativamente minore” rispetto ad altre sono volte alla costituzione di brand specifici sul piano identitario.5 La serie, rientrando in questi contenitori, si configura allora come un “film lungo” o un “film seriale” (Cardini, 2017: 109).
La storia è liberamente ispirata, come recitano i titoli di coda, alle autobiografie di Max Pezzali I cowboy non mollano mai, edita da ISBN nel 2013, e Max90, la mia storia: i miti e le emozioni di un decennio fighissimo, edita da Sperling&Kupfer nel 2021. I materiali narrativi di partenza, pur rielaborati con estrema libertà,6 hanno funzionato come base per la scelta di una focalizzazione interna totalizzante accentuata da un uso strutturale e pervasivo della voice over mimetica del protagonista Elio Nuzzolo, interprete di Max, che agisce da collante sonoro e narrativo di tutti gli episodi garantendo presso lo spettatore un elevato grado di immersione nel suo microcosmo, e ricreando – pur in una veste finzionale e più tradizionalmente cinematografica – la comunicazione diretta del salotto mediale televisivo e social che caratterizza buona parte dei documentari musicali pop contemporanei. La costruzione della voice over appare orientata su un registro duplice: autoironico, poiché racconta ogni vicenda con l’intento da un lato di scaturire un effetto comico presso lo spettatore, soprattutto grazie alla messa in scena ostentata di una naturalezza comunicativa prossemica e verbale, e dall’altro per inscenare alcuni meccanismi di straniamento che giocano tra il punto di vista assoluto del narratore/protagonista e il patrimonio cognitivo dello spettatore; e retrospettivo, poiché si posiziona cronologicamente e semanticamente nel presente, o comunque in un momento in cui le vicende della stagione sono concluse, ripercorrendo a ritroso le esperienze del passato degli 883 con un tono sospeso e incredulo che cozza con la messa in scena del quotidiano dello storytelling.
La voice over di Pezzali è dunque un luogo di antinomie cronologiche, informative, cognitive, narrative e culturali, come si può notare nella scelta di raccontare la everyday life dei protagonisti Massimo detto Max e Mauro (Matteo Oscar Giuggioli), due sconosciuti ragazzi di Pavia che si troveranno, forse senza esserne mai consapevoli fino in fondo, al centro dei consumi culturali e musicali di un’intera generazione di italiani all’inizio degli anni Novanta. Questa scelta è rimarcata dal continuo contrasto tra lo star system mediale dell’epoca, ben radicato nell’immaginario dei protagonisti, e due “sfigati” che faticano a inseguire il proprio sogno musicale, presi e persi nella monotonia della vita di provincia a cui sono costretti e in preda alle impegnative scelte post-adolescenziali. In questo modo Sibilia, coerentemente con il suo cinema (Giorello 2023), non costruisce un racconto biografico in medias res in cui i protagonisti vengono calati dall’alto e incollati, quasi inconsapevolmente, in una realtà sociale e culturale specifica, come accade spesso nei prodotti di Rai Fiction come Fabrizio De André principe libero (2018), dedicato al cantautore genovese, o Mike (2024), dedicato a Mike Bongiorno, ma crea una narrazione che si posiziona in modo consapevole in un immaginario fatto di soggetti – sia noti come Claudio Cecchetto, Sandy Marton e i Metallica, che legati al loro mondo come Cisco, Lello/uomo ragno e molti altri –, suoni e soprattutto luoghi socioculturali (come il Cantagiro) e fisici (come l’Acquafan di Riccione), mitologici e al contempo immaginifici. La volontà dello showrunner è allora quella di evocare e co-costruire, attraverso suggestioni visivo-spaziali, sensazioni materiche e link intermediali, un intero immaginario in cui i due protagonisti risultano immersi e al contempo spaesati nella continua ricerca di un punto di riferimento (che per loro sarà la musica e la possibilità di inseguire i propri sogni), e che osservano dal punto di vista di una realtà provinciale e periferica come quella di Pavia.
La narrazione è infatti costruita intorno alla dialettica tra il punto di vista personale dei due ragazzi e una realtà sociale e collettiva più ampia, in linea – ancora una volta – sia con la poetica di Sibilia (Giorrello 2023) che con il modello corale della serialità di Sky (Barra, Scaglioni 2013). Il primo aspetto, caratteristico del biopic (Scognamiglio 2019), appare funzionale al secondo, questo nonostante ci sia – come detto – un ricorso abbondante e strutturale a una voice over7 che ritma internamente ogni episodio e garantisce la focalizzazione interna totalizzante. La centralità della dimensione collettiva è un’espansione discorsiva audiovisiva e transmediale della poetica – intesa come accumulo di tratti identificativi e distintivi (Locatelli, Mosconi 2024) – di Pezzali e degli 883,8 e si esprime nella serie attraverso parole, musica, performance e identità mediali, apparendo poi incentrata, come ha notato Jacopo Tomatis (2017), sulla costruzione di una nostalgia della nostalgia di carattere materico e mediale. “L’insistenza sulla componente privata della vita” dei due 883 diventa allora “un elemento decisivo nel processo di costruzione di un’intimità fondata sul principio di identificazione” (Scognamiglio 2019: 15) non solo nei confronti delle loro parabole biografiche, ma anche di un’intera comunità immaginata, ossia quella generazione nata tra gli anni Settanta e Ottanta (fino ai primi Novanta) che si riconosce nel clima culturale delle loro canzoni. Per questa ragione la costruzione cronologica della prima stagione comprime i tempi rispetto alla realtà, trasformando il periodo del disincanto dopo la maturità in quello che diventerà l’anno (anzi, “l’estate”) degli 883, dunque raccontando il primo segmento cronologico della loro ascesa, dalla conoscenza sui banchi di scuola sino al successo di Hanno ucciso l’uomo ragno (1992), il primo dei due dischi firmati Pezzali-Repetto. Seguirà, in chiusura di stagione, un cliffhanger con la diffusione da un registratore del primo master di Come mai (1993), su cui sarà incentrata la seconda stagione, che si scopre essere il primo brano scritto da Pezzali nel pilot, chiudendo così circolarmente la narrazione.
In questa dialettica gli elementi strettamente autobiografici che caratterizzano i brani degli 883 – l’oppressione di Pavia, i pomeriggi alla sala giochi Jolly Blu, le uscite in autogrill, le birre scure, etc. – diventano funzionali alla messa in atto di un ritratto collettivo e generazionale che funziona non solo per il pubblico degli anni Novanta, ma anche per i contemporanei, che possono entrare in contatto matericamente con quel mondo ed empatizzare con una realtà socioculturale che ormai non esiste più. Per questa ragione Sibilia si sofferma più volte sui mezzi di comunicazione dell’epoca, di cui evoca la funzione socioculturale e soprattutto sociologica: il telefono, per esempio, è rappresentato come il medium che garantisce l’accesso all’altro a distanza, unica eccezione di un contesto in cui è invece necessario recarsi a casa della persona interessata – come fa Max con Silvia (Ludovica Barbarito), la ragazza di cui è innamorato – e suonare il campanello. All’interno di questa riflessione meta-mediale e sociale un grande ruolo spetta, come anticipato, alle canzoni.
4 La canzone come dispositivo disvelativo
Rispetto ai prodotti Rai, Netflix o Prime, in cui il territorio di afferenza mediale dei soggetti della biografia è il punto focale verso cui tende tutta la narrazione, in Hanno ucciso l’uomo ragno la dimensione performativa dei cantanti non ha il medesimo ruolo costitutivo che hanno invece le dinamiche personali (familiari, amicali, lavorative, sentimentali) ed emotive. Per questo le canzoni degli 883, fatta eccezione per la sigla Con un deca, che ha una funzione sia introitale che brandizzante (Cardini, Sibilla 2021), arrivano soltanto al termine del quarto episodio, dunque a metà di una stagione equilibrata nel distribuire gli elementi testuali e mediali. Non è infatti neanche paradossalmente necessario che Pezzali canti perché il pubblico si identifichi con la sua vicenda personale e artistica, anzi, è bene che lo faccia soltanto in un secondo momento, quando il suo personaggio è “pronto”, laddove invece il De André di Facchini appare sin da subito ritratto non solo interessato al mondo degli ultimi, ma anche con sottobraccio la chitarra, in una sorta di predestinazione che sembra prevedere il suo futuro di archetipo cantautorale (Locatelli, Mosconi 2024: 23-38).9 Pezzali e Repetto, di contro, non sono predestinati, poiché soltanto l’avvicendarsi degli eventi li porterà a unire i puntini di una sorte a cui non sembravano essere portati, e a inseguire il loro sogno diventando, attraverso una sorta di romanzo di formazione, gli 883, condividendo così una parabola analoga a quella del giovane Albert Einstein del prologo, che a detta di suo padre avrebbe invece soltanto rovinato il nome di famiglia.
Delle canzoni, che sino a quel momento non appaiono neanche nella soundtrack, viene sollecitata la dimensione fisico-corporea, performativa e mediale. La maggior parte di esse sono infatti rappresentate come varianti della performance-concerto (Sibilla 2023: 59-60), ma rilocate in quattro luoghi diversi in climax ascendente tra loro. Il primo è la tavernetta, dove Mauro e Max si trovano a comporre e in cui mettono alla prova riff musicali e versi fino ad arrivare al vestito definitivo noto al pubblico (a cui lo spettatore viene accompagnato gradatamente): questo apparente non-luogo di “concerti privati” è dunque configurato come il territorio della creatività e della libertà, e risulta formalmente opposto alla dispersione/oppressione del paesaggio pavese da cui i due cercano di fuggire. Il secondo è la sala di registrazione, una sorta di proseguimento fisico e materico della tavernetta in cui però, a differenza di essa, Max e Mauro si sentono inadeguati e a disagio poiché non godono della medesima libertà. Il terzo è rappresentato dai palchi fisici in cui si esibiscono, di cui viene ostentato il contrasto tra l’agitazione/incertezza che precede le esibizioni e l’apparente sicumera che emerge da esse guardandole dal punto di vista del pubblico. Il quarto e ultimo sono i palcoscenici mediali, ossia quelle occasioni in cui le canzoni vengono diffuse da dispositivi (elettronici) di riproduzione, tra cui la radio, medium che, grazie alla possibilità di replicare le loro voci, permette al duo di uscire dall’anonimato pavese, o i registratori, che trasmettono le musicassette incise dando una voce materiale alla creazione e al sogno della celebrità. In questo modo la canzone diventa un dispositivo narrativo e culturale disvelativo (Bertoloni 2021) del percorso di crescita del duo, perché consente di creare un ponte tra il loro mondo e il resto del paese.
Se questa modalità di inserzione delle canzoni può essere definita diretta e mediata, se ne osserva in parallelo un’altra traduttiva, intertestuale e intermediale, che sminuzza i testi e li traduce in azioni fisico-diegetiche che nella fiction fungeranno da ispirazione per la loro composizione. In questo modo la serie si distacca sia dal modello dei video album degli 883 (pubblicati in VHS)10 e delle loro performance iper-spettacolarizzate (Sibilla 2023: 58), che incarnano tutte le tre tipologie di videoclip individuate da Di Marino (2018: 45: performativo, concettuale, narrativo), sia dalla costruzione del musicarello post-moderno (Arcagni 2006: 153) Jolly Blu (1998), in cui i brani venivano agiti irrealmente, come performance teatralizzate (Sibilla 2023: 59), dallo stesso Pezzali e dal suo gruppo di amici, per poi essere inseriti forzatamente all’interno di una diegesi piuttosto debole. La scelta di Sibilia è dunque quella di evitare traduzioni intersemiotiche dirette,11 preferendo invece disseminare, in modo naturale e senza soluzione di continuità, i versi che descrivono il mondo dei due cantanti, e attuando così un continuo processo di retroazione rispetto al patrimonio cognitivo del pubblico che gioca sul fatto che le parole si trasformano in situazioni vissute dai protagonisti, i quali a loro volta li faranno diventare i testi che li renderanno famosi. Possiamo osservare questo approccio nella messa in scena esemplificativa della prima canzone inserita, Non me la menare, scritta finzionalmente da Max nel quarto episodio.
Il brano, posizionato a metà stagione, si configura come il turn della serie sia perché porta alla nascita del nome 883, che perché è il primo scritto, condiviso e realizzato dai due in quell’italiano diastraticamente e diafasicamente connotato (De Rosa, Simonetti 2003) che ne garantirà la diffusione.12 L’ispirazione della canzone viene da alcuni incontri tra Max e Silvia (narrati peraltro con un salto tra i due punti di vista), che si sfoga con l’amico sulle difficoltà della propria relazione amorosa. Nei dialoghi tra i due Sibilia inserisce molti segmenti estrapolati dai versi della canzone: “Hai già ordinato due birre scure?” (“A me piacciono le birre scure”, Non me la menare, 1992), chiede Max a Silvia quando arrivano alla sala delle bocce; Silvia poi, nella tavernetta, si sfoga con l’amico sul suo ragazzo e sulla sua compagna, in cui si “parla solo dell’università […], e se provo a farglielo notare lui mi dice che gli faccio fare brutte figure con i suoi amici, che non ci dorme la notte” (“Dici che di notte tu non riesci a dormire / perché io ti faccio fare brutte figure / […] che non son capace neanche di parlare / di quegli argomenti da laureati / di cui parlan sempre tutti i tuoi amici sfigati”); poi conclude incalzando: “Non me la menare per come parlo, per come mi vesto e per come mangio la pizza […]. Non me la menare!!” (“Non me la menare / non capisco cosa vuoi / […] perché non ti parlo di tramonti lontani / e mangio la pizza solo con le mani”). Come si può notare, nelle sequenze dialogiche non c’è una trasposizione didascalica, ma i segmenti verbali – tutti riconoscibili, in particolare il verso del ritornello che dà anche il titolo al brano – sono inseriti nella sceneggiatura senza soluzione di continuità. Durante l’ultimo dialogo, inoltre, viene montato nella soundtrack il riff musicale del brano per garantire il riconoscimento presso l’ascoltatore a cui è noto, e per sottolineare linguisticamente e musicalmente l’epifania di Pezzali. Seguono poi alcune sequenze in cui i due cantanti predispongono il ritmo con il rullante, campionano alcuni suoni di chitarre elettriche e poi li inseriscono nella base su cui iniziano a cantare le parole. Una volta incisa, la canzone viene ascoltata direttamente dalla cassetta su un registratore, segni tangibili della materialità della cultura mediale (e non) degli anni Novanta13 che contrastano con l’algoritmicità ontologicamente a-materica del paesaggio mediale contemporaneo. L’episodio infine si chiude con l’inserimento nella soundtrack della traccia originale dei veri 883, che dunque si pone in contiguità con quella incisa dai due attori, interpretata (così come tutte le altre canzoni) con quel travestimento vocale mimetico che caratterizza, in generale, i biopic musicali pop contemporanei (Bertoloni 2022b).
Sulla trasposizione delle canzoni notiamo, infine, un certo grado di scollamento tra la dimensione sonora e quella visiva, dal momento che risultano eversivamente efficaci anche senza che i performer ne siano riconosciuti come gli interpreti. Questo scollamento, che si dà nelle tante riproduzioni mediali anonime dei brani (alla radio) o nella sovraesposizione della dimensione privata della composizione e della registrazione, si attesta tendenzialmente fino al settimo episodio, quando irrompe la performance-concerto vera (anche se a una trasmissione desueta come il Cantagiro). La stessa assenza dell’immagine ha una valenza duplice su un piano socioculturale: da un lato garantisce infatti alle canzoni un percorso autonomo, senza che il ritratto di due “sfigati” possa condizionarne il successo, ma dall’altro è rappresentata da Sibilia come un problema per i giovani cantanti, dal momento che negli anni Novanta, se non è noto il loro aspetto fisico, nessuno li può riconoscere anche se i loro pezzi scalano le classifiche. La canzone non basta dunque a sé stessa, ma appare come un “altro” discorsivo e mediale di un soggetto enunciatore (il brand 883) che regge un ecosistema narrativo di cui è necessario fruire anche della dimensione visiva e performativa a livello transmediale per poterlo afferrare nella sua interezza.
5 La serie nell’ecosistema transmediale-883
Negli studi narratologici sul panorama mediale contemporaneo si definiscono ecosistemi narrativi quelle narrazioni “pervasive e complesse estese nello spazio e nel tempo e prodotte da istanze narrative anche molto diverse (incluse quelle degli utenti stessi)”, che “includono necessariamente una quantità di oggetti testuali quasi impossibili da catalogare” (Pescatore 2018: 20). Queste forme di racconto affollano anche il panorama musicale, anche se si presentano con un grado di complessità decisamente ridotto: tuttavia, non mancano né le relazioni ecologiche tra istanze narrative diverse, né il ricorso a svariate tipologie di oggetti spesso “derubricati a testualità secondaria scarsamente rilevante” (Menarini 2024: 145). L’universo narrativo creato da Pezzali e Repetto ha, in questi termini, i caratteri di un mondo in cui, come ha notato Vanni Codeluppi (2020: 20) a proposito di Ligabue, gli autori “creano delle canzoni, ma producono anche un complesso flusso di comunicazione che comprende diversi messaggi (interviste, testi promozionali, fotografie, videoclip, etc.), utilizzano molteplici media, e alla fine riescono a dar vita a un loro mondo immaginario”. Questo approccio transmediale e narratologico nei confronti degli universi musicali è così descritto da Sibilla (2024: 29).
L’idea stessa di racconto unisce una struttura (quali sono gli elementi di una storia e come lavorano assieme per costruire un significato?) e una condivisione (a chi e come viene raccontata una storia?). Il racconto è sia testo che contesto, è una forma di organizzazione di informazioni e di un sapere, e uno strumento che crea relazioni […]. Nel pop, l’approccio narratologico aiuta quindi a comprendere la complessità del sistema produttivo e comunicativo: il modo in cui le canzoni vengono realizzate, diffuse e consumate su palchi, media e piattaforme, e il modo in cui l’artista viene rappresentato come un personaggio attraverso le pratiche comunicative dell’industria musicale e dei media.
Nel caso degli 883 e di Pezzali, che ne ha portato il marchio in solitaria fino al 2003, Hanno ucciso l’uomo ragno si inserisce consapevolmente in questo universo transmediale costellato sin dagli anni Novanta di “merchandising, video, magliette, decalcomanie” (Berselli 1999: 174) e molto altro, compresi diversi “oggetti” che si trasformeranno negli anni Venti del Duemila in personaggi attraverso una serie di traduzioni materiche e transmediali. Si pensi, per esempio, all’Arbre Magique con cui si apre l’iconica Sei un mito (1993), “correlativo oggettivo piccolo borghese” e icona pop degli anni Ottanta che Pezzali rifunzionalizza come “emblema potentemente significativo” (De Rosa, Simonetti 2003: 123-124), che nei live del 2023-2024 diventa prima un personaggio animato che si muove sulle note del brano sullo schermo nel content video concert animato (Auslander 2021) del tour, poi un performer reale che balla insieme a Pezzali sul palco di San Siro, e infine un personaggio del ciclo di comics book Max Forever All Stars, che il cantautore dà alle stampe tra il 2023 e il 2024.
Gli elementi che legano la serie all’universo transmediale degli 883 sono dunque due: il ricorso a personaggi, situazioni e vicende narrate nei brani, e l’uso di immagini e suoni di repertorio del duo, che dialogano con le immagini finzionali. Per quanto concerne il primo, oltre alla rifunzionalizzazione e alla rilocazione agita dei versi delle canzoni si osservano molti altri riferimenti all’immaginario 883, a partire dalla presenza di oggetti come lo stesso Arbre Magique, citato nei primi dieci minuti del pilot dal padre di Pezzali che decide di andare a comprarne uno per profumare il furgoncino appena acquistato. In questo modo i conoscitori del repertorio degli 883 attivano una serie di link intertestuali alle canzoni e al loro immaginario che facilitano sia l’immersione nella serie che quel meccanismo di “ritrovamento” (Eco 1985: 120) che caratterizza ogni forma di serialità (anche ante litteram). Questi “ritrovamenti” nella serie sono molteplici e polimorfi, e assumono un carattere cosale (come nel caso dell’Arbre Magique), situazionale (come nelle conversazioni che hanno portato a Non me la menare), topologico-geografico (come nella storia della sala giochi Jolly Blu), umano (come i personaggi di Cisco, protagonista di tanti brani degli 883, o di Lello, che fungerà da ispirazione per il brano Hanno ucciso l’uomo ragno) o sociale (è il caso della noia di Pavia, cantata per esempio in Con un deca). Inoltre coinvolgono sia brani molto noti, come i tanti citati, che altri più sconosciuti, come Il problema, escluso dal master definitivo del disco del 1992 ma inserito come demo nel 2000 nell’edizione allargata dello stesso album. Questo brano è scelto da Sibilia sia per rispetto filologico nei confronti del processo di composizione di tutto il disco, che perché il testo è una sorta di versione protostorica di Con un deca, dal momento che tocca le medesime tematiche dell’insoddisfazione e dell’insofferenza per il territorio pavese, evocato anche in questo caso – come Pezzali farà spesso – con una scarsità di “designatori referenziali rigidi” (Tanca 2020: 209), fatta eccezione per quelli che rimandano al piccolo microcosmo sociale, in modo che Pavia possa rappresentare non solo sé stessa, ma anche una qualunque altra città opprimente di provincia. In generale, lo showrunner seleziona i segmenti dei brani funzionali a esprimere il disagio dei protagonisti o a creare specifici link intertestuali con la diegesi o con l’immaginario degli 883, poi li nasconde qua e là in tutti gli episodi a partire dal pilot, che ha la funzione di attirare il pubblico.
Per quanto concerne il piano visivo, Sibilia opta come già accennato per un approccio mimetico-filologico evidente già nella sigla, in cui sono montate immagini di repertorio di Pezzali e Repetto insieme a sequenze che ritraggono la Pavia dei primi anni Novanta. In questo modo si crea da subito una contiguità spaziale, fisica e concettuale tra i corpi dei due performer e quelli degli attori che li impersoneranno nella finzione indossando i medesimi abiti, ricreati a partire dalle molte sequenze d’epoca impresse nel panorama mediale. I due ordini di immagini arrivano anche ad affiancarsi: nel terzo episodio, al termine della prima performance-concerto del duo (quando ancora erano I Pop), viene infatti inserito il video della performance trasmessa su Italia Uno, perfettamente sovrapponibile alla sua traduzione finzionale sia per gli abiti dei personaggi che per l’ambientazione e soprattutto per i tagli di inquadratura. In questo modo si esplicita presso lo spettatore quella relazione intertestuale tra i segmenti audiovisivi delle performance degli 883 e la scelta di ricrearli in modo coerente. Questa strategia è poi evidente, negli ultimi due episodi, nella scelta di inserire diversi schermi in cui vengono proiettate immagini d’epoca che annunciano le partecipazioni televisive degli 883 e le vittorie di alcuni premi. In questo modo viene sollecitata una memoria condivisa da parte del pubblico di carattere intermediale, e nello stesso tempo si contribuisce a ricrearla attraverso il dispositivo seriale audiovisivo che rende attuali i filmati del passato, i quali vengono così visionati su YouTube dagli spettatori della serie, come dimostrano i tanti commenti sotto i video degli 883 del 1991-1992 che risalgono a ottobre, novembre e dicembre 2024.
Hanno ucciso l’uomo ragno in questo modo, riscrivendo in termini transmediali, audiovisivi e seriali il racconto degli 883, dà una nuova centralità alla figura di Mauro Repetto, e in generale recupera la funzione costitutiva degli elementi visivi e performativi che negli anni successivi era venuta meno per via della forza eversiva delle sole canzoni, ma che all’epoca aveva contribuito in modo significativo a forgiare la specifica identità culturale e transmediale del brand (e dopo del solo Pezzali).
6 Conclusioni. Un’epopea mediale tra mito e normalità
Da quanto abbiamo osservato, la prima stagione di Hanno ucciso l’uomo ragno (2024-) si configura per un sapiente uso della struttura seriale e per una strumentalizzazione dei caratteri fondanti del biopic contemporaneo e delle forme di narrativizzazione delle celebrità, in modo da offrire una forma di riconfigurazione audiovisiva e transmediale dell’immaginario degli 883 attraverso il posizionamento degli esordi della loro vicenda musicale, estetica e artistica in una dialettica antinomica tra la sfera personale/privata e quella pubblica che fa collassare il regime rappresentazionale con quello presentazionale (Marshall 2010). Il worldbuilding, infatti, non si limita a riprendere alcuni elementi caratteristici del cinema di Sibilia, come la centralità di figure “a lato di tutto […], personaggi che camminano sul filo del surreale, sognatori che credono nella loro visione del mondo, determinati ma al tempo stesso incredibilmente naif” (Giorello 2023), ma li adatta a una logica di costruzione di un’identità mediale complessa – sonora, visiva, materiale e culturale – di cui vengono sollecitate dimensioni diverse: la realizzazione delle canzoni (dall’ideazione sino alla diffusione e alla rappresentazione dal vivo), che si danno come un medium di codificazione, ricostruzione narrativa e condivisione di un’esperienza personale e autobiografica; la costruzione di un’identità performativa e spettacolare, evidente – in particolare – nelle sottolineature della funzione coreografica di Repetto durante i concerti; la presentazione della graduale acquisizione della notorietà, che trasformerà il loro anonimato in uno status da celebrità; la messa in scena di una vita di provincia di fine anni Ottanta, fatta di telefonate, motorini, gettoni, discoteche, radio e sale giochi, elementi materiali potenzialmente condivisibili da tutta la loro generazione.
In queste dimensioni si osserva un continuo rispecchiamento tra un afflato individuale e sociale, nonché tra la consapevolezza che Pezzali-Repetto hanno di essere figure “normali” (e laterali rispetto allo star system), e l’incoscienza (o innocenza) di diventare, inconsapevolmente, i nodi focali ed espansivi di un immaginario intergenerazionale. Come abbiamo visto questo immaginario funziona prima di tutto per gli spettatori che sanno a memoria i testi delle canzoni, e che colgono tutti i rimandi intertestuali in potenza, ma anche per coloro che non li conoscono, i quali anzi potranno godere della loro costruzione work in progress immergendosi nel clima di collettività amicale e nella cultura materiale e mediale di un’epoca fatta di elementi fisici e poco di digitale. In questo modo la serie, tramite l’applicazione di un filtro-nostalgia che assume contorni intergenerazionali e trasversali, restituisce quel “senso vivo di autenticità” (Locatelli, Mosconi 2024: 12) che in Italia caratterizza il costrutto culturale della canzone d’autore (una canzone che “suona vera e viene percepita come tale [anche laddove non lo è] contro l’alienazione e la finzione”, Savonardo 2017:61),14 e che appare fortemente radicato sia nella narrativizzazione mediale delle celebrità, come hanno dimostrato i celebrity studies (Frannsen 2019), che più in generale nella popular music (Middleton 2006).
Le canzoni degli 883, che all’epoca dell’uscita apparivano come prodotti costruiti ad hoc e studiati a tavolino dal produttore Cecchetto, sono invece rappresentate – insieme alla loro realizzazione e alla loro condivisione – come una risposta culturale naturale a un determinato ambiente e a uno specifico momento, dunque come autentica espressione dei loro autori e interpreti, facendo così eco a un’intuizione già di Berselli (1999: 174) secondo cui questi brani erano caratterizzati da “un’inquietudine costruita certamente con gli strumenti e gli oggetti dell’industria culturale, ma in fondo, per un qualche prodigio chissà quanto involontario, tutt’altro che inautentica”. La serie dimostra allora come la canzone in Italia, per poter funzionare sul piano comunicativo, debba parlare (Bassetti 1990) di quello che gli artisti fanno e che vivono davvero, pena l’infrazione del patto di sincerità che la caratterizza, nel nostro paese, come costrutto culturale e oggetto mediale, e nello stesso tempo debba costruire un’autenticità polisemica che può giocare in termini diversi con il grado di commercialità dei prodotti. Se infatti le canzoni dei cantautori degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta dovevano apparire autentiche nel loro non essere commerciali, con la rivoluzione del pop degli anni Ottanta l’autenticità può essere ricostruita anche in prodotti che inseguono meramente le tendenze commerciali del momento: in entrambi i casi, l’antinomia tra commercialità e autenticità si configura come un costrutto culturale (Marino, Tomatis 2020) che permette di stabilire un rapporto di fiducia tra gli artisti e il loro pubblico che giova al loro statuto, e che nel nostro caso la serie di Sibilia è stata capace di ricostruire in un contesto mediale completamente diverso, alimentando però logiche analoghe a quelle attive per il duo negli anni Novanta.
Possiamo allora notare, in conclusione, come la serie alimenti la narrazione tutta italiana di una canzone che deve necessariamente configurarsi come autentica, rappresentando il duo Pezzali-Repetto come un’entità cantautorale a dispetto della loro esclusione dai canoni della canzone d’autore nazionale (Talanca 2017), e contribuendo alla costruzione di una celebrity presentazionale che fa della sovraesposizione mediale della normalità la sua cifra identitaria (Meyers 2009). Nello stesso tempo, il prodotto si presenta come un’occasione privilegiata di messa alla prova di un format biografico-seriale di ambito musicale che “attraversa più media” creando una “narrazione unificante” dai “tratti identitari distintivi”, la quale si propone di allargare, dopo averlo intercettato, un fandom già consolidato, ampliandosi alle nuove generazioni nei termini di una “comunità di gusto” (Barra, Scaglioni 2013: 12). Il formato audiovisivo e seriale giova dunque all’immagine degli 883, restituendo quell’aura finzionale di autenticità intorno a cui loro stessi avevano costruito la loro notorietà nei primi anni Novanta, ma riposizionandola in un contesto mediale in cui il ricorso al filtro nostalgico non attira soltanto le generazioni passate, ma funziona come trasmettitore culturale verso le generazioni del presente, rinvigorendo (e contribuendo a costruire) il mito del brand e degli anni Novanta. Hanno ucciso l’uomo ragno è allora un esercizio di normalizzazione che si dà sia nella costruzione di un continuum formato da diversi elementi dell’immaginario inseriti senza soluzione di continuità,15 sia nel delineare la parabola biografica di un artista musicale – Max Pezzali – che è presentato e costruito pubblicamente come “uno qualunque” anche una volta raggiunta la celebrità. In questo modo inscena ossimoricamente un’epopea della normalità che tuttavia, nel suo dispiegarsi in modo eccezionale grazie a una serie di circostanze, è stata capace di costruire un immaginario che i media – in particolare quelli audiovisivi – possono continuare a raccontare, condividere, riconfigurare e alimentare.
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Un giovamento che si misura per Pezzali nei sold out e nella realizzazione di nuovi dischi e prodotti di merchandising che lo trasfigurano in icona comics (come le action figure), e per Repetto in una più generale riscoperta della sua figura, la quale non solo gode di una rinnovata popolarità che gli ha consentito di riempire le date del tour teatrale Alla ricerca dell’uomo ragno (2024-25), ma lo ha anche messo al centro di alcune controversie, come quella della consegna della benemerenza civica della città di Pavia nel dicembre 2024, che ha avuto un certo richiamo nazionale.↩︎
Sul rapporto tra musicisti e mediatizzazione in Italia si vedano almeno Bratus et al. 2019 e Locatelli, Mosconi 2021, 2024. Sul tema della mediatizzazione in generale si rimanda invece a Hepp, Krotz 2014.↩︎
Sul ruolo autoriale dello showrunner si veda Barra, Guarnaccia 2018.↩︎
Sulla vicenda dei fratelli Frattasio si veda Frasca 2023.↩︎
Per una contestualizzazione del modello Sky nel panorama cinematografico, televisivo e mediale italiano si vedano Rossini 2016, Cucco, Manzoli 2017, e Barra, Brembilla, Innocenti 2024.↩︎
Un esempio è il personaggio di Silvia, in cui vanno a convergere diverse figure citate da Pezzali nelle autobiografie.↩︎
Oltre a quella di Pezzali, nell’episodio 4 si osserva anche qualche breve intervento della voice over di Mauro e di Silvia (uniche eccezioni alla focalizzazione totalizzante insieme ad alcune sequenze dedicate a Cecchetto), che inscenano il loro punto di vista su segmenti diegetici già presentati attraverso lo sguardo di Max.↩︎
Lo stesso Sibilia ha affermato che il punto di partenza per il worldbuilding sono stati, più che le autobiografie, proprio i testi delle canzoni degli 883 https://tg24.sky.it/spettacolo/serie-tv/2024/10/07/hanno-ucciso-l-uomo-ragno-serie-tv-883 (ultimo accesso: 10/01/2025).↩︎
Simile la modalità di narrazione di altri prodotti targati Rai Fiction come Champagne – Peppino Di Capri (C. Torrini, 2025), che sfrutta il fatto che Peppino Di Capri era un musicista sin da bambino per costruire una diegesi incentrata sulla predestinazione.↩︎
Nord sud oves est Video LP (1993), La donna, il sogno & gli altri video (1995), La dura legge del gol! Video LP (1995), Gli anni Video LP (1998).↩︎
Evidenti nell’approccio traduttivo-didascalico di film come Questo piccolo grande amore (R. Donna, 2009), in cui i versi della titletrack del disco di Baglioni diventavano battute della sceneggiatura recitate in modo stucchevole dai protagonisti (Bertoloni 2020).↩︎
Repetto, a questo proposito, infatti dice a Pezzali: “Ma perché dobbiamo far finta di essere qualcosa che non siamo? Noi dobbiamo cantare come parliamo, e noi parliamo così”.↩︎
Rafforzata dal fatto che il nome stesso 883, come racconta Pezzali nelle sue autobiografie, è giustificato dal fatto che sull’etichetta c’è poco spazio dopo il titolo, e dunque serve che sia particolarmente breve.↩︎
Per una riflessione sociologica di maggior respiro sul rapporto tra distinzione, dinamiche di fruizione, testi e soggetti della canzone d’autore italiana si vedano almeno Santoro 2010 e Tomatis 2021.↩︎
Si pensi al turpiloquio abbondantemente impiegato nelle canzoni (De Rosa, Simonetti 2003), che nella serie viene riconfigurato e messo in bocca in modo spontaneo e naturale a tutti i protagonisti, rappresentando una costruzione il più possibile mimetica del linguaggio dell’epoca (che i linguisti definiscono italiano [regionale] dell’uso medio, seppur presentato con elementi diastraticamente più bassi, Sabatini 1985).↩︎