Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Francis Ford Coppola e Woody Allen sono solamente alcuni tra i più celebri autori americani la cui arte è stata variamente influenzata da quel cinema italiano che, dalle art house newyorkesi fino all’industria hollywoodiana, ha guadagnato i favori di tanto pubblico d’oltreoceano. C’era una volta in America. Storia del cinema italiano negli Stati Uniti, 1946-2000 di Damiano Garofalo intende proprio restituire con ampiezza documentaria le complesse dinamiche attraverso cui nel Novecento la cinematografia nostrana ha largamente conquistato gli schermi a stelle e strisce, divenendo, così, la più premiata agli Oscar (dopo indubbiamente quella americana e inglese) ed entrando, pertanto, anche in un “canone cinefilo globale” (p. 29).
Garofalo conduce la ricerca in una narrazione fluente che viaggia dall’Italia all’America e viceversa, all’interno della nazione stessa dall’East Coast alla West Coast, tracciando le geografie di un amore cinematografico (certamente corrisposto) tra le due culture filmiche. L’orizzontalità transnazionale e diacronica di tale indagine è ulteriormente arricchita verticalmente non solo dall’adozione di un approccio culturalista, che in particolar modo restituisce con estrema efficacia di sintesi l’accoglienza (tanto della critica, quanto del pubblico) dei film italiani, ma anche dall’integrazione di un punto di vista sulla dimensione industriale capace di mettere a fuoco dettagliatamente le strategie distributive e promozionali.
Riconoscendo l’esaustività degli studi di Giorgio Bertellini (2010) e Giuliana Muscio (2020) nella ricostruzione della circolazione dei film italiani oltreoceano nel primo trentennio del Novecento, il colpo di fulmine inferto da Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini è aneddoticamente ricostruito dall’autore come momento decisivo in seguito alla riapertura, dopo la Seconda guerra mondiale, di un dialogo transatlantico tra le due nazioni. Infatti, dando avvio alla progressiva “invasione di film italiani negli Stati Uniti” (p. 40), le vicende di Rod Geiger, soldato di stanza a Roma che è riuscito a ottenere da Rossellini i diritti americani di distribuzione del suo capolavoro, sembra rievocare il rapporto di influenze tra romani e greci, tra quei vincitori e vinti in cui, però, orazianamente la Grecia “capta ferum victorem cepit”.
Prendendo le mosse dal suddetto episodio, lungo i quattro capitoli e le conclusioni Garofalo ricostruisce l’evoluzione delle dinamiche di fascinazione e diffusione del cinema italiano sul territorio statunitense descrivendo primariamente tre macro-tendenze.
Inizialmente, a infrangere le frontiere è l’estetica neorealista che, non solo per un’esibizione (più sfruttata promozionalmente, che non concretamente presente) della sessualità e di tematiche sociali, ma soprattutto per una messinscena realista in dichiarata reazione al carattere produttivo hollywoodiano, diverrà di lì in avanti “una vera e propria categoria critica attraverso cui poter decifrare, in contrapposizione come in prossimità,” (p. 70) i film nostrani. Nascerà presto, dunque, quell’immaginario nazionale, e conseguentemente anche uno star system, che ancor oggi tiene banco all’estero.
Dopo la parentesi sulla commedia all’italiana e quella marcatamente autoriale di Fellini, Antonioni e Pasolini (nelle cui continuità e discontinuità con il Neorealismo sono state sottolineate le qualità), Garofalo procede a scandagliare quel fervido periodo tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta in cui il cinema importato in America era maggiormente frammentato in una galassia di generi, soprattutto popolari, che concretizzavano un’affascinante rimediazione dell’immaginario filmico hollywoodiano. In particolar modo è il caso dell’espansione produttiva del peplum e del western prima, in minor misura dell’horror poi, i quali sono stati in grado di rimpiazzare momentaneamente la corrispondente contrazione dell’offerta americana di tali apprezzati generi.
Riprendendo alcuni tentativi intrapresi tra gli altri da Antonioni e Leone, si giunge a una fase di parziale americanizzazione della cinematografia italiana (che l’autore approfondisce improntando un’acuta riflessione estetica sui concetti di camp, kitsch e nostalgia, ad esempio nel cosiddetto filone dei Nazisexploitation), preludio alla successiva crisi del nuovo millennio e alla consequenziale assenza di opere nostrane nelle classifiche dei foreign film più visti negli Stati Uniti.
Nell’attribuire, infine, quest’ultima situazione la “sindrome dell’autore” (p.220), emerge sottotraccia una tendenza di lungo periodo entro cui il nostro sistema produttivo è finito per recludersi. Se, difatti, la gloriosa circolazione dei film italiani oltreoceano ha contribuito in larga parte a identificare il foreign film come prodotto eminentemente connotato autorialmente sotto l’egida della figura del regista, altrettanto inequivocabilmente nel panorama culturale e mediale contemporaneo Garofalo rileva con l’espressione sopracitata “una catatonia produttiva e creativa in cui si continuano a scrivere, finanziare, distribuire film d’autore indirizzati a circuiti internazionali di nicchia, come le art house americane, che tuttavia non esistono più” (Ibidem).
Potendo risultare da questa essenziale incursione nell’indagine un eccessivo sbilanciamento adulatorio nei confronti dei successi filmici italiani, per converso il volume ripercorre anche le vicende di un’incredibile varietà di abili e lungimiranti produttori, distributori e critici statunitensi (da Joseph Levine ai fratelli Weinstein, passando per le affilate recensioni di Pauline Kael) senza i quali la fortunata corsa della cinematografia nostrana sarebbe risultata maggiormente inconsistente.
All’interno di questo magmatico materiale C’era una volta in America. Storia del cinema italiano negli Stati Uniti, 1946-2000 incede quasi enciclopedicamente congiungendo in maniera assolutamente organica una moltitudine di film e autori emblematici (certamente i più noti Rossellini, De Sica, Fellini, Antonioni, Leone, fino a Sorrentino e Guadagnino, ma anche più marginalizzati esempi quali il Mondo cane (1962) di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Francesco Prosperi o il cinema politico degli anni Sessanta). Tuttavia, è soprattutto grazie alla multiprospetticità prismatica di analisi che Damiano Garofalo riesce a intessere una raffinata e fitta rete capace di restituire con ampio respiro non solo le complesse dinamiche della propagazione della cultura filmica italiana negli Stati Uniti e, in parte, del foreign film tout court, bensì riesce anche a strutturare un valido strumento entro cui è possibile penetrare per approfondirne verticalmente alcuni dei casi trattati.
Bibliografia
Bertellini G. (2010). Italy in Early American Cinema: Race, Landscape, and the Picturesque. Bloomington & Indianapolis: Indiana UP.
Muscio G. (2020). Napoli/New York/Hollywood. La storia dell’emigrazione artistica italiana che ha cambiato il cinema americano e l’immagine degli italiani negli USA. Roma: Audino.