1 Anatomia dell’effimero: a partire dall’album del “Concorso del Leone. 100 artisti della Metro Goldwyn Mayer”
La definizione canonica di ephemera, che li identifica come “documenti frammentari e transitori della vita di ogni giorno” (Rickards 1988), delinea un ambito di indagine piuttosto ampio, che qui viene circoscritto con alcune scelte di campo. Partendo dalla convinzione che gli ephemera possono gettare luce su scenari storici lasciati in ombra grazie all’assunzione di una visuale di osservazione eccentrica, l’attenzione in questo contributo è sugli album di figurine utilizzati nei concorsi a premi, punto di partenza per la comprensione delle interconnessioni tra i media e le altre filiere industriali nell’Italia degli anni Trenta, quando la sfera mediatica si fa più complessa e articolata. Si cercherà altresì di vagliare l’ipotesi di un ruolo degli ephemera come parte attiva nelle metamorfosi di quel decennio italiano, e nello specifico il loro contributo alla “colonizzazione visiva dello spazio pubblico” (Falasca Zamponi 2003: 221) in una fase in cui i confini e le distinzioni tra pubblico e privato tendono a sfilacciarsi (Gagliardi 2021: 256-257). Un’ulteriore scelta di campo riguarda il profilo dei soggetti implicati, in questo studio inusuale rispetto alla tradizionale prassi degli ephemera studies: le effemeridi vengono infatti solitamente associate ad attori sociali gerarchicamente deboli e periferici nel contesto ideologico dell’epoca o anonimi;1 viceversa qui si intende sperimentare una via diversa, interpellando gli ephemera come sistema discorsivo complesso in cui possano svelarsi interrelazioni, ed eventualmente antagonismi, tra i cosiddetti “poteri forti”, vale a dire tra le istituzioni nazionali legislative, governative, burocratiche e gruppi portatori di interessi in un momento storico in cui contropoteri sovranazionali occupano il mercato italiano.
In termini metodologici il saggio testa un modo di procedere – lo chiameremo “anatomia dell’effimero” – che prende avvio da un micro-caso o un determinato ephemeron: un oggetto che può risultare di primo acchito di poco conto, che tuttavia funzioni come detonatore per sollecitare domande e indagazioni e come punto di accesso per la ricostruzione di un determinato paesaggio storico; questo modo di procedere ha il pregio di lasciar parlare il documento senza alcuna presunzione, nel convincimento che ogni suo lembo possa contenere un racconto, una pista di indagine o addirittura un livello di significato; guidati dall’idea che il manufatto rappresenti una sorta di campo di tensioni in cui intravedere confronti, dialoghi ed eventuali conflitti tra soggettività e istanze disparate; e di qui, ampliando il raggio di azione, spingersi verso la comprensione dei contesti coinvolti o associati.
L’ “oggetto-trigger” che funge da innesco per il nostro percorso è l’album di figurine per concorso a premi “Concorso del leone. 100 artisti della Metro Goldwyn Mayer”. In copertina l’album esibisce il logo MGM, retto dalla celebre mascotte (Fig.1).
Le prime 18 pagine sono pubblicitarie, ognuna dedicata a uno degli sponsor dell’iniziativa (Fig. 2), seguono le pagine contenenti l’elenco dei premi, stupefacenti se pensiamo che l’album data 1937: i premi più consistenti sono una Fiat 1500 e un monile del valore di 20.000 lire.2
Di seguito il prestampato per l’invio delle figurine e solo in fondo lo spazio dove incollare le cento immagini delle star MGM (Fig.4). Le figurine (Fig.3) che venivano inserite nei prodotti da reclamizzare riportano sul retro l’elenco delle ditte sponsorizzatrici e le norme generali del concorso.
Esistono tre versioni dell’album (Valtolina 2018: 190), distinguibili per i colori della copertina – verde, blu o rossa –, per il numero di pagine e delle aziende promotrici e per un paio di altri dettagli: nelle copertine verde e blu campeggia lo “strillo” “la figurina 101 ‘il leone’ vale da sola 10 album completi”; all’interno si specifica che la ricompensa può consistere in alternativa in un premio in denaro. Questi elementi spariscono nell’edizione in rosso, verosimilmente una versione successiva dell’album (le aziende sponsor aumentano), in cui viene meno lo strillo e non si fa più menzione della ricompensa in contanti (Fig. 5).
Le tre versioni sono tutte dello stesso anno come si evince dalla scritta nel retro, identica per tutte le tre edizioni, relativa all’autorizzazione della Regia Questura di Torino il 30 aprile 1937. Perché le versioni differiscono? Perché era richiesto il benestare dell’autorità di pubblica sicurezza? E più in generale viene da chiedersi: com’era possibile utilizzare i divi e le dive americane per promuovere liquori, marmellate, caramelle ed estratti di carne italiani? Appare bizzarro pensare Greta Garbo testimonial del dado per brodo Pisonis o del caffè Lavazza (tra i promoter dell’album del Leone). E come ci si rapportava e comportava ai tempi con il diritto all’immagine negli USA e in Italia? E perché la Metro Goldwyn Mayer metteva a disposizione il suo capitale più importante, quello divistico, per vendere i prodotti del Belpaese? E il regime fascista, con la sua mistica incentrata sul sacrificio e sul collettivo, come tollerava e governava questi competitor – il cinema, l’industria, i collezionisti e Hollywood – veicoli di logiche narcisistiche, individualistiche e consumistiche del tutto antitetiche rispetto alle sue?
Rispondere a tutti questi quesiti richiede di dotarsi di strumenti diversi: innanzitutto di storiografia del cinema e dei media (con attitudine cultural e production studies), ma con qualche necessaria incursione nelle discipline economiche e giuridiche. Bisognerà consultare fonti primarie e secondarie eterogenee, dalla letteratura ai repertori di ephemera – se esistenti –, alle memorie dei collezionisti; dai documenti ufficiali alle riviste; ma sono soprattutto le fonti effimere, ritrovate nei fondi dei collezionisti o su internet, a costituire una risorsa imprescindibile per un lavoro di ricerca di questo genere; è necessario perciò confrontarsi con corpora frammentari e incompleti e con un tipo di reperimento e ritrovamento che non può che essere occasionale ed estemporaneo. Tocca insomma fare i conti con la fuggevolezza e l’inafferrabilità, quando ci si addentra nel mondo degli ephemera.
2 Joan Crawford nelle scatolette di alici: i concorsi a tema cinematografico con finalità commerciali
Sfogliando le riviste e i giornali degli anni Venti e Trenta, è facile imbattersi in avvisi di concorsi a premi legati a diverso titolo al cinema. Se ne incontrano di vari tipi. Ci sono quelli dedicati al pubblico, ideati per creare un legame stabile con l’audience, consumatori da fidelizzare. Ci sono i concorsi indirizzati ad aspiranti artisti per reclutare nuove leve. Un caso significativo è quello del “contro-concorso” indetto da Blasetti in risposta al contest lanciato dalla Fox Film Corporation nel 1926 per scoprire in Italia star latine; il regista polemicamente oppone alla potenza hollywoodiana (che regala ai vincitori viaggio, alloggio e training negli USA), l’afflato nazionalistico: “premio del concorso […] non sarà un sacchetto d’oro od un viaggio in America. Sarà soltanto […] l’inizio del lavoro cinematografico sotto la guida di notissimi Direttori di Scena italiani, per films italiani” (Lotti 2017 [1932]: 103). L’esempio dimostra in modo inequivocabile che i concorsi potenzialmente costituiscono un terreno di scontro ideologico: in cui le poste in gioco si radicalizzano e più chiari ci appaiono i conflitti in corso tra soggetti o gruppi di potere. Ciò è palese nel caso dell’album del “Concorso del Leone”, un ephemeron di grande interesse perché in esso si intersecano dinamiche e modalità della nascente cultura di massa, istanze economiche e, come abbiamo visto, tecniche di merchandising come la cross-promotion, cioè la promozione su più media di più brand (Hardy 2010).3 Gli anni Trenta rappresentano lo zenit del collezionismo delle figurine legate ai concorsi. Piero Angela rievoca nella sua autobiografia l’arcinoto concorso (nato nel 1935) collegato al programma radiofonico I quattro moschettieri (incominciato nel 1934) e testimonia di ritrovi di folle di collezionisti la domenica mattina a Torino, nella galleria San Fernando, tutti presi da scambi tesi (Angela 2017). Le figurine più rare nelle compravendite non autorizzate “raggiunsero la cifra, considerevole per l’epoca, di 50 lire e le quotazioni erano pubblicate sui giornali” (Detti 1989: 78). L’iniziativa sponsorizzata da Perugina-Buitoni comprendeva la disseminazione delle immaginette nei prodotti degli sponsor, la raccolta delle stesse in appositi album, l’ottenimento di premi a seconda delle collezioni completate. La sponsorizzazione del programma fu solo il primo passo di una elaborata comunicazione integrata spalmata su radio, stampa, editoria, discografia, riduzioni teatrali e cinema. Il feroce Saladino è un film del 1937 (regia di Mario Bonnard), protagonista un prestigiatore in miseria, per necessità venditore di caramelle e cioccolato; nel teatro dove lavora il ritrovamento della ricercatissima figurina provoca l’isteria dei collezionisti e l’interruzione dello spettacolo: una metafora delle inquietudini serpeggianti anche nel mondo del cinema per l’invadenza delle nuove forme di intrattenimento “effimero”, quello cioè in cui gli ephemera incominciarono a rivestire un ruolo autonomo, non ancillare per la settima arte. La collezione delle figurine lanciata dalla Buitoni-Perugina nel 1935, considerata “la madre di tutti i concorsi a premi” (Valtolina 2018: 156), codifica un modello che contempla possibilità diverse di riscossione: con un solo album completo, con più album oppure con figurine sfuse; ed esprime alcune tendenze dell’intrattenimento, “la serializzazione, la promozione divistica, il merchandising” (Colombo 1998: 181).
Le collezioni di figurine di cinema per la promozione di beni e marchi esistono in realtà anche prima di questa decade; e sono in particolare le aziende dolciarie che vi ricorrono. Cinema e industria del cioccolato nascono più o meno nello stesso periodo e “l’anello di congiunzione per fidelizzare i clienti furono le figurine che erano ormai diventate un mezzo pubblicitario consolidato” (Durand de la Penne 2017 [2011]: 3); andando ancora più a ritroso nel tempo, troviamo un precedente, vale a dire “la fotografia sotto forma di cartoline, i cui diritti in Italia cominciarono a essere venduti a partire dai due kolossal Quo Vadis? (1913) e Cabiria (1914)” (Ivi: 4). La collezionista Marina Durand de la Penne regesta ventisei serie di figurine prodotte da aziende dolciarie dedicate al cinema muto tra il 1915 e il 1927 (Ivi: 22): tra queste furoreggiarono negli anni Venti la Zucconi di Sesto Fiorentino, concorrente (con le serie di figurine “Cioccolato Cinema”, “Caramella Films”, “Le Grandi Films”) della Lurati, Società Anonima Cioccolata Milano (il cui album includeva ritratti, scene di film e perfino fotogrammi tratti da pellicole); entrambe competitor della Soc. Anonima Cioccolata Piazza Milano, che col suo album definì la formula standardizzata delle collezioni in serie da 80 “imposta alle ditte dalla agenzie fotografiche che detenevano i diritti dell’immagine” (Valtolina 2018, 166). Attiva in questa decade anche la Zaini di Milano, che ritroviamo pure nel decennio successivo con numerose serie; nello stesso periodo, precisamente nel 1937, anche la Cioccolato Bruno Raineri di Milano inizia a editare raffigurazioni di personalità del grande schermo e dell’universo Disney (Ivi: 174-175); e in fin dei conti il “Concorso del Leone” prosegue questa tradizione perché la De Coster (caramelle, pastiglie, confetti, cioccolato) e la Dalmasso (cioccolato, confetture di lusso), due delle aziende sponsor dell’operazione MGM, sono dolciarie.
Negli anni Trenta vediamo pure ampliarsi la rosa merceologica dei promoter di operazioni a premi, per esempio a metà decennio la chimico-farmaceutica Alberani edita una “Raccolta degli Artisti cinematografici”. Analizzando gli album possiamo anche farci un’idea dei diversi posizionamenti e riposizionamenti aziendali e della formazione di nuove alleanze industriali: per esempio nel 1936 una joint venture di aziende guidata da Elah per un album su Mickey Mouse, schiera tra gli altri il gruppo Mondadori e Disney, la cui edizione italiana è solo l’anno prima passata di mano da Nerbini all’editore lombardo, che con questa operazione vuole chiaramente allargare la sua platea. A proposito di quest’album, tra le sue figurine spicca quella dell’immancabile Greta Garbo (immancabile perché icona divistica molto diffusa in questo tipo di collezioni); “la donna fatale” abbracciata a Mickey Mouse, che qui rappresenta l’“elemento-chiave”, cioè la carta più rara; intorno all’immaginetta di Garbo, ricorda Valtolina, “nacquero inevitabili polemiche, nelle quali Il Bollettino Mensile del collezionista si tuffò a pesce, contestando i dati sulla rarità della figurina forniti dalla Mondadori e arrivando a sottolineare come la raccolta ‘puzzi di americanismo’” (Valtolina 2018: 58-59). Indubbiamente i concorsi, con gli album e le figurine, sono un business di tutto rispetto per la MGM e per l’industria italiana, ma incominciano pure a serpeggiare, e da più parti, malumori. Nel 1937 la Invernizzi esce con un album dedicato agli artisti MGM, realizzato dai massimi caricaturisti dell’epoca, Onorato e “Nino Za”; nel dorso è scritto a chiare lettere “le figurine possono essere scambiate ma non vendute”: indizio del timore che le figurine “battessero moneta”, rappresentando in un certo senso una sorta di rivale dell’autorità costituita; il collezionista Massimo Alberini riferisce infatti che le figurine venivano accettate come valuta “in alcuni negozi […] in pagamento” o nei cinema al posto del biglietto (Alberini 1989: 103). Questo non poteva non preoccupare le autorità, che in effetti intervennero con diversi provvedimenti, tra questi rivelatori per noi quelli legislativi.
3 Alea addio! L’affaire dei concorsi a premi nel travaglio legislativo e nelle segrete stanze del potere
L’alea, cioè il governo della sorte, doveva essere prerogativa dello Stato, unica entità a poter tenere il “banco”: questo stabilisce nel 1925 il regio decreto n.1456, affidando il monopolio dei lotti allo Stato e la proibizione per i privati di operazione a premi derivanti da un’estrazione a sorte.4
La volontà egemonica dello Stato deve però fare i conti con gli appetiti dell’industria. Nella circolare di due anni dopo (n. 63493) il Ministero delle finanze permette alle imprese i concorsi a premio, solo se già avviati per smaltire i materiali pubblicitari fin lì stampati. Gli ephemera assumono dunque un certo peso nel negoziato! Una sentenza della Suprema Corte di Cassazione rafforza le ragioni delle imprese, affermando che i concorsi a premi non sono lotterie ma reclame.
Con la legge del 1929 (n.151)5 si assiste a un nuovo ribaltamento: i concorsi a premi vengono nuovamente assimilati alle lotterie e quindi proibiti, in qualsiasi forma.6 Tuttavia, le pressioni esercitate dalla Confederazione generale fascista dell’industria, e specialmente della “lobby del cioccolato”, portano lo Stato a più miti consigli, nuove circolari del 1929 e del 1932 dichiarano la non contrarietà ai concorsi organizzati a soli scopi reclamistici: l’obliquità conigliesca della formula della “non contrarietà” va sottolineata perché indice della contraddittorietà e della debolezza dell’intervento pubblico.
Il 25 marzo 1937 un nuovo decreto (il n. 540, convertito nella L. 7 giugno 1937, n. 1123)7 abolisce il divieto dei concorsi a premi, imponendo la preventiva espressa autorizzazione annuale del Ministero delle finanze o dell’intendente di finanza e il pagamento di un tributo dell’8% sul valore venale della massa dei premi. In buona sostanza lo Stato cede il dominio sulla sorte, assimilando i concorsi a premi alle lotterie, ma monetizza la deminutio. I giornali riportano la notizia della proibizione dell’elemento chiave (la figurina rara) e della corresponsione di premi in denaro.8 Questo spiega l’autorizzazione dell’album del Leone al 30 aprile 1937 e perché le seconde stampe elimino il riferimento all’elemento-chiave in copertina, cioè la “figurina 101” e al premio in denaro. Il R.D.L. 19 ottobre 1938, n. 1933 (convertito nella legge n. 973 il 5 giugno 1939)9 inserisce la normativa relativa ai concorsi ed operazioni a premio nel complessivo riordino della legge sul lotto pubblico, ribadendo la sostanza dei precedenti provvedimenti: i concorsi devono essere autorizzati annualmente, i premi devono essere oggetti immobili e non possono essere in soldi, sono proibiti gli elementi-chiave, cioè le figurine rare.
Questa l’azione del legislatore. Facile immaginare, sulla base dei continui rovesciamenti e cambi di rotta delle disposizioni, di leggi perentorie smentite da circolari interlocutorie, che la vicenda delle figurine fosse accompagnata, nelle sedi non ufficiali, da apprensioni e discussioni. Oggi possiamo verificarlo grazie alle carte del Fondo Direzione Generale Pubblica Sicurezza (1861-1981), “Concorsi premio a mezzo di figurine” (1926-1938) conservate all’Archivio Centrale dello Stato. Sono documenti preziosi, grazie ai quali riusciamo a introdurci, virtuali ospiti del passato, nelle segrete stanze del potere, toccando con mano il clima denso di veleni e paranoie che aleggia intorno ai concorsi e ai sospirati ephemera.
Gli industriali si fanno sentire, sbandierando il vantaggio fiscale per lo Stato e ventilando il rischio occupazionale conseguente a malaugurate misure repressive: nel 1937 Giovanni Buitoni comunica al capo della Polizia che la Perugina ha impiegato in 18 mesi circa 13.000 quintali in più di zucchero rispetto al periodo precedente, “con un vantaggio netto dell’Erario di 5 milioni”, “questo oltre la tassa dell’8% che dovrà ora d’innanzi essere liquidata sui premi”.10 Un anno prima l’industriale in una lettera al Ministro delle Finanze lascia intendere che dietro l’ostilità verso i concorsi alligna l’invidia dei concorrenti: “l’opposizione alla pubblicità premio, dovuta esclusivamente a qualche concorrente di Perugina, è del tutto infondata”.11 Il pubblicitario Dino Villani riferisce della denuncia presentata da una ventina di ditte (tra le quali Cinzano, Campari, Motta, Branca, Martini e Rossi), insieme all’appoggio anche di alcuni personaggi politici, contro il concorso Perugina, motivata da “l’assurdità di una situazione che sovvertiva i rapporti tra chi aveva faticato e speso per affermare i propri prodotti ed altri che, approfittando della situazione artificiosa che i concorsi avevano creato, fabbricavano in fretta oltre le loro possibilità per rispondere ad una richiesta che poteva essere soltanto temporanea” (cit. in Farchione 2020: 287).
Per il regime questo non è l’unico problema da fronteggiate perché i collezionisti ansiosi di trovare “le mancanti” sono soliti ritrovarsi in alcuni punti delle città causando assembramenti e problemi di ordine pubblico: dalla Direzione generale della Pubblica sicurezza sono diramate circolari che intimano lo scioglimento delle riunioni spontanee per la vendita abusiva delle figurine “intralciando anche la circolazione stradale”.12 Non può tra l’altro non preoccupare che gli ephemera fungano da moneta surrogata; una circolare del 14 novembre 1936 a tutti i prefetti del Regno esplicita la preoccupazione: “Ora avviene che tra i ricercatori delle figurine […] si siano costituite e funzionino in varie località […] delle vere e proprie borse per acquisto, cambio, cessione etc. delle figurine stesse”. Altro che alea, le figurine rischiano di essere una sorta di criptovaluta.
Le carte del Fondo Direzione Generale Pubblica Sicurezza riportano perfino dialoghi di intercettazioni telefoniche, voci rubate che tradiscono il panico causato dalle pericolose figurine
L’affare della “Perugina” merita un appello al Procuratore del Re. Tutti i ragazzi sono avvelenati.
È diventata una cosa insopportabile. È uno sfruttamento dell’imbecillità umana!
Passando l’altro giorno per Via Condotti, ho visto che la gente faceva a pugni per entrare […]
Speriamo che si decidano ad intervenire […]
Ho l’impressione che l’Autorità interverrà se la cosa assumerà maggior proporzioni. Sono cose immorali.
Certo, immorali. Attribuiscono un valore arbitrario a queste cose.
C’è in circolazione un’immensa quantità di queste cartine, come fossero buoni da mille.13
Il malcontento serpeggia tra i collezionisti, uno di questi, rancoroso, denuncia con lettera anonima alle autorità le frodi e i raggiri ai danni dei fan; l’oggetto della missiva recita “Figurine premio Topolino e altre”, il testo severamente accusa
È ormai notorio che i pacchetti da 50 figurine vengono dagli esercenti dati a prestito, verso compenso, ad incettatori di figurine i quali, dopo di aver aperto tutte le bustine dal lato dell’incollatura, trattengono le figurine di valore e restituiscono al compiacente esercente i pacchetti così svalorizzati perché distribuisca le figurine che non servirono all’incettatore. Il pubblico consumatore, cui non rimangono che i rifiuti degli accaparratori, resta così gabbato e frodato dopo di aver subito l’allettamento di premi divenuti impossibili […]. Il fatto è stato riscontrato a Bassano Veneto e lungo la Bassano Padova ed il Comune di Padova.14
Lo scenario discorsivo che emerge intorno al dispositivo dei concorsi e delle cartine, rivela il reciproco commercio di paure e scambi: lo Stato teme di perdere terreno, controllo sul territorio, l’egemonia sull’azzardo, vieta ma davanti alle proteste arretra, infine deve giocoforza riconoscere le istanze economiche della grande industria e converte la capitolazione in moneta sonante; gli industriali temono il mancato rinnovo dell’autorizzazione, la perdita economica e da ultimo trovano un accomodamento cedendo parte del guadagno allo Stato; gli industriali esclusi paventano nell’ombra la concorrenza sleale; gli anonimi invocano l’intervento deciso delle autorità per riportare la pace nelle strade e nelle case; i consumatori si tramutano in informatori per accusare le truffe dei venditori. Il dossier dei concorsi a premio ci permette di scandagliare le dinamiche del fascismo in azione: le tensioni nei più alti vertici, i deliri paranoidi dell’uomo della strada, le delazioni, le intercettazioni (forse fittizie, forse procurate dagli stessi funzionari per orientare un’azione più decisa contro i concorsi), i sospetti degli uni verso gli altri, le pressioni, gli accomodamenti.
Intanto, mentre si accendono e consumano livori, repressioni e compromessi, altri attori stanno occupando in sordina il terreno e la loro presenza modificherà definitivamente gli assetti economici, culturali e politici italiani. Parliamo della Metro-Goldwyn-Mayer, una delle major che negli anni Venti aggredisce la piazza italiana con un irresistibile battaglione di star, con una batteria strabiliante di film e con un braccio armato di cartoni, carte e cartine certo effimeri ma non per questo poco potenti o meno letali per le italiche cinematografiche sorti.
4 La strategia Metro-Goldwyn-Mayer: promozione crossmediale, contest, ephemera bombing ed effimerizzazione dello spazio pubblico
La Metro-Goldwyn-Mayer sbarca nel Belpaese nel 1925 alla conquista del mercato italiano. Fritz Curioni, direttore generale della organizzazione di distribuzione della major ha lucidamente compreso “il lavoro di penetrazione dell’industria cinematografica americana […] con un’opera lenta ma sicura, con metodi sottili e intelligenti […]. Gli americani […] con aria sorniona, senza battere troppo la grancassa” scaricano un’ingente quantità di film “che cedevano in esclusiva per tutta Italia […]. Le condizioni erano ottime […] il cinema americano letteralmente prendeva piede in Italia” (cit. in Calvino 2003: 5-6). Una volta però che il marchio MGM consolida il proprio corporate brand (Ind 1997) le condizioni cambiarono. “La generosità yankee era pelosa” annota Quaglietti (1991: 18). Lo studioso, e più di recente Di Chio (2021), hanno ricostruito l’avanzamento MGM nel nostro paese; Brunetta ha analizzato La voce del leone, il bollettino della casa hollywoodiana che dal 1932 fornisce notizie e istruzioni precise agli esercenti e distributori: “La Metro diventa la casa più potente, la più amata, è il marchio più aggressivo dal punto di vista pubblicitario, quello che agisce a campo totale” (2013: 56).
I concorsi a premi, con il loro apparato effimero, rappresentano una modalità strategica fondamentale del programma di conquista: perché “i concorsi a premio […] vengono utilizzati dalle imprese come catalizzatori di attenzione e di curiosità, o come eventi collaterali ad altre iniziative” (Corvi 2012: 379); gli ephemera, grazie alle loro caratteristiche di adattabilità, icasticità, capillarità e viralità, sono moltiplicatori e stabilizzatori dell’attenzione accesa; le figurine contribuiscono in duplice modo, essendo effigi delle celebrità ne sfruttano il valore testimoniale e immaginifico; essendo collezionabili sono intrisi di pulsioni e passioni in senso identitario, rituale e relazionale.15
Il “Concorso del Leone” non è l’unico contest MGM, l’anno precedente, nel 1936, arriva sul mercato il “Concorso Calze Lux”, con le immagini di artisti Metro-Goldwyn-Mayer dei film 1936-37, (Valtolina 2018: 80), promosso dal Calzificio Marcello Germani di Milano, che vuole pubblicizzare le sue calze in ryon (Fig. 6).
Andando ancora più indietro nel tempo, nel 1935 la casa americana aveva lanciato un concorso in collaborazione con Motta Panettoni (per far conoscere i film della stagione 1935-36), che contemplava, come spiega l’house organ della major, una campagna reclamistica da ottobre a giugno, consistente in un “martellamento continuo […] con tutti i più moderni mezzi di pubblicità – stampa, radio, opuscoli, addobbi, esposizioni, reclame luminosa e murale ecc.”, e un’articolazione attraverso “due veicoli centrali: la scheda distribuita da quasi tutti i cinema interessati, la quasi totalità d’Italia, e il ricco opuscolo illustrativo accluso a tutti i panettoni Motta in vendita” (La voce del leone 1935a: 11). L’“ephemera bombing”, possiamo definire così l’utilizzo tattico degli ephemera, era uno degli elementi qualificanti del programma di conquista della Metro. Agli esercenti veniva espressamente richiesto di
curare attentamente la distribuzione della scheda di partecipazione; […] mettere bene in vista nell’atrio del cinema il cartello del concorso ogni volta che verrà programmato uno dei dieci film; proiettare integralmente e sempre l’annuncio del concorso attaccato alla presentazione normale del film […]; diffondere localmente il concorso con iniziative proprie – strisce in calce ai manifesti e alle inserzioni, volantini (Ivi: 11-12).
Un profluvio di testi effimeri (kit promozionali per le sale e per la stampa locale, check list e istruzioni d’uso per gli esercenti, cartoline e figurine a disposizione di esercizi commerciali, saloni di bellezza, profumerie ecc.) invade le sale cinematografiche, le strade, le case, il Paese, seducendo il pubblico, gli operatori del cinema, l’industria.
Dino Villani, che all’epoca dirigeva l’Ufficio pubblicità Motta, nelle sue memorie racconta che la Metro-Goldwyn-Mayer cercava
degli agganci con enti e ditte per associare la pubblicità. Volevano più che altro arrivare al lancio di prodotti che portassero il nome del film che stavano presentando e vi riuscirono per esempio con ‘Viva Villa’ che divenne un biscotto; con ‘Come tu mi vuoi’ che fu un profumo e con ‘Eskimo’ che battezzò un gelato; […] così aderii […] per una torta che divenne ‘Regina Cristina’ (Villani 1972, 41-42).
La cross-promotion, come già detto la collaborazione tra più partner commerciali che contraddistingue l’album del “Concorso del Leone”, è una modalità qualificante l’attività di marketing MGM.
È l’album “Concorso del Leone” a svelarci come funzionava la compartecipazione, l’imbustazione delle figurine spettava alle ditte aderenti. La casa americana, dunque, coinvolgeva il massimo numero di partner commerciali a cui assicurava visibilità e pubblicità, in cambio di costi contenuti. L’archivio storico Lavazza, come già detto uno degli sponsor del “Concorso del Leone”, conserva la minuta delle spese sostenute per l’operazione (datata 15 maggio 1937): il costo di ogni figurina era di venti centesimi, il costo del confezionamento sette centesimi, il costo dell’operaia che “confeziona in media kg. 50 di pacchettini […] L. 13 al giorno” (Fig. 7).
Le ditte potevano sfruttare l’iniziativa per proprie campagne pubblicitarie, come per esempio fece un altro promoter dell’album, la Cora Cora (Fig. 8).
Le campagne in compartecipazione erano usuali nella promozione crossmediale. Ricciardi spiega nella sua Guida (uscita nel 1936 e rieditata annualmente), a proposito della radio,
la Società concessionaria della pubblicità radiofonica non è aliena […] dall’assumere l’incarico di campagne per il lancio di prodotti nuovi, col sistema della parziale compartecipazione: sistema che consiste nel pagamento, da parte del cliente, di una cifra minima a parziale copertura delle spese di organizzazione e svolgimento della campagna, integrata poi da una percentuale sulle vendite del prodotto (Guida Ricciardi 1941: 377).
L’impatto di queste operazioni nate da una convergenza di interessi economici, plasmate dalle leggi dello spettacolo e basate sull’impiego a tutto campo di ephemera, è quello della effimerizzazione dello spazio pubblico: non sono solo gli atri dei cinema a essere continuamente riconfigurati ma le strade, i negozi, le vetrine: “La Metro, attraverso trattive ed accordi costantemente curati, dispone oggi di una vasta rete di dette vetrine, distribuite nelle principali città d’Italia, nelle quali a rotazione continua viene esposto materiale riguardante artisti e film della casa” (cit. in Brunetta 2013: 173). Il modello di show business informa lo spazio pubblico, che diventa negoziabile, riconfigurabile, transitorio: in questo processo gli ephemera giocano un ruolo chiave. Possiamo farci un’idea precisa di quale impatto potesse avere il fenomeno sul paesaggio urbano16 e nella percezione collettiva, grazie a una foto conservata nell’archivio storico Barilla, che ritrae l’automobile del “Concorso del Leone” parcheggiata davanti alla vetrina di un partner dell’operazione, il pastificio Voiello (secondo l’archivio storico Barilla, si tratta del Negozio Voiello di via Nisco a Napoli, Fig. 9).
Le vetrine, con la loro trasparenza che rende continua la dimensione privata del negozio e quella pubblica della via (Salvati 1993),17 costituiscono a loro volta un palco effimero, plasmabile e transfigurabile. Particolare non trascurabile nella fotografia è la presenza di un megafono, con la sua potenza amplificatrice; gli altoparlanti iniziavano a diffondersi, li vediamo nelle fotografie dell’epoca in mano ai registi sui set, in mano ai dittatori nelle piazze e in dotazione agli imbonitori nelle strade per la pubblicità sonora, magari in associazione con ephemera di carta o cartone: ciò palesa plasticamente la connessione profonda tra logiche dello spettacolo, propaganda e pubblicità.
L’attivazione, da parte del fascismo, della massa dei cittadini come oggetto di propaganda politica ha il suo pendant nella crescita, entro i limiti imposti dall’apparente antindustrialismo, dell’utenza a cui si rivolge la comunicazione pubblicitaria e nella trasformazione del mezzo che questa usa. Da questo punto di vista gli anni Trenta rappresentano davvero uno spartiacque: per le nuove dimensioni del mercato culturale, per la sicura alleanza tra media diversi […], per il rilievo e l’autonomia assunti dall’industria culturale, che ora produce figurine e romanzi ‘rosa’, libri e films, ‘gialli’ e fumetti, cartelloni pubblicitari e testi radiofonici… (Salvati 1993: 69).
C’è un altro aspetto fondamentale della foto Voiello-MGM che deve attirare la nostra attenzione: sui finestrini e sull’imponente silhouette cartonata in forma leonina che campeggia sul tetto dell’auto, sono platealmente esibiti i volti degli artisti MGM, la preziosa “banca immagini” della casa americana: messa a disposizione di esercenti, distributori, dei giornali, per le operazioni e premi, per le fotobuste, le cartoline, le figurine e per reclame di beni di consumo. Troviamo addirittura le star MGM usate nelle pubblicità della Rinascente (Fig. 10) alla metà degli anni Trenta come testimonial dei tessuti di ryon, o raion.
Ciò ci introduce al cuore del tema del diritto all’immagine, un tema che si impone proprio in questo periodo e che sarà al centro del prossimo paragrafo.
5 Il potere di marca del volto: il ruolo dell’effimero nel diritto all’immagine
Nel volume Contested Culture. The Image, the Voice, and the Law Jane M. Gaines (1991) studia il rapporto tra merci, beni e servizi di consumo collegati all’uscita dei film, per analizzare il diritto d’autore, i marchi e la proprietà intellettuale; tratteggiando lo scenario del periodo classico, tra prassi e norme, la studiosa individua nella negoziazione intorno ai diritti che contraddistingue il periodo un passaggio epocale, quello in cui il sistema capitalistico impone le sue leggi sul cinema proprio attraverso una politica di trasferimento dei diritti. La MGM, ricostruisce Gaines, negli anni Trenta disponeva dei diritti d’immagine delle proprie star in modo assoluto, spesso a loro insaputa e nonostante le loro resistenze. I divi “divennero proprietà commerciali” sintetizza Gerben Bakker (2001: 471). La major spendeva tre milioni di dollari all’anno in pubblicità conquistando (con la Paramount) la brand awarness più elevata agli occhi del pubblico; ma l’investimento doveva essere recuperato e le pratiche di merchandising costituivano a tal fine una risorsa essenziale. Nella gran parte dei casi i divi non avevano voce in capitolo sull’uso che veniva fatto del loro “potere di marca”. L’escamotage era quello di inserire il titolo del film in promozione accanto al nome dell’attore, come possiamo vedere anche nelle figurine dell’album del “Concorso del Leone”: questo consentiva di aggirare la normativa e le proteste delle star, rivendicando la figurina (o cartolina, fotobusta, calendarietto, pubblicità ecc.) come promozionale finalizzato all’uscita del film, non alla vendita del bene di consumo.
È del tutto legittimo quindi affermare – gli ephemera rintracciati stanno lì a dimostrarlo – che la MGM utilizzasse la sua star-database in modo del tutto discrezionale, per compartecipazioni con esercenti, aziende e partner eterogenei, per stabilire la propria leadership e occupare quote di mercato e visibilità come brand. In questo periodo troviamo per esempio il sublime volto di Greta Garbo, star MGM, in una infinità di ephemera italiani con finalità pubblicitarie: sulla cartolina del cioccolato Talmone (Fig. 11) e su quella sponsorizzata dai liquori Aperol (Fig. 12), sulla figurina Perugina-Buitoni o sull’immaginetta promozionale dei misconosciuti Negozi Bertelli (Fig. 13); o ancora, come abbiamo detto prima, come testimonial dei tessuti della Rinascente; e persino nella vetrina Motta-Panettoni.18
In Europa il sorgere del diritto all’immagine coincide con l’affermarsi dei mass media e in particolare della fotografia perché, osserva il giurista Cionti, è la fotografia che implica, oltre ai diritti connessi al ritratto, quelli legati alla moltiplicazione delle copie e della diffusione (Cionti, 1998). Nella letteratura giuridica viene citato al proposito un episodio che fece grande scalpore in Germania, relativo alla messa in vendita come fermacarte della fotografia d’una signora, colta in costume da bagno a Kranz nel 1898 (Ibidem). A ben vedere però il fatto menzionato non riguarda semplicemente la diffusione dell’immagine della signora di Kranz, ma una sua ricollocazione e rilocazione in un numero potenzialmente infinito di forme, infinito di luoghi e infinito di finalità (tra questi, ma non necessariamente l’unica, la vendita di un bene di consumo), che rendono quell’immagine effimera a tutti gli effetti; dunque, la dimensione effimera gioca un ruolo cruciale nella storia del diritto all’immagine. Lo dimostra il fatto che i contenziosi che provocano cause di diritto all’immagine nel periodo, pertengono proprio sempre ephemera. Riguarda per l’appunto manifesti e cartoline la causa intentata da Ballarini & Fratini di Firenze (ditta leader per le cartoline divistiche fin dai tempi del muto), per l’utilizzo di una fotografia di Mussolini originariamente editata dall’azienda per cartoline, riprodotta da altri senza autorizzazione in manifesti (Monitore dei tribunali 1940: 197). Riguarda per l’appunto un ritratto fotografico la causa intentata nel 1938 da Isa Pola contro la Ditta Calzificio di Vedano, accusata di aver utilizzato su cartoncini pubblicitari, senza chiedere specifico consenso, una foto scattata all’attrice da un fotografo per promuovere il suo studio (Ferrara 1938). A proposito di questo processo, il giurista Ferrara commenta la sentenza
Tra i più recenti casi è notevole, anche per i rapporti tra il ritratto e la cinematografia, quello capitato all’attore cinematografico Silvio Orsini, il quale, dopo aver posato come primo attore cinematografico per il film Honey della Paramount per una fotografia da servire come réclame della stessa proiezione, aveva con sorpresa constatato che la medesima ditta Paramount, editrice di una rivista intitolata “Cinema illustrazione”, aveva abusivamente pubblicato la fotografia […] come réclame o meglio come adattamento per réclame del purgante Magnesia S. Pellegrino […]. “Non è lecito”, dichiarò la corte d’appello di Milano, “fare la reclame ai prodotti industriali servendosi di ritratti o di nomi di altri che non vi consentano. E, se è vero che persone note nel campo artistico o in quello scientifico, prestano il proprio nome o la propria effige per la pubblicità a vantaggio di prodotti industriali, è altrettanto vero che siffatta pubblicità viene fatta con loro consenso, il quale generalmente non è dato senza adeguata retribuzione” (Ivi: 509).
Dunque l’orientamento della giurisprudenza in Italia è decisamente lontano dalle tendenze oltreoceano, dove abbiamo visto il volto delle star veniva impiegato in modo spregiudicato. Alla fine degli anni Trenta in Italia l’immagine, “ha un contenuto morale e un contenuto patrimoniale, dato dalla possibilità dello sfruttamento economico dell’immagine” (Ivi: 510). Questo sulla base dell’Art. 11 del R.D.L. 7 novembre 1925 n. 1950 (convertito nella L. 18 marzo 1926, n. 562) che già dispone la necessità del consenso per l’utilizzo di un’effige. Non è un risultato pacifico che le cose restino così anche dopo il 1925: in quegli anni la stesura del Codice civile (del 1942) e la quasi contemporanea Legge sul diritto d’autore (legge 22 aprile 1941, n. 633), sono accompagnate da un dibattito vivace che vede contrapposte visioni opposte, per alcuni il diritto assoluto sull’immagine propria è un’idea da mettere in discussione, è anzi un “concetto pericolosissimo”, di stampo individualistico, inconciliabile con la politica dal fascismo (Ferrara 1942). Tuttavia la linea che prevale nel codice civile italiano e nella legge sul diritto d’autore, riconosce la disponibilità assoluta della propria immagine, accezione che resterà prevalente anche nel dopoguerra, e perfino per le persone note come gli attori: “Il produttore può utilizzare questi materiali per la pubblicità del film, ma non per separati usi commerciali” scrive Amedeo Giannini in Il diritto dello spettacolo (1959: 51). Nell’Italia del regime quindi, il volto delle star resta alle star.
6 Conclusioni
Al tempo della cioccolata. Quando si giocava, a pari e dispari, a “sottomuro”, a “scassa-quindici” sugli angoli delle strade nei lenti pomeriggi degli inverni scolastici, era ancora l’epoca dei divi americani a bizzeffe, del Leone della Metro che ruggiva con gli spettatori delle platee, era l’epoca delle “figurine”. Per le figurine che stringevamo preziosamente nel pugno, consunte agli angoli e sempre un po’ untuose e lucide, eravamo pronti ad ogni forma di piccolo traffico, ad ogni forma di affare…E le figurine continuavano a venire in nuove serie nelle cioccolatine da sei soldi […]. Raccogliemmo queste serie che sono rimaste per anni nei vecchi cassetti della scrivania, dimenticate nel loro breve interesse, come molte delle storie che esse fermarono nelle minuscole fotografie. Avevano dunque acquistato nei tempi d'oro come il valore di una strana valuta, che circolava con il suo bravo oscillare di borsa tra le mani dei ragazzi (…). A rivederli oggi i nostri beniamini di un tempo, fermi nei loro sorrisi fatali, nei loro abiti ormai fuori moda, non si può non considerare con tristezza l’effimera fragilità della loro vita. Sono un po’ il segno del tragico destino del cinematografo, fuoco luminosissimo e breve. (Al tempo della cioccolata 1940: 215).
Gli ephemera sono fatti della stessa materia del cinema, non solo (poeticamente) perché entrambi sono un “fuoco luminosissimo e breve”, ma perché entrambi – o meglio la materia di cui si sostanziano, la pellicola e la carta – vengono (più prosaicamente) dalla cellulosa. Questo legame dischiude scenari interessanti, nel senso che il tema delle materie prime potrebbe costituire un motivo di collegamento (industriale) non evidente tra ambiti apparentemente distanti. Pensiamo ad alcuni prodotti e materiali riaffiorati a più riprese nelle pagine precedenti, come il cioccolato, le calze o il ryon, all’epoca definito “il più moderno dei tessuti italiani e il più italiani dei tessuti moderni” (Natura 1936: 48), ricavato guarda caso anch’esso dalla cellulosa. Sul ryon investe massicciamente negli anni Venti Riccardo Gualino già attivo nell’azienda chimico-tessile con il suo gruppo SNIA VISCOSA e nel settore dell’abbigliamento (e ricordiamo che l’album MGM del “Leone” è preceduto dall’album MGM “Concorso Calze Lux”); nello stesso periodo l’industriale piemontese entra anche nel settore dolciario grazie al cioccolato Talmone, promuovendo nel 1924 UNICA, Unione Nazionale Italiana Cioccolato e Affini (Caponetti 2023). Farassino aveva intuito a proposito di Gualino:
È fra i primi a capire la possibilità delle nuove fibre artificiali. Un’industria, quella della seta artificiale, stranamente ma strettamente legata al cinema, come ha già dimostrato l’esempio della Cines, la gloriosa casa di produzione del cinema muto nata in simbiosi con una Cines-seta, poiché dallo stesso materiale di base, il collodio, che si ricavano la celluloide, le pellicole e la cosiddetta seta artificiale (Farassino 2000: 13).
Proprio Gualino, nel secondo dopoguerra ormai produttore affermato con la Lux Film e alla guida della società chimica Rumianca, mette a frutto le sinergie industriali, come risulta dalla dichiarazione ai suoi collaboratori della Rumianca e della Lux Film:
La Rumianca ha ormai grandi capitali: il suo DDT è stato comprato a tonnellate dagli americani per distruggere le pulci e pidocchi che infestavano tutta l’Italia […] e può investire in massicce campagne pubblicitarie. Dovete creare una saponetta: deve essere rosa, profumata, con una bella confezione. La chiameremo Lux […]. Nei contratti con le attrici dei nostri film […] dobbiamo includere una clausola, […] sono tenute a concedere la propria immagine per un nostro prodotto. Da tutte le pagine patinate delle riviste femminili, dai grandi manifesti di sei metri per tre nelle città, dai cartelloni dei tram e degli autobus sorridono i visi delle più famose dive del momento. Lo slogan dice: il Lux, il sapone di 9 stelle su 10. Lo dice Sophia Loren, lo dice Elizabeth Taylor, lo dicono Jean Simmons e Marina Vlady, June Allyson e Audrey Hepburn e tante altre star del cinema(Caponetti 2023: Posizione 5239).
E così farà (Fig 14).
Più che una conclusione, questo vuole essere lo spunto per un inizio di una direzione di ricerca futura, suggerita da questo studio sugli ephemera. Le carte effimere ci hanno portato lontano. A partire dalla vivisezione di un album di figurine – la struttura, le varianti, le scritte, le immagini, l’implicita coesistenza di istanze e attori che virtualmente vi si rintracciano –, prendendo l’abbrivio dagli interrogativi che l’esplorazione dell’ephemeron suscita; abbiamo cercato di ricostruire uno spaccato storico comprendente alcuni media minori (gli album, le figurine) e il fenomeno dei concorsi a premi, in cui il nesso tra cinema e logica capitalistica appare plasticamente; la rete dei rapporti e delle connessioni che si dipanano dall’album è tuttavia ben più estesa, riguardando legami tra le industrie italiane e Hollywood, tra le aziende e il legislatore, con il potere politico; abbiamo pertanto ampliato il campo di indagine per capire azioni, reazioni e interrelazioni tra diversi soggetti operanti in campo nazionale e internazionale all’epoca. Abbiamo visto all’opera distanze ma anche “convergenza” di strategie e di interessi: per esempio i linguaggi della propaganda e quelli dell’intrattenimento, che, come nota Gagliardi durante il fascismo “confinavano, si sfioravano e si contaminavano, talvolta fino a confondersi arrivando a dar vita a un flusso sonoro e visivo ambiguo in qualche misura destabilizzante” (Gagliardi 2021, 275). Gli ephemera ebbero un ruolo decisivo nella realizzazione di quel flusso visivo, sfondando per così dire le pareti dei cinema, imponendo sulle strade e sullo spazio pubblico la loro logica visuale, cangiante e trasfigurativa.
Da ultimo, a proposito della domanda posta in apertura relativa all’atteggiamento del regime verso le istanze rese visibili dall’album del “Concorso del Leone”, del cinema, dei media, dei collezionisti, degli industriali e del colosso hollywwodiano, sembra utile richiamarsi alle parole di Stephen Gundle: “L’immaginazione consumistica tra le due guerre non fu certamente contenuta […] dal progetto fascista ma non fu nemmeno autonoma rispetto ad esso […] nell’immaginario tutto si mescolava e tutto poteva confondersi” (2008, 69).19 L’immaginario si rivela come potenza difficile da arginare, tanto più se guidata da una forza capitalistica. Nel quadro di queste dinamiche gli ephemera sono luoghi di negoziazione, ma anche dell’esplosione delle ambiguità, delle contraddizioni e dei paradossi, come ha dimostrato lo studio delle carte “Concorsi premio a mezzo di figurine” del Fondo Pubblica Sicurezza: documenti che testimoniano le lacerazioni e la progressiva disarticolazione del potere del regime, più effimero e meno solido di quanto volesse essere e apparire.
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Si vedano in tal merito: Comand e Mariani 2019; Stacey 1994; Stead 2016; Vitella 2017; Kuhn 2002; Wickham 2010.↩︎
Si tratta di cifre considerevoli se si pensa che il biglietto dei cinema di prima visione costava in quegli anni 3 lire; cfr. Venè 1988, 283.↩︎
Le figurine meriterebbero una disamina a parte e in più direzioni (grafica, formale, industriale ecc.), impossibile in questa sede; va però almeno ricordato che l’offerta e la ricerca di un premio tramite il completamento dell’album, segna una svolta nella storia della figurina: se fino a cavallo della Prima guerra mondiale la figurina rappresentava il premio per l’acquisto di prodotti, negli anni Trenta diventa un mezzo per aggiudicarsi premi, mentre dal dopoguerra diventerà un prodotto in sé svincolandosi dall’acquisto di beni (Valtolina 2018).↩︎
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1925/08/27/198/sg/pdf (ultimo accesso: 30-06-24).↩︎
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1929/02/20/43/sg/pdf (ultimo accesso: 30-10-24).↩︎
Cfr. Funaioli (1961): 310.↩︎
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1937/05/04/103/sg/pdf (ultimo accesso: 30-10-24).↩︎
“Pervengono al Ministero delle Finanze numerosissime istanze per svolgere concorsi a premio per accreditare determinati prodotti o per eccitarne la diffusione o lo smercio in applicazione del decreto 25 Marzo 1937. In attesa del regolamento per l’esecuzione di detta legge, il Ministero delle Finanze, di concerto con quelle delle Corporazioni, porta a conoscenza degli interessati alcune direttive alle quali le ditte dovranno attenersi: […] 2) Divieto nei concorsi a premio dell’uso di elementi chiave (figurine rare) e conseguentemente obbligo della messa in distribuzione di figurine o buoni, aventi tutti lo stesso valore ai fini della raccolta, in modo che sia decisivo per tale raccolta il numero dei buoni e non già la qualità di essi. […] 4) Esclusione in ogni caso della corresponsione di premi in denaro o in beni immobiliari”. Cfr. Stefani 1937, 5.↩︎
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1938/12/30/298/sg/pdf (Ultimo accesso: 30-10-24).↩︎
Roma, Archivio Centrale dello Stato, Fondo Direzione Generale Pubblica Sicurezza (1861-1981), b. 822, fasc. 3, lettera del 21 luglio 1937. Da qui in avanti per richiamarsi all’archivio si impiegherà l’abbreviazione “ACS”.↩︎
Ivi, lettera dell’11 novembre 1936.↩︎
ACS, Fondo Direzione Generale Pubblica Sicurezza (1861-1981), b. 822, fasc. 3, comunicazione del prefetto di Bologna alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza del 6 marzo 1937.↩︎
ACS, Fondo Direzione Generale Pubblica Sicurezza (1861-1981), b. 822, fasc. 3, documento del 28 ottobre 1936.↩︎
Ivi, lettera del 18 giugno 1937.↩︎
Per questi aspetti si rimanda a Molfino 2014; Baudrillard 1968; Elsner e Cardinal 1994; Muensterberger 1994.↩︎
Gundle ci ricorda che esistevano notevoli differenze tra i grandi centri e il resto d’Italia. Cfr. Gundle 2008.↩︎
In particolare si vedano le pagine 67-70 sulle vetrine negli anni Trenta.↩︎
La foto è pubblicata nel bollettino La voce del leone 1935b: 11.↩︎
Sul tema del rapporto del fascismo con la società dei consumi, oltre a Gundle, si veda: Falasca Zamponi 2003 e Forgacs 2014.↩︎