Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.26 (2024), 207–209
ISSN 2280-9481

L’altrove del queer. XIV edizione del Sicilia Queer filmfest

Denis PreviteraUniversity di Torino (Italy)

Pubblicato: 2024-12-19

Anche quest’anno si è concluso il Sicilia Queer filmfest, noto festival cinematografico di Palermo giunto alla sua quattordicesima edizione. Evento che, nomen omen, fin dal nome pone al centro il concetto di queer, parola che – risaputo, ma propedeutico ricordarlo – deriva dal latino torquere e dal tedesco quer, diagonale, trasversale. È il “fuori norma”, che richiama la volontà di mettere in discussione l’idea stessa di norma, di canone, contrastando il fondazionalismo e ragionando su come le opposizioni binarie siano difficili da mantenere. Si genera così una politica che intende attuare un ripensamento di ciò che è considerato “normale” o “naturale”, evidenziando il loro essere dei costrutti tutt’altro che immutabili. Ed è proprio alla luce di queste considerazioni che il festival diretto da Andrea Inzerillo appare come un fenomeno prezioso e pionieristico nel panorama festivaliero italiano.

Prezioso, non solo per il lavoro di ricerca curioso e attento – e, potremmo aggiungere, sentimentalmente sentito – svolto dal comitato di selezione, ma anche e soprattutto per la volontà di non presentarsi come un festival in cui il concetto di queer si esaurisce in un punto di vista soltanto tematico-contenutistico. Ciò non significa, sia ben chiaro, che non ci sia anche un’attenzione nei confronti di storie e personaggi che rimandano all’universo LGBTQ+, ma che a essere queer è in primo luogo la forma delle opere selezionate, i loro aspetti testuali, teorici e strutturali. Queer, d’altronde, significa interrogarsi.

Pionieristico, poiché la propensione a pensare e applicare il concetto di queer alla forma sembra intercettare un aspetto fondamentale del cinema contemporaneo, e in particolare per quello che – partendo dalla “condizione postmediale” di Ruggero Eugeni ed evolvendo dall’idea di “cinema due” postulata da Francesco Casetti – si potrebbe definire cinema postmediale. Un cinema che, forte della definitiva assimilazione con i media circostanti, rivendica la necessità di un superamento e di una ristrutturazione delle categorie teoriche tradizionali, attuando un abbattimento dei confini semantici e rifiutando di abbracciare un’identità specifica, unica, ben definita, favorendo opere libere da incasellamenti.

Ne è un esempio Mamántula (2023) di Ion de Sosa, dove un serial killer miete le sue vittime praticando sesso orale, mentre è braccato da due detective, in un film costruito attorno a un gioco di sovrapposizioni e di doppi, opposti e contraddizioni. I personaggi possono parlare spagnolo nonostante l’ambientazione sia Berlino, gli squartamenti possono essere uniti al sesso, l’horror all’erotico e alla fantascienza, i serial killer ai ragni alieni, le riprese dal vivo a quelle interamente realizzate in computer grafica. Così come il vincitore del Premio miglior lungometraggio per la giuria internazionale, El Polvo (2023) di Nicolás Torchinsky, che richiama l’idea della tanatologia queer per mostrare lo svuotamento della casa da parte del regista dell’appartamento di sua zia – una drag performer – in seguito alla sua morte, tentando di tracciarne l’identità tramite gli oggetti trovati. O ancora Invisible People (2024) di Alisa Berger, che unisce la danza giapponese Butō e racconti su uno dei suoi fondatori, Kazuo Ōno, a eventi riguardanti la vita personale della regista, tra cui la morte del padre. Film che esibisce una serie di linguaggi e tecniche cinematografiche molto differenti tra loro, giustapposte senza soluzioni di continuità: da presentazioni frontali dei soggetti (tipiche del documentario) a massicce manipolazioni dell’immagine digitale (tipiche del cinema sperimentale).

L’opposizione tra omosessualità ed eterosessualità, o tra maschile e femminile, lascia così il passo a binarmisi prettamente cinematografici, quale ad esempio il confine tra cinema del reale e di finzione. In questo senso, Ludendo Docet (2024) di Luca Ferri si presenta come un happening – termine usato dalle marionette nei minuti iniziali – in cui i confini tra ciò che è scritto, preparato, e ciò che è invece improvvisato, casuale, non sono ben chiari. Come non bastasse, lo stesso lungo piano sequenza che mostra il critico Domenico Monetti mangiare ostriche e champagne mentre risponde alle domande estratte è inframezzato, in una manciata di momenti, da un controcampo che mostra scene recitate da un improbabile pubblico. Le vrai du faux (2023) di Armel Hostiou, vincitore del premio del pubblico, racconta la ricerca da parte del regista della persona proveniente (forse) dal Kinshasa che gli ha rubato l’identità sui social; e nel farlo costruisce un tessuto narrativo che contrappone vero e falso, originale e imitazione (un cane che si chiama Macron e un altro Trump; una sala giochi chiamata Facebook): c’è ciò che è e c’è ciò che sembra. Un apparente documentario che si costruisce sulle premesse del noir, con una voice over introduce una storia ambientata in un passato dove è avvenuto un furto d’identità. Non per ultimo, Le belle estati (2023) di Mauro Santini, premio della giuria Circuito Festival, realizzato con gli studenti e le studentesse del Liceo Artistico F. Mengaroni di Pesaro. Film in cui gli adolescenti leggono e mettono in scena due opere di Cesare Pavese, La bella estate e Il diavolo sulle colline, creando un meccanismo di sovrapposizione tra personaggi dei romanzi e persone reali, tra esperienze e vissuto dei personaggi e degli studenti, con una definitiva (con)fusione tra finzione e realtà. L’importanza conferita alla letteratura (e alla lettura) nel bellissimo film di Santini ci conduce a colui a cui è dedicata la sezione “Presenze”. Dopo aver invitato Laura Citarella l’anno precedente, il Sicilia Queer torna nelle zone limitrofe al collettivo argentino El Pampero Cine, dedicando una retrospettiva integrale a Matías Piñeiro – da El hombre robado (2007) all’ultimo Tú me abrasas (2024) –, in cui i confini tra cinema e letteratura, tra rappresentato e rappresentante, tra i sentimenti provati dagli uni e dagli altri, sono costantemente messi in discussione attraverso i testi di Sarmiento, Shakespeare, Saffo e (di nuovo) Pavese.

Ma il festival e il suo lavoro sul concetto di queer non riguardano soltanto i film, bensì anche ciò che compone l’evento, gli aspetti trasversali. A partire dal luogo deputato, i Cantieri Culturali alla Zisa, crocevia di volti, età, interessi eterogenei, di porte e strutture che a distanza di pochi passi possono ospitare un cinema, un’università, un ristorante e un’esposizione fotografica di Letizia Battaglia; o laddove, in lontananza, oltre i confini dei cantieri, è possibile vedere un appartamento illuminato dalla luce di un proiettore. Fino ad arrivare al trailer diretto da Beatrice Gibson e Nick Gordon, dalla lunghezza inusuale, “fuori norma”, che proiettato prima di ogni proiezione incentiva una sorta di ritualità. Questa è la magia del cinema, dove “cinema” diventa sinonimo di condivisione, confronto, di linguaggi ed esperienze differenti. Ecco allora che “cinema” diventa (anche) l’attesa della proiezione delle 16.00 sotto il sole cocente della Sicilia di fine maggio, e la birra artigianale agli agrumi e sale bevuta di fronte alla sala tra le pause. È la ballroom che apre il festival e lo spettacolo drag che lo chiude. È l’incontro con Pascal Cervo dopo Bonjour la langue (2023) di Paul Vecchiali e con Stefania Casini prima di Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!! (Blood for Dracula, 1974) di Paul Morrissey, in una copia 35 millimetri dai forti toni magenta causati dalla sindrome dell’aceto. È il confessionale dotato di microfono e registratore per permettere al pubblico di lasciare un qualsiasi pensiero anonimo, e i membri della giuria che discutono nel tavolo accanto davanti a un calice di vino. Sono le conoscenze, le nuove amicizie e le discussioni che si creano ai tavoli. Tutto questo è cinema e tutto questo è il Sicilia Queer filmfest.