Nei primi anni Cinquanta (presumibilmente il 1951 o il 1952), una famiglia parmense in villeggiatura – composta dal padre Attilio e dai figli Bernardo e Giuseppe – si reca presso un’arena estiva di Forte dei Marmi dove viene proiettato Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarves, 1937). L’apparizione della Strega “nella sua versione grifagna” causa più di una preoccupazione nel papà, il quale, temendo che il più piccolo dei bambini rimanga traumatizzato, gli copre gli occhi con un “vecchio panama bianco” (Bertolucci 2011, 187). Giuseppe descriverà questo battesimo cinematografico come “un’esperienza scopica […] fortissima”, legata inestricabilmente a sensazioni olfattive: “un acuto, acre, ma esaltante odore di sudore, il sudore di mio padre” (Bertolucci 2011, 187). Questa visione “interrotta” (Zagarrio 2021, 20) lascia un marchio indelebile nel ragazzo e nel fratello Bernardo. Negli anni a venire, entrambi i Bertolucci hanno giudicato quel momento come l’occasione in cui hanno cominciato a individuare nel mezzo cinematografico uno strumento allo stesso tempo di esaltazione sensoriale e di appagamento di queste stesse pulsioni. Questo nucleo famigliare non è composto da movie-goer ordinari, non si tratta di quell’anonima massa di famiglie il cui nome si è disperso nel corso del XX Secolo e il cui battesimo filmico è stato officiato proprio da Biancaneve (Brunetta 1989, IX-X); sono i Bertolucci, intellettuali che spazieranno tra diverse forme espressive e che, proprio nell’atto della frequentazione della sala (e nel retroterra culturale parmense), troveranno il motore propulsivo della loro pratica artistica, spesso trasfigurandolo anche nelle loro opere.
La ricerca accademica ha riconosciuto, in ambito italiano a partire dai lavori fondamentali di Gian Piero Brunetta e di Mariagrazia Fanchi (Fanchi 2014), la rilevanza dell’esperienza antropologica dei movie-goer all’interno di un paradigma per lo studio di storia del cinema che, oltre al film, consideri un allargamento di prospettiva attraverso una contestualizzazione storico-sociale e culturale della fruizione di quest’ultimo (Fanchi, Mosconi 2002, 8). Questa angolazione di ricerca sul rapporto autore-testo filmico-spettatore ha accolto e stratificato numerosi stimoli metodologici, tra cui quello semio-pragmatico (Odin 2013), profilandosi come un punto di intersezione transdisciplinare. Il cinema viene così inquadrato come medium di relazione/interazione (oltre che di rappresentazione) e come spazio (fisico e virtuale) di rinegoziazione di valori e identità sociali (Fanchi, Mosconi 2002, 9; Steiger 1992, 8). Recarsi nella sala cinematografica è una delle esperienze che hanno caratterizzato la modernità novecentesca (Casetti 2005): le folle di tutto il mondo scelgono di impiegare il loro tempo libero – categoria nata in seguito alle trasformazioni della rivoluzione industriale e alle conquiste operaie e sindacali che hanno operato una differenziazione concettuale tra leisure e tempo del lavoro (Sorcinelli e Tarozzi 1999) – uscendo di casa e pagando un biglietto per assistere a una proiezione in compagnia di sconosciuti. L’enunciazione filmica incontra così lo spettatore e ne determina il posizionamento in rapporto al materiale narrato (Casetti 1986); oltre al dialogo con il testo audiovisivo, altrettanto determinanti nel processo esperienziale della sala sono i fattori percettivi legati al luogo e alla corporalità del pubblico presente. Una topografia del cinema, nei termini concettualizzati da Gian Piero Brunetta, si configura nella relazione tra gli spazi e i loro elementi dove un ruolo consistente è giocato proprio dal corpo dello spettatore, “punto di coordinazione e smistamento di stimoli che giungono da vari livelli dei suoi apparati sensoriali […] nucleo di produzione immaginativa dotato di differente autonomia e portata” (Brunetta 1989, XX). Come esemplificato dal ricordo del giovane Giuseppe, l’esperienza cinematografica non è esclusivamente audiovisiva ma è legata ad altre sensazioni percettive in cui lo sguardo e il testo filmico coordinano le dimensioni circostanti (Brunetta 1989, XXI). La sala cinematografica si configura quindi per lo spettatore come un territorio di confluenza di diverse spazialità: quella tattile, quella termica e quella uditiva che si intrecciano in un limbo intermedio “dove si incontrano immagini mentali, immagini reali e proiezioni fantasmatiche” (Brunetta 1989, XXII).
La presente ricerca si propone di studiare una famiglia, quella dei Bertolucci, in quanto nucleo di spettatori ‘illustri’ per una serie di ragioni: 1) trattandosi di intellettuali, Attilio, Bernardo e Giuseppe hanno lasciato numerose tracce scritte (ma non solo) in cui viene elaborato il ricordo della frequentazione del cinematografo; 2) per tutti loro, l’andare al cinema marca, come si è detto, un momento nodale del processo creativo che, a sua volta, trasfigura e ripropone sotto forma artistica l’esperienza stessa; 3) nonostante la matrice comune, ognuno elabora un differente profilo di cinefilia legata alle diverse traiettorie biografiche e alla varietà dei linguaggi adottati per veicolare il ricordo della sala. Il saggio verrà quindi articolato in tre sezioni, autonome ma interconnesse, dedicate ai protagonisti che trovano nella proiezione di Biancaneve un momento di convergenza spettatoriale. Al fine di ricostruire il rapporto dei Bertolucci con la sala, sono stati analizzati monografie e articoli scientifici, rielaborazioni artistiche (filmiche e poetiche), memoriali, interviste pubblicate e materiali inediti raccolti nell’Archivio Bertolucci, al momento conservato presso la Cineteca di Bologna.
Prima di procedere con l’analisi dei singoli profili, è necessario definire con precisione cosa si intende per “cinefilia”, termine ombrello che verrà applicato a tutti e tre i protagonisti di questo articolo. Roy Menarini definisce il cinefilo come una “persona talmente appassionata di cinema da considerare la visione come la più alta esperienza estetica ed intellettuale possibile” che privilegia la fruizione nella sua dimensione artistica, rispetto al mero consumo del film inteso come prodotto commerciale (Menarini 2018, 13). Riprendendo le teorizzazioni di Antoine de Baecque, lo studioso afferma quindi che la cinefilia
si distingue dal semplice piacere di andare al cinema per il fatto stesso di presupporre e istituire un comportamento sociale e culturale che guidi l’atto di guardare i film consapevolmente, costruire un sapere incontro alle opere cinematografiche e condividerne la passione attraverso regole e comportamenti di tipo precettistico (Menarini 2018, 14).
La pratica cinefila è sovradeterminata dalla storicità, dalle trasformazioni tecnologiche e sociali che la rendono possibile; Menarini distingue diverse fasi che si sono susseguite dagli esordi del cinema fino al nuovo Millennio (Menarini 2018, 14-21): classica, moderna, militante, magnetica, postmoderna e nuova cinefilia. Se in seguito vedremo a quale “stazione” della cinefilia corrispondono i membri della famiglia Bertolucci, introdurremo qui in modo conciso le caratteristiche peculiari dei vari stadi individuati dall’analisi di Menarini. Gli esordi del cinema sono segnati da una fase “classica” che ha come luoghi d’elezione il ciné-club o la sala, spazi in cui generare un discorso collettivo tra appassionati che fa ricorso a una vera e propria “mistica” nei confronti del film (Menarini 2018, 14-15); segue il momento “moderno”, legato al periodo del secondo dopoguerra, in cui le ideologie da Guerra fredda inizialmente si innervano nelle pratiche critiche per poi discostarsene e trovare la propria indipendenza quando viene posta al centro del dibattito la “politica degli autori” (Menarini 2018, 15-17). Gli anni Sessanta e Settanta sono segnati da una fase “militante”, altamente politicizzata che raccoglie istanze dalla psicanalisi e dal post-strutturalismo (Menarini 2018, 17-18), a cui farà seguito la “cinefilia magnetica”, caratterizzata dalla fruizione televisiva e dall’uso di un supporto come il videoregistratore (Menarini 2018, 18-19). Tappe finali di questo percorso sono il “postmoderno”, marcato dalla riscoperta di opere e generi prima esclusi dal canone del giudizio critico, e la “nuova cinefilia” dove la passione per il cinema è animata da dibatti introno al film condivisi sulle piattaforme social. In questa fase, il nuovo centro pulsante del discorso critico è Internet, spazio virtuale che soppianta la sala (Menarini 2018, 20-21). Come si vedrà, i Bertolucci sono tutti egualmente definibili come cinefili ma corrispondono a differenti stagioni dell’amore per il cinema.
In questa sede si cercherà di non focalizzarsi (per quanto possibile, visto che si tratta di temi inestricabilmente connessi) sui giudizi espressi su film e registi, ma di concentrarsi esclusivamente su come l’esperienza della sala viene descritta e ricordata dai tre; si proverà quindi a dare preminenza al ‘luogo cinema’ rispetto al testo filmico e alla pratica di fruizione. Si procederà in ordine anagrafico partendo dal membro della famiglia più anziano, Attilio, per poi procedere col figlio maggiore, Bernardo, concludendo con il più giovane, Giuseppe. Per ragioni di spazio, ci si occuperà solamente del padre e dei due figli, ma è obbligatorio qui segnalare che uno studio esaustivo, che si dispieghi su spazi di pubblicazione necessariamente più ampi, dovrebbe includere le donne del ‘clan’ Bertolucci, la madre Ninetta Giovanardi e le mogli dei due registi: Lucilla Albano e Clare Peploe, studiosa di cinema la prima, regista e sceneggiatrice la seconda. In attesa di un tale lavoro, il primo paragrafo sarà dedicato al profilo del poeta Attilio.
1 Attilio: la trasfigurazione della sala in poesia
Attilio Bertolucci nasce a San Prospero Parmense nel 1911 e vive tra Parma e Roma; nel corso della sua esistenza, si impone come una delle voci intellettuali più importanti del Novecento italiano. Oltre alle professioni di insegnante e di poeta, svolge il mestiere di critico cinematografico, di traduttore e di direttore di riviste. Pur non passando mai dietro la macchina da presa – se non nel ruolo di sceneggiatore per alcuni corti di Antonio Marchi e per l’unico lungometraggio di quest’ultimo, Donne e soldati (1954) –, il cinema ricopre un ruolo centrale nei suoi orizzonti culturali e costituisce una costante ispirazione per il suo poetare. Per il pater familias, recarsi al cinematografo è un’abitudine che appartiene tanto alla sfera del leisure quanto a quella lavorativa: per La Gazzetta di Parma deve infatti recensire i film in uscita nei locali parmensi.
Coincidente con la fase della cinefilia ‘classica’ descritta da Menarini, il rapporto di Attilio con la sala è di tipo strettamente emotivo arrivando fino a ricadute psicosomatiche; come avverrà per Bernardo, la visione del film ha la portata di un evento epifanico. Il cinema ha un potenziale di disvelamento del mistero del reale, al pari di altre forme d’arte. Bertolucci descrive così il suo atteggiamento davanti allo schermo:
Mi accorgo che quello che ho sempre cercato e sempre cercherò sia al cinema come nella letteratura e nella musica, sono questi momenti lirici, apparentemente comuni, ma così profondamente carichi di poesia. […] Insomma è la presa di coscienza improvvisa, la Rivelazione dell’intima qualità delle cose attraverso il susseguirsi di istanti nei quali il dramma stesso acquista una sua vita artistica assoluta, in uno stato di grazia che permette prima all’autore poi allo spettatore di elevarsi al di sopra delle contingenze e delle miserie dell’esistenza (Bertolucci 2009, 36).
Rievocando l’inizio della sua frequentazione della sala, ricorda, in un articolo apparso sulla Gazzetta di Parma del maggio 1953, come da adolescente avesse “abbandonato” il teatro per il cinema “cui indirizzavano dalle riviste d’avanguardia pionieri fiduciosi e imprecisi, ma contagiosissimi”. L’amore per il grande schermo avviene in contemporanea con la scoperta di un gruppo di scrittori che viene qualificata come “la marcia dei moderni”. I film hollywoodiani degli anni Venti sono densi di atmosfere e personaggi (flapper girl, gangster) che il poeta associa agli universi narrativi di Francis Scott Fitzgerald e di Ernest Hemingway, a una libertà e a uno sperimentalismo irreperibili nel cinema italiano, “perdutosi nell’occaso assurdo e patetico del primo dopoguerra romano”. Anche nei decenni successivi, il rapporto conflittuale di Attilio con la cultura statunitense, un’America che è allo stesso tempo “primo amore” ma anche “amara”: la fascinazione del poeta per il Nuovo Mondo passa attraverso i riferimenti che vanno tanto dai divi del muto come Douglas Fairbanks che “grottescamente librato / sulla pellicola rigata i salti” (Bertolucci 2001, 304), quanto al jazz e a scrittori come Edgar Allan Poe, Nathaniel Hawthorne, Herman Melville e Walt Whitman.
Informandosi sulle riviste di settore (incluse quelle francesi), i giovani parmensi vanno alla ricerca “con un certo batticuore” di sale che proiettino i film ben recensiti (Bertolucci 2009, 402-403). Attilio si siede sulle gradinate (Bertolucci 2009, 447) o nelle poltrone dei teatri del centro (per lo più Lux, Edison e Orfeo) insieme agli amici cinefili (Pietro Bianchi, Cesare Zavattini e Antonio Marchi) o con l’amata Ninetta dove condividono la platea di quello che viene chiamato “l’antro di Aladino” con soldati in libera uscita, annunciati “dallo sferragliare di scarponi” (Palli Baroni 2009, 23-24). Dalla casa in campagna, Attilio porterà i figli in città per assistere alle proiezioni; come si vedrà, questo pendolarismo cinematografico porterà i due futuri registi ad indentificare Parma con il cinema. Anche nei suoi componimenti, il poeta inserisce spesso le sale per descrivere il paesaggio urbano parmense. Nel poema e “romanzo familiare” (Bertolucci 2011, 13) La camera da letto, pubblicato la prima volta nel 1988, enumera le “tentazioni” cittadine durante l’estate: “dai nuovi film alle nuove ragazze, comprese quelle a pagamento” (Bertolucci 2012a, 191). In un capitolo successivo, quando deve descrivere i pomeriggi del dicembre 1928 degli studenti del Liceo Classico Romagnosi, descrive i loro luoghi di aggregazione: “due caffè, due / teatri, quattro cinematografi, uno / anche con un varietà, due librerie ben fornite” (Bertolucci 2012a, 207-208). Il cameratismo tra ragazzi si configura come la condivisione di esperienze culturali, inclusa quella della sala: il gruppo di amici viene ritratto come composto da “compagni di lettura e, presto, di proiezioni / mediocattivi alunni liceali, svegli / testimoni del moderno in via di rivelarsi” (Bertolucci 2012a, 212). Sono tante le ore passate dentro i cinema, la cinefilia diventa una passione monopolizzante che divora il tempo di Attilio, anche a scapito della scrittura: nel 1934, Bertolucci invia una lettera a Zavattini in cui sostiene di guardare almeno un film al giorno (segnalando la visione di “bei vecchi Charlot”) e che per tale ragione ha smesso di scrivere non solo “il romanzo, ma neanche più le poesiole” (Bertolucci 2009, 23).
La ricerca di determinati titoli spinge il poeta-cinefilo dalla campagna verso la città, verso altri paesi – si reca a Felino solamente per assistere a La terra trema (1948), assente nelle sale di Parma (Bertolucci 2009, 343) – e oltre: Attilio arriva a viaggiare fino a Milano per vedere film (perlopiù britannici) che in provincia non vengono distribuiti (Bertolucci 2009, 256). Bertolucci non solo ha viaggiato in cerca di cinema ma è stato anche organizzatore di eventi cinematografici. Fin dagli anni del fascismo, insieme ad amici, tra cui il già citato Pietro Bianchi, fonda i primi due cineclub d’Italia, uno nella città natale e l’altro ad Imola, dove vengono proiettate pellicole ancora inedite, alcune fornitegli da Roberto Longhi (Bertolucci, 2009, 51). Questi film verranno fatti circolare per i GUF di tutto il Nord Italia: su invito di un amico, Attilio porta a Mantova una copia di Sinfonia Nuziale (The Wedding March, 1928) ma rimarrà profondamente deluso dalla scarsa affluenza di pubblico (Bertolucci 2009, 51).
Il cinema è per lui, come lo sarà per il figlio maggiore, un’ossessione che prende possesso non solo del suo immaginario ma del suo stesso corpo: Bernardo ricorda come il padre fosse abituato a misurarsi la febbre durante le proiezioni, infilandosi un termometro sotto l’ascella e verificando ‘scientificamente’ le reazioni fisiologiche a quanto mostrato sullo schermo (Bertolucci 2021a, 19). Un altro celebre aneddoto rimanda alla dimensione corporale del movie-going (o, in questo caso, della sua attesa): intorno alla metà degli anni Venti,1 una copia di Aurora (Sunrise: A song of Two Humans, 1927) di Friedrich Wilhelm Murnau doveva essere consegnata da Bologna al cinema Edison di Parma ma, a causa di un problema, lo spettacolo venne posticipato. Attilio ricorda come questo inconveniente gli causò una febbre isterica (Lo Porto 2016, 464; Palli Baroni 2009, 24; Bertolucci 2009, 403). L’impatto delle immagini sullo spettatore è amplificato nel caso dei film muti, dove è assente la distrazione di dialoghi mediocri: “una sovrimpressione, un primissimo piano avevano in sé una forza incredibile, la forza d’ogni trovato tecnico di linguaggio artistico nel suo fiorire improvviso” (Bertolucci 2009, 403). L’arrivo del sonoro comporta un ripensamento integrale dell’esperienza cinematografica, e causa le prime divergenze con gli amici: mentre Attilio privilegia la dimensione visiva, Pietro Bianchi assegna un ruolo dominante alla narrazione e alle psicologie dei personaggi (Alviani 2014, 71).
La visione può essere attesa fino alla sensazione di malessere ma la scelta dello spettacolo può essere anche casuale: ne La camera da letto, una sera A.[ttilio] e N.[inetta] scelgono di dedicare una serata a un film, accontentandosi di quanto viene programmato nelle sale locali e dichiarandosi pronti a farsi stupire da pellicole di cui non sanno nulla.2 Non è questa la sede per ricostruire nel dettaglio quali fossero i gusti cinematografici di Bertolucci padre ma, ai fini di comprendere il suo rapporto con il ‘luogo cinema’, è necessario ricordare cosa emozionasse il poeta-cinefilo. Attilio è uno spettatore onnivoro che, se da un lato nelle sue recensioni depreca il lato commerciale della produzione hollywoodiana e lo contrappone al rinascimento neorealistico – pur avendo in precedenza disdegnato “per antifascismo viscerale” il cinema italiano, con l’eccezione delle commedie di Camerini (Bertolucci 2009, 49) –, dall’altro è profondamente affascinato dall’immaginario americano: John Ford è per lui “il bardo del lontano Occidente” (Bertolucci 2009, 42), quasi una reincarnazione in salsa western del genio shakespeariano, e la sua passione per i film con i “cappelloni” (i cappelli dei cow-boy) accenderanno tanto la sua fantasia quanto quella dei suoi figli.
La sala per Attilio è sia un rifugio familiare sia una meta per le scorribande con i coetanei, ma è anche una protezione (insufficiente) per le incombenti atmosfere guerresche del periodo tra le due guerre (Brunetta 1989, 221): “Non basterà cacciarsi al sicuro / nelle catacombe dell’Orfeo, del Centrale, del Lux, / maschere di celluloide delirando nel buio” (Bertolucci 2012a, 262-263). Lo schermo cinematografico, configurato come dispositivo di protezione, verrà ripreso anche da Bernardo nella scena inziale di The Dreamers – I sognatori (The Dreamers, 2003) in cui Matthew (Michael Pitt) dichiara che la superficie di proiezione metteva al riparo la sua generazione di cinefili dal mondo (“Maybe, too, the screen really was a screen. It screened us from the world”). Come i sognatori non potranno evitare che la realtà del Sessantotto entri dalla finestra, così ne La camera da letto i rastrellamenti nazisti fanno irruzione nel finale.
Se il cinema è un luogo protetto in cui rifugiarsi, al medesimo tempo il film instilla nuovi sogni e desideri tra gli spettatori: un passaggio de La Camera da letto descrive come i cinematografi irradiassero le vie con “inviti impudenti” a entrare nelle sale ornate con “marmi policromi”, mentre fuori la pioggia (e la realtà) bagnava le strade.3 Il verso “aprite, cinematografi” mostra la porosità dell’immaginario cinematografico in rapporto allo spazio urbano: quest’ultimo viene invaso dai richiami dello schermo che ipnotizzano i passanti disposti ad ascoltarle e trascinandoli nel buio della sala. Attilio e i suoi figli saranno tra coloro che da questi canti delle sirene verranno sedotti.
L’esperienza del cinema forma l’immaginario di Bertolucci tanto da paragonare in un verso la moglie Ninetta a Greta Garbo (Bertolucci 2012a, 265) e la sua stessa scrittura adotta soluzioni e stilemi di linguaggio cinematografico per arricchire il suo repertorio poetico e narrativo: come si può vedere nel XLIII capitolo de La camera da letto, vengono richiamate le didascalie del muto4 e spesso nelle descrizioni il poeta realizza delle vere e proprie ‘zoomate’. Attilio trasfigura la sua passione per il cinema nella sua opera su carta, riportando con frequenza riferimenti all’universo cinematografico e alla sua passione per la sala. Una poesia di ambientazione campagnola, presente nella raccolta Viaggio d’inverno (1955-1970), si intitola Pensieri assistendo a 2001: Odissea nello spazio (Bertolucci 2001, 276) mentre ne La lucertola di Casarola (apologo) un rettile sul portale della villa di campagna viene paragonato ai dinosauri di Steven Spielberg e Michael Crichton (Bertolucci 2001, 369). Anche i protagonisti del far-cinema dei figli entrano nelle composizioni di Attilio come nel caso di Clémenti in carcere dedicata a Pierre, protagonista del Partner (1968) di Bernardo.
2 Bernardo: a life in picture
Bernardo Bertolucci nasce a Parma nel 1941; seguendo le orme del padre, inizia una carriera come poeta pubblicando la raccolta In cerca del mistero (1962) ma, quasi in contemporanea, si innamora della vita del set facendo da aiuto regista per Pier Paolo Pasolini. Dopo l’esperienza di Accattone (1961), esordisce come regista perseguendo una via che lo porterà a diventare uno dei più importanti registi del mondo, fino a vincere l’Oscar per Miglior Film con L’ultimo imperatore (The Last Emperor, 1987).
Per Bernardo il rapporto con la Settima Arte passa inevitabilmente attraverso la figura del padre (Pistagnesi 2011, 19-20; Guerra 2011, 67-68): il film-maker ha ricordato come, alla fine degli anni Quaranta, Attilio fosse solito rientrare la sera nella casa a Baccanelli e dettare al telefono le recensioni dei film per la Gazzetta di Parma (Bertolucci 2021a, 17). Il genitore insegna ai figli tanto il linguaggio poetico quanto “a vedere il cinema, ad amare il cinema, a sognare il cinema” (Bertolucci 2009, 23); la passione cinefila viene così ereditata, insieme all’amore per il mondo contadino (Aprà, Ponzi 2016, 23). Come già accennato, i viaggi dalla campagna alla città per andare in sala lasciano una forte impressione sul giovane Bernardo che racconterà: “Abitavamo in campagna, vicino a Parma, e lui [Attilio, nda] mi portava in città molto spesso: vedevo molti film, molti pezzi di film, e conoscevo tutte le maschere dei cinematografi di Parma, i primi cinematografi che ho conosciuto e ammirato” (Aprà, Ponzi 2016, 23). Come Giuseppe, anche il figlio maggiore rimane sconvolto dalla visione di Biancaneve all’arena estiva. Negli appunti per un’intervista in occasione della Mostra del Cinema di Pesaro incentrata sul rapporto tra film ed erotismo, Bertolucci cita la scena in cui la principessa corre nella foresta e viene spogliata dai rami degli alberi. Il regista ricorda di avere pianto e inquadra la sequenza come un momento di passaggio freudiano che innesca le sue fantasie sessuali e come il superamento della sua fase pre-genitale. Il dialogo prosegue passando dal classico Disney al racconto della visione di La vera gola profonda (Deep Throat, 1972) e dei film di Nagisa Oshima per arrivare al set di Ultimo Tango a Parigi (1972) e a L’ultimo imperatore.5
L’approccio del padre allo spettacolo cinematografico rivive nel figlio: tanto nella sua dimensione corporale ed epifanica quanto in quanto in quella di ispirazione creativa. Nella raccolta poetica di Bernardo fanno capolino citazioni provenienti dall’universo filmico, come in I cani costieri, dove una coppia viene paragonata agli amanti dei film di Kenji Mizoguchi (Bertolucci 2021b, 74-75). In un altro componimento dedicato a Elsa Morante, il poeta si qualifica già come cineasta e usa una metafora cinematografica per descrivere la realtà circostante: “Ma il poeta sei tu. Io mi perdo / nella foresta (della pellicola) vergine / dei 24 fotogrammi al secondo / che col mondo parlando del mondo” (Bertolucci 2021b, 104-105). Nei film di Bertolucci la frequentazione della sala è un motivo ricorrente: si pensi, oltre alla già citata scena di iniziale di The Dreamers, anche alla celebre sequenza al cinema Orfeo e alla seguente discussione sull’importanza di Rossellini in Prima della rivoluzione (1964), oppure alla scoperta del sesso tra le poltrone dell’Adriano di Roma durante una proiezione di Niagara (1953) ne La Luna (1979). In quest’ultimo caso, i due giovani protagonisti hanno un rapporto simbiotico con il film proiettato: il parlato (doppiato) della pellicola si mischia ai loro dialoghi e lui dice a lei che è “better than Marilyn Monroe”. L’esperienza cinematografica e sessualizzante è totale, gli altri spettatori sono uno sfondo inerte. La dimensione epifanica del cinema è sottolineata dall’improvvisa apertura del soffitto dell’edificio (per fare uscire il fumo degli spettatori) e dalla rivelazione di una luna piena che ipnotizza lo sguardo del protagonista. Bernardo è così affascinato dall’atto del guardare attraverso un dispositivo scopico (in una lettera a Paul Schrader sostiene che “the pleasure of filming” implica “the pleasure of looking”6) che in Prima della Rivoluzione mostra un antecedente dello schermo cinematografico: i personaggi fissano la camera ottica di Fontanellato, il loro amore si rivelerà grazie alla “segregazione spaziale” che la superficie schermica mette in atto (Guerra 2011, 74). Anche in Partner, l’osservazione dello spazio urbano romano attraverso l’abitacolo di un bus ricorda una proiezione (Di Marino 2011, 83).
A differenza del padre, l’attività cinefila di Bernardo è riconducibile alla generazione della nouvelle vague (de Baeque 1993,285-287) –: in un appunto su Ultimo Tango, descrive anche il suo rapporto col cinema: “cinema sul cinema, erede diretto della cinephilia [sic] dei sixties [sic], un cinema in cerca della sua identità innamoratissimo di Renoir, di Rossellini, di Ophuls, di Sirk, di Renoir [sic], di Godard, di Renoir [sic] […]”.7 Il rapporto viscerale di Bertolucci con la sala lo segue per tutta la sua vita, per lui la Settima Arte costituisce una vera e propria “magnifica ossessione” (Bertolucci 2010). Ricorderà orgoglioso di non aver frequentato nessuna scuola di cinema: secondo lui, per fare buoni film bisogna vederne il maggior numero possibile. L’ormai già anziano regista afferma che l’unica ragione per frequentare un corso di cinema consiste esclusivamente nella possibilità di reperire pellicole ormai introvabili o nello scoprire capolavori dimenticati (Bertolucci 2012b, 115). Assistere a una proiezione (quindi entrare nel mondo che il film dischiude) provoca in Bernardo degli stimoli non solo intellettuali ma anche fisici, come avveniva al padre: per l’autore de Il conformista (1970), il rapporto con la visione è finalizzato al raggiungimento del “piacere”, un “piacere” non necessariamente legato alla felicità ma che “può essere fatto di dolore, di sangue anche” (Campari 1994, 12). Il godimento fisico, finanche sessuale, non è tanto suscitato dalla narrazione quanto dallo stile: Bernardo ha in più occasioni ricordato le sensazioni provate durante la proiezione di Il piacere (Le plaisir, 1952), visto in una sala di Parigi insieme a Clare, e ha paragonato i dolly a delle erezioni e le carrellate a delle penetrazioni (Campari 1994, 12). Sovrastato dall’emozione, il regista ha dovuto abbandonare il cinema dopo il primo dei tre episodi che compongono il film (Lo Porto 2016, 464).
Come per Attilio, per Bernardo la passione cinefila è soprattutto condivisione di esperienze e consigli di visioni con gli amici. In una scrittura privata, ricorda l’incontro con Gianni Amico tra il 1962 e il 1963: il rapporto tra i due inizia con uno scambio, Bertolucci lo introduce alle bellezze di Parma (il Battistero, le poesie di Attilio e l’opera verdiana) ricevendo in cambio Jean-Paul Sartre, John Coltrane e Glauber Rocha. Tra i due scoppierà la scintilla quando entrambi menzioneranno Jean-Luc Godard, oggetto di un comune amore: l’appunto si conclude con “È chiaro che da Gianni ho imparato se non tutto, moltissimo. E spero, ricambiandolo”.8 Le loro scorribande cinematografiche verranno trasposte in Prima della Rivoluzione nella già citata scena dove Fabrizio (Francesco Barilli) si reca al Supercinema Orfeo di Parma per la visione di Una donna è una donna (Un femme est une femme, 1961). Gianni Amico interpreta l’amico del protagonista che pronuncia la celebre battuta sull’impossibilità di vivere senza Roberto Rossellini. Per tutta la sua vita, Bernardo intratterrà scambi epistolari con scrittori, registi, intellettuali e politici scambiandosi opinioni sul cinema presente e passato. Con l’amico critico Morando Morandini inframezzano lettere “di lavoro”, legate alla circolazione dei film nel circuito dei festival, con continui commenti su quanto visto in sala, passando dalle opere del muto scandinavo fino ai musical di Vincente Minnelli9
Oltre che di amicizia, per il regista il cinema è un luogo d’amore: ci va spesso con Clare e insieme discutono dei rispettivi gusti. Spesso è lei a trascinare lui nella sala: ad esempio, quando, subito dopo essersi incontrati, lo porta a vedere Perfidia (Les Dames du Bois de Boulogne, 1945) di Robert Bresson, film che lo segnerà al punto da citarlo esplicitamente nei suoi lavori successivi, tra cui The Dreamers (Sklarew 2016, 373). Proprio in quest’opera, il regista configura una distinzione tra due tipologie di esperienze in sala: quella cinefila e quella ‘borghese’. Nel primo caso, la scena iniziale mostra il protagonista avere un rapporto di rapimento erotico durante una proiezione de Il corridoio della paura (Shock Corridor, 1963) alla Cinémathèque Française: le immagini sullo schermo sono distorte in quanto viste dall’angolatura di Matthew e un movimento di macchina mette in relazione il fascio di luce del proiettore, lo spazio della sala e le teste degli spettatori. Un montaggio di controcampi alterna quanto avviene sullo schermo con i volti rapiti dei protagonisti. Fuori campo, la voce del protagonista chiarisce il suo rapporto ossessivo con i film. Nel secondo caso, Matthew si reca al cinema insieme a Isabelle (Eva Green), stavolta il loro trasporto amoroso è dominante e lascia la proiezione di sottofondo. Mentre la visione alla Cinémathèque è vissuta attraverso le prime file, dove gli spettatori catturano per primi le immagini e l’esperienza cinematografica è vissuta tramite quella cinefilia totalizzante tipica della generazione della nouvelle vague (de Baeque 1993, 18-19), nella scena dell’appuntamento romantico la coppia si siede nelle ultime file perché impegnata a fare altro. Bertolucci mette in scena un forzato incontro romantico ‘borghese’ in cui la frequentazione del cinema diventa utilitaristica: serve a consolidare un rapporto secondo i canoni benpensanti, non a vivere un’erotizzazione della proiezione. La sala smette di configurarsi come il tempio dei cinefili e si riduce a sfondo di una relazione convenzionale (e fallimentare).
Come i protagonisti di The Dreamers, anche Bernardo è stato un assiduo frequentatore della Cinémathèque: nell’archivio, è conservato un programma di una rassegna che si è tenuta presso la cineteca francese (allora ospitata nel Palais de Chaillot) nel 1965, dove il ventenne regista ha con cura sottolineato a mano i film o gli autori di suo interesse: tra gli altri, Jean Renoir, Roberto Rossellini e La Dolce vita (1960).10 Oltre alla curiosità per le opere degli altri, Bertolucci si reca anche a vedere i suoi stessi lavori: un fine settimana del 1970 – “un po’ come la messa della domenica mattina” –, entra ‘in incognito’ in un cinema parmense che proietta il suo Strategia del ragno (1970). In sala ritrova i volti (e le sensazioni) della sua adolescenza, la sala è come una capsula del tempo dove riaffiorano fantasmi del passato (Schadhauser, Mingrone, Chaluja 2016, 79-80). In una bozza per una lettera a Renato Nicolini, Bernardo scrive di avere partecipato a una proiezione del suo Novecento (1976) nella cornice della Basilica di Massenzio, nell’ambito degli eventi dell’Estate Romana: il regista ricorda come il sorgere della luna sulle rovine, “senza alterare la luminosità dello schermo”, creò un’atmosfera che, nonostante la commozione del pubblico per la recente morte di Pasolini, sprigionava “la felicità del sogno […] ad occhi aperti” in una “dimensione collettiva e popolare” .11 Sempre nella capitale, nel 1982 presenzia, “cinephile tra cinephiles”, nei locali del Centro Safa Palatino per uno screening illegale del censurato Ultimo Tango a Parigi; il regista descrive questo happening affermando che “occupando questa sala [i cinefili] hanno un po’ preso il loro Palazzo d’Inverno”. (Spila 2011, 120-121). Mentre il potere censura le opere d’arte, gli appassionati le riportano alla luce.
Nel corso della sua vita, il rapporto di Bernardo Bertolucci con la sala sarà continuo anche se a frequenze variabili. Se negli anni Sessanta dichiara di guardare quattro film al giorno, di non uscire mai prima della fine di uno spettacolo e che basta una scena a salvare il giudizio positivo su un’opera (Bontemps, Marorelles 2016, 16; Aprà, Ponzi 2016, 23), nel 1977 dirà a Andy Warhol di non riuscire più ad andare al cinema perché “non ci sono i film” (Warhol 2016, 191). In realtà la sua cinefilia lo tradisce poche righe dopo, quando Bernardo afferma che, poco tempo prima, aveva assistito a uno spettacolo in una sala che lo ha impressionato per l’arredamento in stile Pop Art (Warhol 2016, 194). La curiosità di Bertolucci per il cinema è inesauribile: in un’intervista del 1999, dimostra al lettore di essere perfettamente aggiornato sulle tendenze del cinema globale e dichiara un profondo interesse per le novità in arrivo dai giovani film-maker orientali. Il regista sostiene però che a essere cambiato è il suo sguardo: Bernardo afferma di aver smesso di ricercare nei film gli echi e le citazioni della storia del cinema (come faceva la sua generazione di cinéphiles) ma è affascinato dall’innocenza e dall’assenza di riferimenti ai classici che le cinematografie emergenti esprimono (Mirabella, Pitiot 1999, 73-74). L’interesse per il nuovo continua a stimolare anche le scritture private di Bernardo: in uno scambio epistolare con il montatore Jacopo Quadri, l’oggetto del dibattito è lo stile del cortometraggio L’amore non ha confini (1998), esordio di un allora ventisettenne Paolo Sorrentino.12
3 Giuseppe: riflessioni a partire da una ‘visione interrotta’
Giuseppe ha sei anni in meno di Bernardo e il suo ingresso nel mondo del cinema è meno immediato, la sua cinefilia meno totalizzante rispetto a quella del fratello a cui dovrà il battesimo sul set nel ruolo di aiuto-regista per Strategia del ragno. Il figlio minore di Attilio non si limiterà a essere autore cinematografico; nel corso della sua vita esplorerà altri linguaggi espressivi come la pittura, il teatro, la televisione e l’opera. Di rilievo è anche il suo incarico per numerosi anni come presidente della Cineteca di Bologna.
La sua traiettoria cinefila è divergente da quella del fratello, sebbene entrambe abbiamo il proprio momento aurorale nella citata visione di Biancaneve. La sua seconda memoria cinematografica risale a quando aveva dieci o undici anni, nella galleria del cinema Rialto di Roma: Ninetta lo porta a vedere Ordet – La parola (Ordet, 1955) di Carl Theodor Dreyer, Giuseppe ricorda la forte commozione e la totale identificazione “tra il personaggio della madre nel film e della mia mamma” (Bertolucci 2011, 187). Nella stessa sala, qualche anno dopo il giovane Bertolucci vivrà un'altra esperienza segnante: durante una proiezione di Cléo dalle 5 alle 7 (Cléo de 5 à 7, 1962), in platea, intravede qualche fila più avanti la ragazza di cui è innamorato abbracciata con un altro. Il regista non riesce nemmeno a verbalizzare lo shock provato: “Se trovassi le parole per dirvi quel che ho provato in quel momento, a quest’ora sarei scrittore” (Bertolucci 2011, 187-188). L’accumulo emozionale legato all’esperienza della sala è tale da sovrastare il piacere della visione e costituisce la premessa necessaria per l’approccio distaccato e analitico che caratterizzerà la sua relazione con il cinema.
Giuseppe infatti ha ricordato come, mentre Bernardo negli anni Sessanta era già ossessionato dal cinema, lui negli anni dell’adolescenza fosse sostanzialmente indifferente al cinema, esprimendo in tal modo un antagonismo nei confronti del fratello maggiore e del padre (Bertolucci, 2021c, 7). Nonostante questa dichiarazione, nell’archivio è conservata una lettera del giugno 1965 indirizzata al fratello, dove Giuseppe racconta di avere visto al Lux di Parma Una vita alla rovescia (La vie à l’envers, 1964). Il mittente non ha certo il trasporto ossessivo del destinatario, il suo giudizio è più freddo e analitico: dichiara di voler rivedere questa opera una seconda volta per capirla meglio e stila una lista di metteurs-en-scène francesi associandoli a brevi definizioni che ne qualificano lo stile (“Malle, lo psicologo. Resnais, l’artigiano. Jessua, il regista”).13 Nel libro autobiografico Cosedadire, Giuseppe ricorda gli autori che lo hanno segnato: dai classici (John Ford, Howard Hawks e Jean Renoir) a quelli che hanno accompagnato “la sua formazione da cineasta” (Luis Bunuel, Alfred Hitchcock, Ingmar Bergman e Eric Rohmer). Un ruolo speciale lo ricopre Federico Fellini: mentre con i nomi sopracitati, durante la visione si creava un dialogo tra lo spettatore e il film, con il suo regista recluso in un “altrove” lontano, assistendo alle proiezioni delle opere del romagnolo la visione “avveniva in presenza della sua immagine, del suo fantasma, seduto […] due o tre file dietro di me. […] Non eravamo mai soli. Io e un suo film. No. Eravamo sempre in tre” (Bertolucci 2011, 54).
Seguendo la periodizzazione di Menarini, se Bernardo incarna perfettamente la cinefilia ‘moderna’ degli anni Sessanta, Giuseppe può essere un considerato esponente sia di quella ‘magnetica’ sia di quella ‘postmoderna’. Per il creatore di Berlinguer, ti voglio bene (1977), il rapporto d’amore con i film è mediato da una dimensione riflessiva sulla natura del medium, assai differente da quella passionale e incentrata sulla venerazione della pellicola e dell’autore che caratterizza il primogenito. Anche nei suoi film, per Giuseppe l’esperienza della sala e il rapporto con la storia del cinema sono mediati da un approccio analitico sull’apparato cinematografico e sul rapporto tra linguaggi espressivi; prevale una dimensione teorica che ha esplorato anche nella pratica e nella sperimentazione con la cross-medialità e con la rivoluzione digitale (Zagarrio 2021, 22). In un’opera come Effetti personali (1983) che presenta una struttura complessa e stratificata, l’inserimento di sequenze da altri film opera una riflessione sulle trasformazioni paesaggistiche e sociali: a venire indagate sono la dimensione temporale che la pellicola ‘congela’ e quella memoriale di lavoratori del set e spettatori, caratterizzata da un continuo mutamento (Prono 2021, 44-45). La riflessione sul rapporto tra cinema e tempo apparirà frequentemente anche nei suoi scritti (Bertolucci 2011, 61).
In questa produzione televisiva, compare la parodia di un appassionato di cinema, “tratta direttamente dalla realtà soprattutto quella meridionale, fatta di molti rappresentanti di una sorta di cinefilia neorealistica” (Prono 2021, 47), ulteriore manifestazione di quel distanziamento dalla ‘magnifica ossessione’, ottenuto attraverso l’ironia e lo straniamento. Giuseppe parla del cinefilo con un discreto timore e reverenza, forse anche a seguito del rapporto conflittuale con i membri della sua famiglia: sostiene che a distruggere un’opera concorrono più le “inespresse o inarticolate (a volte indecifrabili) predilezioni o idiosincrasie dello stregone cinéphile” che “le pratiche notarili delle recensioni giornalistiche” (Bertolucci 2011, 119). In questo scritto, i maniaci di cinema, come Bernardo, vengono dissezionati con metodo quasi entomologico:
Cinefagi, divoratori di immagini e di suoni, di corpi e di storie, cannibali dell’immaginario, cultori dell’eccesso e del paradosso. Ma al tempo stesso testimoni di un’epoca del bello e custodi di una pratica spettatoriale, che hanno segnato gli anni felici e deliranti della nostra giovinezza (Bertolucci 2011, 124).
Anche nei suoi film di fiction, Giuseppe mette in scena la frequentazione della sala per mostrare quanto le trasformazioni sociali e antropologiche stiano cambiando i costumi (sessuali) degli italiani: si pensi alla scena nel cinema a luci rossi di Berlinguer, ti voglio bene dove il disagio di Cioni Mario (Roberto Benigni) diventa lo spaesamento del mondo campagnolo, investito dai nuovi codici culturali urbani (Brodo, Brugnolo 2021, 234-235). Diversamente dalle citazioni intratestuali di Bernardo, realizzate per soddisfare un personale desiderio cinefilo che riconnetta il proprio lavoro con la storia del cinema, si tratta in questo caso di un’esposizione del medium che genera una riflessione di ampio raggio sul rapporto tra quest’ultimo, le pratiche di consumo e la società. In Cosedadire, Giuseppe considera i locali cinematografici in rapporto al loro contesto: a partire da una poesia di Umberto Saba, la sala viene descritta come “un contenitore antropologico, un luogo di pietas sociale e politica”. Seguirà l’analisi del verso del padre “Aprite, cinematografi, versate” (Bertolucci 2011, 115-116).
Lo scrittore-regista riflette a fondo sulla natura di fenomeni come “la crisi della sala cinematografica” e la natura dei dispositivi della riproducibilità (Bertolucci 2011, 134) ma anche sulle peculiarità dell’esperienza spettatoriale; questa meditazione viene giustificata in termini psicanalitici poiché “l’io-analista non esiste se non in rapporto con l’Altro-paziente; così come l’io-cineasta non esiste se non in rapporto con l’altro-spettatore” (Bertolucci 2011, 170). Una delle sezioni conclusive del suo volume autobiografico è dedicata ai mutamenti della spettatorialità susseguiti alle trasformazioni tecnologiche e antropologiche del medium audiovisivo: il cambiamento è interpretato come una parabola di decadenza dove la sala cessa di essere “non solo la caverna magica del mito platonico dove, prigionieri dell’illusione, […] ma anche un meraviglioso porto franco, dove si esercitava il libero scambio tra vita e finzione, tra principio di realtà e principio del piacere, tra conscio e inconscio” (Bertolucci 2011, 187-188). A soppiantare questo tipo di esperienza, è la fruizione domestica attraverso il televisore, impoverita nella forma e nei contenuti. Per Giuseppe, la riflessione sulle modalità di godimento spettatoriale è strettamente connessa con il concetto e la pratica di autorialità: “in ogni spettatore vive un autore, che riformula […] il film che sta vedendo in una sua nuova, personalissima versione, estrapolando manipolando e memorizzando i sintagmi del racconto secondo la sua sensibilità” (Bertolucci 2011, 196). Le parole di Bertolucci sembrano confermare che ogni visione comporta una rielaborazione che rielabora il testo matrice in un remake ideale formulato nella mente e nella memoria del movie-goer (Ugolotti 2019). Ogni opera ha, per Giuseppe, due madri: “una madre naturale e fisiologica, l’autore […]; e una madre adottiva, lo spettatore appunto, che raccoglie quella creatura smarrita e abbandonata e la fa propria, attribuendogli di fatto, una nuova identità” (Bertolucci 2011, 196).
4 Conclusioni
Il saggio ha ripercorso le esperienze di visione in sala della famiglia Bertolucci coniugando la dimensione biografica e memoriale, la riflessione teorica legata all’esperienza cinematografica e la sua trasfigurazione in opere artistiche. Le traiettorie dei tre protagonisti trovano un momento di partenza comune (la proiezione di Biancaneve a Forte dei Marmi) per poi diversificarsi a seconda dei rispettivi vissuti biografici. La varietà dei percorsi della figura paterna e dei due figli permette di sintetizzare in forma concisa le caratteristiche di ognuno di essi, che pur presentano aspetti comuni come, ad esempio, l’importanza attribuita alla dimensione sensoriale e corporale della visione e la profonda curiosità verso le diverse manifestazioni del far cinema. La cinefilia di Attilio Bertolucci è legata alla fase ‘classica’ di amore per il cinema e si caratterizza per uno stretto rapporto con una fruizione legata al contesto sociale e urbano della Parma dell’anteguerra, un contesto segnato da una rete diffusa di locali dedicati all’intrattenimento filmico, dalle sue innovazioni tecnologiche (come l’adozione del sonoro) e dagli sviluppi della cinematografia nel passaggio dal fascismo al dopoguerra. Bernardo è invece il perfetto rappresentate italiano della cinéphilie degli anni Sessanta; il suo rapporto con la visione in sala si configura come ossessivo e vive di un’erotica attrazione verso quanto si manifesta sullo schermo. Questo rapimento, nutrito da un’insaziabile sete di immagini, viene traslato dentro le sue opere sotto forma di citazioni e inserti. In rapporto a Giuseppe, la modalità di visione si può configurare come, riprendendo la formula di Zagarrio, ‘interrotta’. Come il cappello del padre che interrompeva Biancaneve arrestandone il coinvolgimento emotivo, così per il minore dei Bertolucci l’esperienza di fruizione è distaccata e senza il furore passionale del fratello maggiore. Il minor coinvolgimento garantisce la possibilità di una riflessione sul film ma anche sulla natura, sulle trasformazioni e sulle possibilità del dispositivo cinematografico (e di altri linguaggi mediali). Se in Bernardo prevale la passione sulla teoresi, Giuseppe inverte i fattori. Tre individui, due generazioni e diversi codici espressivi si incontrano e si intrecciano nelle biografie e nelle carriere della famiglia Bertolucci, che di cinema si è nutrita e che tanto ha ridato agli spettatori di tutto il mondo.
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Tiziana Lo Porto parla del 1927 ma, secondo il sito IMDB, il film sarebbe uscito in Italia solo nel marzo dell’anno seguente, anche se non è da escludere che si trattasse di una versione straniera.↩︎
“A. ricorda che questa sera sarà dedicata a un film, / non c’è molto da scegliere / con due sale di proiezioni in tutto (ma capita / che arrivino pellicole isperate poi / destinate all’autunno in città, con prime / piogge e primi spettatori rientrati n gran smania / di ricominciare da capo mantenendo l’abbronzatura / il più a lungo possibile (Bertolucci 2012, 260-261).”↩︎
“Aprite, cinematografi, versate / sulla gente vogliosa gli inviti / impudenti. / Il passante che non li raccoglierà per povertà o avarizia / ne avrà il cuore esulcerato, la sua ombra fuggente / s’inoltrerà in una tenebra fonda / mentre alle sue spalle la pioggia ha ripreso / turbina di riflessi / da un paradiso zampillante di marmi policromi, / un prato d’oro, / una piscina di voluttà… Quale altro riparo / cercare all’arrivo di una stagione inclemente / alla partenza di lei in un’altra città (Bertolucci 2012, 233)?”↩︎
“La mattina seguente… Così / In caratteri vagamente, / volgarmente moderni, / un liberty ritardatario e dolcissimo, / la didascalia del film muto faceva / che il tempo mutasse / per i protagonisti e per lo spettatore unitamente/ già presi nella perdizione notturna / della storia virata in azzurro (Bertolucci 2012, 350).”↩︎
Cineteca di Bologna, Archivio Bertolucci, “Ultimo Tango”, cartella “Ultimo Tango foto 1972”, Testo di un’intervista su cinema e erotismo per la Mostra del Cinema di Pesaro (scritto a computer con annotazioni manoscritte, non datato). L’archiviazione è ancora in corso quindi il riferimento archivistico è provvisorio.↩︎
Cineteca di Bologna, Archivio Bertolucci, Corrispondenza varia, Lettera di Bernardo Bertolucci a Paul Schrader (non datata). L’archiviazione è ancora in corso quindi il riferimento archivistico è provvisorio.↩︎
Cineteca di Bologna, Archivio Bertolucci, “Ultimo Tango”, cartella “Ultimo Tango foto 1972”, Appunti a macchina di Bernardo Bertolucci (non datato). L’archiviazione è ancora in corso quindi il riferimento archivistico è provvisorio.↩︎
Cineteca di Bologna, Archivio Bertolucci, Privato “BB 10_004”, Bloc Notes privato (non datato). L’archiviazione è ancora in corso quindi il riferimento archivistico è provvisorio.↩︎
Cineteca di Bologna, Archivio Bertolucci, Corrispondenza varia, Lettere di Morando Morandini a Bernardo Bertolucci (18 novembre 1964, 15 maggio 1965, 20 agosto 1965). L’archiviazione è ancora in corso quindi il riferimento archivistico è provvisorio.↩︎
Cineteca di Bologna, Archivio Bertolucci, Corrispondenza varia, Programma di una rassegna al Palais de Chaillot e alla Cinémathèque Française (annotato a mano), luglio-settembre 1965. L’archiviazione è ancora in corso quindi il riferimento archivistico è provvisorio.↩︎
Cineteca di Bologna, Archivio Bertolucci, Corrispondenza varia, Bozze manoscritte di Bernardo Bertolucci per una lettera a Renato Nicolini (non datata). L’archiviazione è ancora in corso quindi il riferimento archivistico è provvisorio.↩︎
Cineteca di Bologna, Archivio Bertolucci, Corrispondenza varia, Lettera di Jacopo Quadri a Bernardo Bertolucci (non datata). L’archiviazione è ancora in corso quindi il riferimento archivistico è provvisorio.↩︎
Cineteca di Bologna, Archivio Bertolucci, Corrispondenza varia, Lettera di Giuseppe Bertolucci a Bernardo, 20 giugno 1965. L’archiviazione è ancora in corso quindi il riferimento archivistico è provvisorio.↩︎