Dal 28 giugno al 7 luglio 2024 si è svolta la cinquantaduesima edizione del FEMA, il festival del cinema di La Rochelle, un festival “storico” caratterizzato dall'assenza di concorsi e dalla presentazione di diverse retrospettive dedicate a registi e attori, così da proporre tanto film del patrimonio cinematografico quanto opere di cineasti contemporanei e anteprime, promuovendo tutta una serie di iniziative (incontri e animazioni di vario tipo, anche extra o peri-cinematografiche) finalizzate a coinvolgere un pubblico vasto e di tutte le età (notevole la sezione dedicata ai bambini o le iniziative coinvolgenti i ragazzi delle scuole medie e i liceali, nonché gli studenti universitari) e a mescolare gli spettatori ordinari ai diversi specialisti e cineasti che hanno accompagnato le proiezioni o partecipato a incontri e tavole rotonde.
Quest'anno, tra i duecento film proiettati, hanno occupato gli schermi le retrospettive dedicate a Chantal Akerman, Michael Haneke, Marcel Pagnol e Nathalie Wood, gli omaggi all'attrice Françoise Fabian, ad Abel Gance e al giovane regista argentino Benjamin Naishtat, a cui si è aggiunta una giornata Daniel Day Lewis. Nell'impossibilità evidente di trattare il programma nella sua totalità, il rilancio di Abel Gance e Marcel Pagnol (e in certa misura Chantal Akerman) dimostrano la volontà della manifestazione di valorizzare il film heritage anche presso un pubblico – numeroso – di non specialisti, in parte locale, che ha riempito le sale apprezzando le condizioni ottimali in cui i film sono stati presentati.
Vale allora la pena di menzionare le proiezioni di due grandi film di Abel Gance in copie di una bellezza davvero straordinaria: J'accuse (Per la patria, 1919) e il film evento Napoléon vu par Abel Gance (1927). Il primo, nelle sue linee essenziali, dopo oltre un secolo tocca ancora, come hanno dimostrato i commenti degli spettatori, la nostra sensibilità attraverso un atto di accusa contro le guerre e tutto ciò che queste comportano per la vita degli individui, nella loro quotidianità, nelle loro relazioni, nel loro stato di salute, nel loro corpo: l'abbaglio dei conflitti “lampo”, tutte le illusioni patriottiche giovanili infrante, la realtà dell'orrore e della morte e quella dello stupro impiegato come arma, con le sue conseguenze. Mescolando realismo e visionarietà, costruito come una sinfonia e avvalendosi di coreografie per dettagli tutto sommato minimi (la scritta “J'accuse” composta da una folla di soldati e ripresa dall'alto), il film fu girato subito dopo la prima guerra mondiale a cui Gance aveva partecipato realizzando le agghiaccianti riprese documentarie girate sul fronte e poi inserite nel film. L'operatore è il grande Léonce-Henri Burel – futuro direttore della fotografia di Robert Bresson – di cui colpiscono la gestione dell'illuminazione e la mobilità della cinepresa. Inoltre, Gance introduce qui il montaggio rapido che svilupperà soprattutto a partire da La Roue (La rosa sulle rotaie, 1923) e che verrà citato spesso dai teorici degli anni Venti. Il secondo film di Gance presentato a La Rochelle (e al Cinema Ritrovato), Napoléon vu par Abel Gance (1927), ne ha costituito anche l'evento di chiusura quasi a ricordare al suo pubblico variegato quanto, verso la fine degli anni Venti, il cinema muto avesse raggiunto una maturità espressiva che il cinema successivo avrebbe messo anni ad acquisire. Letteralmente smisurato, in due parti, sette ore di puro cinema contemporaneamente e maestosamente realista e visionario, pieno di trovate tecniche e linguistiche, il film torna sulla biografia del Napoleone “rivoluzionario”, dagli anni della scuola militare di Brienne alla campagna d'Italia, quando il futuro imperatore era poco più che venticinquenne, una trama che diventa un avvincente canovaccio su cui si innestano scene che dipanano ciascuna un saggio di fotogenia. Per questo capolavoro mitico, il restauro eccezionale condotto dalla Cinémathèque française è durato quattordici anni. Nel corso del tempo, il film, in questa sua versione (diversa tanto da quella di 3 ore e 47 proiettata nell'aprile del 1927 all'Opéra di Parigi quanto da quella di 9 ore e 40 presentata a un pubblico di addetti ai lavori un mese dopo al teatro Apollo), si è ritrovato frammentato, geograficamente disseminato e di difficile ricostruzione anche perché il cineasta stesso, com'era sua abitudine, lo aveva rimontato più volte per trarne delle versioni sonore, la prima nel 1935, la seconda nel 1971 (prodotta da Lelouch), cui sono inframmezzati e seguiti diversi restauri tra gli anni 50 (per opera di Marie Epstein e Henri Langlois) e il 2000 (l'ultimo dei vari restauri di Kevin Brownlow). A partire dal 2008, le equipe del laboratorio Éclair Classics/L'Immagine ritrovata guidate da Georges Mourier e sostenute dal CNC hanno compiuto un lavoro certosino su oltre mille scatole di pellicola del Napoléon per ottenere la versione più vicina possibile a quella voluta da Gance.
Altra impresa, durata due anni, quella della creazione – l'originale essendo perduto – della partitura di accompagnamento da parte del maestro Simon Cloquet-Lafollye ed eseguita dalle due orchestre e dai cori di Radio France, quindi registrata (ma non è mancata la spettacolarissima versione dal vivo per la “prima”, a La Seine musicale il 4 e 5 luglio). Allora merita segnalare, sul film e su questa avventurosa storia di restauro, la pubblicazione che li documenta e li analizza attraverso corposi saggi: il volume collettaneo, corredato di un nutrito apparato iconografico, Napoléon vu par Abel Gance (Paris, Table ronde, 2024), uno strumento prezioso per saperne di più sulla storia del film, sul lavoro di Abel Gance e sul restauro di questa sua opera colossale (si vedano anche i testi di Joël Daire e Georges Mourier sul sito della Cinémathèque française: https://www.cinematheque.fr/article/661.html), oltre che per apprezzare i saggi che valorizzano ulteriormente il film e ci invitano a ristudiarlo.
Se il festival ha dedicato ad Abel Gance lo spazio per due film (per un totale di circa undici ore di proiezione), su Marcel Pagnol, nel cinquantenario della morte, ha costruito un intero percorso, con una conferenza per ognuno dei tredici film presentati, tra gli altri, da Frédéric Bonnot (direttore della Cinémathèque française), Marcos Uzal (direttore dei Cahiers du Cinéma), Virginie Apiou (Festival di Cannes), Nicolas Pagnol (scrittore e nipote di Marcel Pagnol attivo nella diffusione della sua opera). Alla retrospettiva mancavano film rari del cineasta marsigliese, come Le gendre de Monsieur Poirier (1933) o il Topaze del 1936, a causa dei formati non digitali dei due film, ricordandoci così che la questione dei passaggi da un formato all'altro è sempre aperta e ricade inevitabilmente sulle scelte di diffusione e quindi sulla ricezione delle opere.
Ciononostante, la riscoperta della gran parte dei suoi lavori, proposti in splendide copie restaurate, permette di riconsiderare il lavoro di Pagnol come artista/artigiano e imprenditore dalla cultura raffinata, il quale, restando un grande letterato e attribuendo alla parola il massimo valore, sa utilizzare e perfino migliorare gli strumenti che il cinema sonoro gli offre. Soprattutto a partire da Regain (La vita trionfa, 1937), infatti, la ricreazione del paesaggio sonoro della Provenza, aggiunge agli accenti del Sud che avevano fatto la fortuna di Pagnol sin dai suoi primi film, i suoni della natura, il frusciare del fogliame, lo stormire del maestrale, il verso delle cicale. Pagnol, che è anche autore del saggio Notes sur le rire (1947), ci offre, sotto forma di commedie, delle vere e proprie tragedie, di personaggi, soprattutto femminili – quella di Fanny attraversa tutta la “trilogia marsigliese” ma si tratta di un topos della filmografia pagnoliana. Ci sono inoltre altre tragedie, come quelle della guerra (La fille du puisatier/Patrizia, 1940), della deforestazione (Jofroi, 1933) e dello spopolamento montano (Regain), della scarsità idrica (Manon des sources e Ugolin, 1952). Al di là dei dialoghi, sempre brillanti, che alleggeriscono i temi creando una tensione tra la storia raccontata e le parole pronunciate, un'attenzione particolare merita il ritratto della società che ci viene restituito soprattutto nei film degli anni Trenta, benché non esclusivamente: una società patriarcale la cui misoginia risalta con estrema chiarezza da un film all'altro e raggiunge il suo culmine in scene emblematiche come il finale di La femme du boulanger (La moglie del fornaio, 1938), in cui Aurélie è rientrata a casa dopo una fuga con un avvenente pastore italiano e viene paragonata dal rozzo marito alla gatta Pomponette anch'essa appena tornata perché sicura del pane quotidiano, e, ancor più forte, la scena di Regain in cui viene raccontato, quasi scherzando, lo stupro collettivo di un'attrice di una compagnia ambulante.
Infine, un discorso a parte merita Le Schpountz (1938) in quanto film sul cinema, il cinema del tempo di Pagnol, in cui si vedono i mezzi da lui utilizzati: il microfono in plein air, il camion di registrazione del suono per poter uscire dagli studi e filmare in presa diretta attori e suoni circostanti. Ma si vedono anche gli studi e soprattutto tutto l'ambiente umano che li popola e che Pagnol rende volutamente caricaturale: una vendetta artistica nei confronti di chi lo aveva snobbato e mal sopportava la visione – e il successo – del drammaturgo marsigliese che aveva rapidamente acquisito la padronanza del linguaggio cinematografico.
A questo punto, per quanto riguarda Gance e Pagnol, mi sembra interessante rilevare, a conferma dell'impegno francese nel coinvolgimento del pubblico, che sia l'ultimo Napoléon di Gance, sia tutti i film di Pagnol programmati a La Rochelle sono distribuiti nelle sale già da luglio grazie a un apprezzabile lavoro sulla distribuzione.
Infine, vorrei accennare, perché è impossibile non citarle anche se fare delle scelte è inevitabile, alle retrospettive dedicate a Chantal Akerman e Michael Haneke.
Dal suo primissimo cortometraggio – e grido di rivolta – Saute ma ville (1968) a Hôtel Monterey (1972), il suo primo documentario girato a New York, dove aveva incontrato l'underground, e infine a No Home Movie (2015), il suo ultimo lavoro su sua madre sopravvissuta ai campi di concentramento, Chantal Akerman ha dispiegato il suo female gaze nelle sale di La Rochelle che ne hanno ritracciato in versione restaurata la filmografia eclettica, al cui centro si trova evidentemente Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975), il capolavoro – oggi restaurato e ridistribuito nelle sale francesi – che aveva svelato l'alienazione femminile attraverso un inestricabile gioco tra fiction e documentario, rimandi alla pittura fiamminga e al cinema di Hitchcock.
Un richiamo va inoltre alla retrospettiva di Michael Haneke, che Le Monde (29/6/2024) giustamente non esita a definire come “cattiva coscienza dell'Europa” poiché i suoi film, dodici in trent'anni e tutti presenti a La Rochelle, riflettono come in un filo rosso sui mali che tormentano il nostro continente in quanto fantasmi della storia: le origini del nazismo (Le ruban blanc/Il nastro bianco, 2009), la banalizzazione dell'ultraviolenza (Funny Games, 1997), la venuta dell'oscurantismo (Le temps du loup/Il tempo dei lupi, 2003), il tutto in termini austeri e taglienti senza alcuna concessione per gli spettatori rendendosi disturbante in questa sua versione del cinema horror.
Per concludere con uno sguardo al festival nel suo insieme, si può dire che uno dei suoi aspetti più interessanti oltre alla ricchezza di tutte le proposte, è il suo sforzo, riuscito, in quanto evento, di essere inclusivo (in questo senso va anche il notevole numero di proiezioni in audiodescrizione), sia dal punto di vista della programmazione di grande qualità e contemporaneamente estremamente varia, sia dal punto di vista del lavoro compiuto sul, con e per il pubblico, con cui nel tempo si è creata una forte e tangibile complicità.