La nostra attualità tecnologica si serve di differenti forme mediali per dare manifestazione di sé e per consentire a noi, utenti mediantropi, di lasciare delle tracce sui e con i dispositivi che accolgono e raccolgono i frammenti delle nostre esistenze. In molti casi, i segni che oggi lasciamo hanno una natura iconica; tuttavia, la sensazione è che l’immagine sia l’ideale compagna di viaggio dell’evoluzione umana. Per certi aspetti, infatti, la Storia dell’uomo è contrassegnata dalla presenza dell’oggetto visuale che, dalle superfici rupestri agli schermi touch, scandisce gli scalini del progresso e dell’evoluzione della nostra vicenda sulla Terra. D’altra parte, questo rapporto privilegiato è presente anche nello sviluppo del singolo: fin dai primi anni di vita, infatti, l’uomo disegna, cioè crea immagini, prima con gli scarabocchi e poi con il passaggio al tratto descrittivo-figurativo, seguendo fondamentalmente il proprio istinto. L’età dell’infanzia è il momento in cui si assiste normalmente alla comparsa istintuale del tratto grafico e al suo graduale trasformarsi in figurazione (della realtà e dell’immaginazione o del vissuto), come segno di un cambiamento percettivo e cognitivo che prepara l’individuo ad accogliere le successive sfide della significazione, a partire dall’acquisizione della scrittura che richiede, al contrario, un approccio formale alla sua costruzione e comprensione. Parimenti, a un’immagine “classica” o “tradizionale” che ha contraddistinto gran parte dell’arco evolutivo umano si è giunti a una forma “nuova” caratterizzata dall’intervento del dispositivo tecnologico che ha segnato la crescita e la variazione fenomenologica e ontologica dell’oggetto visuale, fino a giungere alla sua riproposizione algoritmica.
Il volume di Andrea Rabbito esplicita il tentativo arditamente affascinante di occuparsi dell’immagine, chiedendosi quali siano le sue origini e, soprattutto, perché abbia instaurato una relazione così stretta con l’uomo. Il lavoro dello studioso ruota attorno a una doppia constatazione di base: da un lato, evidenzia la questione umana, mettendone in luce una natura declinabile in tre manifestazioni (sapiens, ludens e demens), portando alla luce, cioè, la consapevolezza che, di fronte al materiale iconico – ma potremmo forse dire, in rapporto con qualunque medium – queste tre modalità di rivelazione siano sollecitate contemporaneamente, ma che trovino degli equilibri estemporanei che, di volta in volta, tendono a una riorganizzazione di forze (conseguentemente alla quale muta l’atteggiamento percettivo, sensibile e cognitivo che si nutre davanti a un’esperienza visuale/mediale); dall’altra parte, Rabbito sottolinea la vivacità dell’immagine, celebrandone la sua esistenza non solo come registrazione archivistica di un qualcosa che-è-stato (come potremmo tradizionalmente etichettare una fotografia), ma piuttosto come un agente “vivo”, cioè dotato di una propria indipendenza e di una carica vitale che, pur affiorando nel rapporto con l’uomo, non la pone alla sua esclusiva dipendenza. In questo modo, è l’atto relazionale tra agenti che rende possibile l’esperienza visuale, che mette in comunicazione cioè due enti a loro modo autonomi e vivi e che si incontrano, in un continuo organizzarsi ontologico e fenomenico, in un contesto ecologico o, meglio, medio-ecologico.
Andrea Rabbito attinge a piene mani da alcuni riferimenti filosofici che contraddistinguono il suo percorso di ricerca che, in questo volume, emerge come linea metodologica per tracciare una “genealogia delle nuove immagini”; in questo modo, l’autore rimarca la distinzione tra il manufatto iconico che, come detto, viene definito immagine “classica”, da quell’artefatto “nuovo”, tecnologico, che inizia a manifestarsi, con forza sempre maggiore, a partire dalla metà dell’Ottocento con la comparsa della fotografia. Per questo scopo, Rabbito mette in dialogo serrato le posizioni sull’immagine e sull’esperienza con il visuale di Jean-Paul Sartre, passando, tra i molti, per Michel Foucault e David Freedberg, senza dimenticare i principali studi mediologici che, nel corso del Novecento, hanno indagato la questione dell’immagine e il rapporto che l’uomo intrattiene con quest’ultima. Tuttavia, su tutti, dominano la figura e il pensiero di Edgar Morin, cui Rabbito è debitore non soltanto del concetto dell’uomo demens (come modalità di neoarcaismo con cui l’uomano si rapporta con il materiale visuale, ossia come forma di abbandono all’irrazionale, ai sensi, alla stregua di un pensiero ‘selvaggio’ à la Levi-Strauss) ma, più in generale, è il fulcro dell’intero ragionamento presente in questo studio: la disquisizione filosofica del pensatore francese – che spazia vertiginosamente tra cinema, società, antropologia e psicologia – accompagna la linea evolutiva tracciata da Rabbito alla ricerca – in qualche misura, forse, anche teleologica – dell’immagine archetipica, di quella, cioè, che rende possibile tutte le varie manifestazioni iconiche con cui l’uomo, epoca per epoca, entra in relazione.
I sette capitoli in cui il libro si articola presentano così una narrazione densa di riferimenti – talvolta epistemici, talvolta ermeneutici – che mettono in luce la complessa organicità del pensiero dell’autore e la profonda conoscenza della materia. Senza darne un’evidente demarcazione, il volume è divisibile in due parti. La prima sezione (capp. 1, 2 e 3) è dedicata alle immagini “classiche”, ossia alle forme di rappresentazione che l’uomo ha realizzato brevi manu, come resa manifatturiera del proprio ingegno e del desiderio di fornirne un racconto visuale, a cui attribuire differenti significati a seconda del contesto di realizzazione. In particolare, nei primi tre capitoli, l’autore si addentra in alcune fasi storiche dell’Arte, immergendosi (proprio come se si trattasse di una pratica virtuale) fino ai meandri dell’arcaicità e dell’esperienza dell’arte rupestre: partendo dai dipinti della grotta di Chauvet e dialogando con i suoi riferimenti teorici (i già citati Sartre, per cui l’immagine è un modo di manifestazione della coscienza, e Morin), Rabbito traccia le basi del rapporto uomo-immagine, facendo emergere, da subito, l’incessante necessità umana di rispecchiarsi e di confrontarsi in e con un doppio della realtà. Qui, l’autore fornisce innanzitutto il perché del titolo scelto, proponendosi fin da subito di dimostrare come la natura “quasi” dell’elemento iconico (tradizionalmente accusato di imitare e, in parte, di riprodurre con scarto la realtà) tenderà inevitabilmente, con il proseguire del volume e con l’avanzata della Storia, a mutarsi in “più”, ossia in una forma aumentata, che va al di là della realtà, spesso sostituendosi a essa o fornendone delle alternative. Nel prosieguo della trattazione, l’attenzione si rivolge al periodo rinascimentale e, soprattutto, al Barocco, momento in cui, per l’autore, si evidenziano i prodromi della “futura nascita delle immagini tecniche” (p. 101). In questo passaggio, l’immagine viene dapprima messa in relazione con le pagine di Foucault e poi con i fondamenti della teoria semiotica, con l’obiettivo di giungere, nella seconda sezione del volume, a un graduale affrancamento dalla lettura linguistica, come peraltro esplicitamente dichiarato dai Visual Studies e dal pensiero di W.J.T. Mitchell, cui Rabbito si confronta nella sua trattazione anche per evidenziare il potere immediato dell’immagine. Il Barocco assurge a esemplificazione di come l’elemento visuale sia in grado di creare illusione, altri mondi e dunque, potenzialmente, altre realtà, come risultato del doppio di cui è evidenziabile anche un apporto quasi magico. Da qui in poi, il concorso dei Visual e Media Studies si fa via via più imponente e i successivi capitoli (4, 5 e 6) danno spazio alla trattazione di un’immagine “nuova”, quella cioè generata e definita dalla tecnologia. Non più, dunque, una “quasi-realtà” di sapore sartriano, ma piuttosto una nuova e “più-realtà”, cioè a dire un’effettiva mutazione ontologica dell’ente. Il doppio viene meno, a vantaggio di una identità differente, inevitabilmente separata dal suo referente, fino alla creazione digitale e algoritmica che, pur non avendo alcunché di reale (cioè essendo il frutto di una pura rielaborazione di dati) è tuttavia in grado di facilitare la comprensione di un fenomeno reale, emergendo come una chiara forma di relazione ermeneutica: è cioè un’immagine, ontologicamente falsa, che diviene heideggerianamente apofantica di qualcosa di vero e tangibile. In questi capitoli, l’attenzione dell’autore si orienta dapprima verso il cosiddetto neoarcaismo, reso possibile dalla “centralità dell’immagine – nuova – della società contemporanea” (p. 161) e su quella tripartizione sapiens-ludens-demens che viene gradualmente esplicitata, fino a celebrarne la necessaria vivacità di fronte al medium iconico. Conseguentemente, esplorando esperienze cinematografiche, casi audiovisivi e azioni di vita quotidiana sui social ritenuti esemplificativi, Rabbito delinea l’attualità dell’immagine e il suo potenziale costitutivo dell’esperienza umana nella condizione postmediale, evidenziando anche i possibili rischi che derivano da una tale propulsione (come il proliferare delle fake news e delle cosiddette verità parallele). Con l’ultimo capitolo (7), il cerchio si chiude, tornando sull’opera di Edgar Morin, faro incontrastato del lavoro analitico di Rabbito: il pensiero del filosofo dialoga nuovamente con studiosi di varie discipline, con un’attenzione specifica a commenti in chiave mediologica e filmologica, nel tentativo, da un lato, di celebrare l’acume del ragionamento anche pionieristico di Morin e, dall’altro, di aprire le porte a un’ulteriore continuazione dell’indagine. Giacché, come sottolinea lo stesso Rabbito, le nuove immagini devono essere lette “dalla prospettiva” dei Visual Studies ma anche, aggiungerei, con la prospettiva di individuare innovative forme di relazione tra il medium visuale e il suo fruitore per eccellenza, l’uomo, anche aiutandolo a gestire i sempre maggiori flussi di immagini che la tecnologia consente di generare e a districarsi in una complessità di fondo che sorregge la sua stessa esistenza.