Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.26 (2024), 199–200
ISSN 2280-9481

Dall’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia Vermiglio, un colore

Alberto BrodescoUniversity of Trento (Italy)

Ricevuto: 2024-11-26 – Pubblicato: 2024-12-19

“Figlio bianco e vermiglio, / figlio senza simiglio, / figlio e a ccui m’apiglio?”; “L’albero a cui tendevi / la pargoletta mano, / il verde melograno / da’ bei vermigli fior”. “Vermiglio” è una parola che ha una certa risonanza nelle antologie scolastiche italiane. Vermiglio è anche il nome di un paese nell’alta Val di Sole, in Trentino, che dà il titolo al film di Maura Delpero che ha vinto il Leone d’argento all’81esima mostra del cinema di Venezia.

Di vermiglio (il colore) c’è poco nella fotografia del film, diretta in modo magnifico da Mikhaïl Krichman. Vermiglio è un film bianco (la nave, il latte, le galline, il vestito da sposa), verde (i prati), grigio (gli abiti, gli interni, il manto degli animali), blu (il cielo, alcuni indumenti). È un film color legno, del colore delle materie di cui è costituito. Il rispetto per il profilmico, la precisione antropologica, la fedeltà nella ricostruzione storica degli ambienti ha pochi equivalenti nel recente cinema in costume italiano. La parola “vermiglio” (“vermigli”) la si sente però pronunciare, quando viene recitato Pianto antico. Il film racconta un ambiente montano che vive di un’economia di sussistenza. La morte infantile è nell’ordine delle cose. La poesia di Carducci descrive una tragedia cui gli abitanti di quelle montagne sono pronti. Quelle parole non sono solo retorica scolastica, ma entrano in risonanza con vite che sono in balia del tempo, del ritmo delle stagioni, della salute delle vacche, della generosità dei raccolti, di tutto ciò che va sotto il nome di Provvidenza.

Quel paesaggio meraviglioso, quei colori segantiniani nascondono una trappola, ovattata e confortevole ma puranche stretta e coercitiva: la pluriclasse, i letti condivisi, le camere in cui si dorme in cinque, la promiscuità tra esseri umani e animali. Il patriarcato è un’altra di queste trappole, forse la più crudele, un sistema di potere indiscusso, davvero impossibile da mettere in discussione. Fa parte del mondo come se fosse natura. In esso si può trovare il tipo di consolazione masochista che nasce dalla sudditanza. Nei dialoghi, le donne manifestano il loro bisogno di protezione e tutela. Per la moglie che perde il marito la vita è finita. La bambina, al sovvenire del menarca, sente il dovere di renderne conto al padre di famiglia prima di ogni altra persona. Si produce un solo gesto di ribellione dichiarato, da parte della moglie del patriarca, subito dopo l’ennesimo parto. L’uomo minimizza, si rassicura, lo giustifica come delirio transitorio dovuto alle alterazioni del corpo nel post-partum.

Di fronte alla paralisi ideologica costituita dal patriarcato, anche qui in montagna il corpo femminile dà autonomi segnali o sintomi di scompenso o ribellione, come le tarantate del Salento, come le isteriche di Charcot. Il corpo femminile è pronto ad offrirsi al “foresto” (il renitente alla leva siciliano); va in cerca di stimoli erotici ma anche di castighi e auto-fustigazioni; trova finalmente nella stalla una stanza per sé, dove poter fumare e confidarsi. La ragazza che più soffre sotto la spinta del desiderio erotico paradossalmente, o forse no, finirà in convento. Un’altra, destino storico comune per molti trentini, emigrerà in Cile.

Per gli abitanti di Vermiglio, le fonti, persino i linguaggi che hanno a disposizione per immaginarsi altrove, sono davvero limitate, e provengono per lo più dalla scuola e in particolare, come già accennato, dalla letteratura scolastica: “Eran trecento, / Eran giovani e forti, / E sono morti”; “Per un attimo fui nel mio villaggio, / nella mia casa. Nulla era mutato. / Stanco tornavo, come da un viaggio”; “Langue l’huom, langue ’l gregge, ed arde il pino”. Patriottismo italico, poeti laureati, padri della nazione, sentimenti semplici e familiari, quanto basta di bucolico… La scuola viene caricata dai personaggi di Vermiglio di un investimento emotivo enorme: l’unico modo per andarsene è eccellere (non semplicemente essere bravi) negli studi. “La scuola ci insegna i nostri limiti”, dice il padre e maestro di scuola. A una sola delle sorelle è riservato il destino di essere “mandata avanti”, come si dice in famiglia, ovvero a studiare a Trento.

Le fonti musicali sono invece una passione personale del pater familias, che ascolta e fa ascoltare Chopin e Vivaldi, “cibo per lo spirito”, al costo di privarsi del cibo per il corpo. Il grammofono, insieme alle armi e a qualche automezzo, è forse l’unico oggetto moderno che si vede nel film. Le quattro stagioni di Vivaldi entrano in risonanza autentica tanto con il ritmo del film quanto con le cadenze di vita delle genti delle Alpi. In quella musica barocca e apparentemente lontana, ma anche nei sonetti scritti da Vivaldi, quel popolo riconosce il potere condizionante che il succedersi delle stagioni ha sulla loro quotidianità – cosa si può mangiare, dove ci si può muovere.

Ho rivisto il film in sala a Trento, in una proiezione pomeridiana, in mezzo a una folta platea di anziani, per lo più molto anziani, per lo più donne che vedono il film con le amiche. Telefoni che squillano e a cui si risponde, commenti ininterrotti, letture a voce alta dei sottotitoli… Quando un personaggio nel film recita: “Eran trecento / Eran giovani e forti...”, si leva spontanea dalla sala un’automatica risposta collettiva: “E sono morti!”. Si percepisce (e si ascolta…) una condivisione totale dell’effet du réel del film, ma anche una sicura presa di distanza da “quei tempi” in cui comandavano gli uomini, si viveva di stenti e gli infanti morivano. Il rifiuto di ogni impulso nostalgico anche per un pubblico di persone che avrebbe potuto indugiare in questo sentimento è un altro grande risultato ottenuto da Maura Delpero. Si leva inoltre subito una sensibilità femminista, la percezione della tremenda stortura patriarcale della società di allora. Nei commenti durante e dopo la proiezione, il mondo della Seconda guerra mondiale viene paragonato a quello di adesso. I passi in avanti vengono riconosciuti, ma il presente non ne esce assolto. Questa platea di anziane trentine non ha interpretato il film (solo) come un film su “’sti ani”, ma anche sull’oggi. Delpero è riuscita a parlare a tre generazioni. È un’altra qualità del film, che mentre racconta di isolamento in una valle lontana e del Trentino pre-moderno apre nuovi squarci e orizzonti, in linea con una tradizione di cinema profondamente radicato e di conseguenza, così capita spesso, profondamente universale.