Gina Lollobrigida spende un milione di lire all’anno per rispondere agli ammiratori, Sofia Loren riceve mille lettere alla settimana, Giulietta Masina deve dare soluzione ai problemi dell’anima: la posta è ancora l’indicazione più sorprendente della popolarità (Martini 1957: 33).
1 La gravidanza di Lollobrigida
Nel secondo dopoguerra, il granitico matrimonio di Gina Lollobrigida veniva portato a esempio del perfetto connubio tra moglie e marito. I ricorrenti servizi che i maggiori rotocalchi nazionali dedicavano alla carriera dell’attrice non mancavano mai di ricordare la cronistoria della felicissima unione con l’aitante medico sloveno Milko Skofic: l’incontro al veglione di Capodanno del 1947 organizzato da amici comuni, il fidanzamento ischitano dell’anno successivo, benedetto da Rizzoli in persona, e soprattutto l’anticonvenzionale matrimonio del Terminillo, celebrato in tuta da sci, il 15 gennaio 1949, presso la Chiesetta degli Alpini di Pian de’ Valli (Meccoli 1954a). Né tantomeno mancavano le incursioni giornalistiche nell’intimità della loro vita domestica, riccamente illustrate con istantanee che li immortalavano sempre affiatati, anche solo a giocare a canasta sul tavolo della loro cucina (Anonimo 1952).
La narrazione principale confezionata dai settimanali popolari era però più sottile, e raccontava specificamente dell’impareggiabile contributo versato da Skofic alla vita professionale della moglie, ribaltando di fatto la logica tradizionale della subalternità femminile a vantaggio del più paritario modello della companionship.1 Non mi riferisco tanto al fatto che l’uomo le facesse da personal trainer, diremmo oggi, in ragione della sua formazione scientifica, utilissima per la definizione del regime alimentare o per la programmazione dell’attività fisica, quanto proprio al sostegno umano. Di questo parlavano soprattutto i settimanali di consumo, fosse in riferimento all’accompagnamento nei lunghi viaggi promozionali all’estero (Lugano 1954), alla gestione di problematiche complesse come lo scandalo delle foto “poco simpatiche” pubblicate dalla rivista Cronache nel 1955,2 o anche solo alla preziosa assistenza quotidiana garantita durante le faticose riprese cinematografiche in Italia e all’estero (Meccoli 1954b).
È in questo straripante flusso discorsivo che si deve collocare la mediatizzazione della gravidanza di Gina Lollobrigida, forse, insieme al matrimonio di Tyrone Power, l’evento nazionale di costume maggiormente raccontato dalla stampa illustrata del secondo dopoguerra.3 E non mi riferisco solo al trambusto seguito alla nascita di Milko Skofic Junior, domenica 28 luglio 1957, presso la clinica romana Salvator Mundi, raggiunta nottetempo dai coniugi Skofic proprio per eludere la “non sempre discreta” sorveglianza dei paparazzi che da giorni stazionavano lungo l’Appia Antica, nei pressi della loro abitazione (Anonimo 1957). Dall’annuncio della gestazione, promosso urbi et orbi il 5 gennaio 1957, convocando giornalisti e rappresentanti delle principali agenzie di stampa, non c’è stata testata che non abbia coperto il “fatto”, anche solo per raccontare il perfetto stato di salute della mamma d’eccezione, la riformulazione della fittissima agenda professionale dell’attrice, la meticolosa preparazione del corredo del nascituro.
La stampa a rotocalco era particolarmente avida delle notizie di gravidanza delle attrici cinematografiche; la copertura della maternità di Lollobrigida non era eccezionale, se non dal punto di vista quantitativo. Altrettanto notiziabili si erano rivelati per esempio i parti di Rita Hayworth e di Silvana Mangano, per non parlare di quelli di Ingrid Bergman, musa e compagna di Roberto Rossellini. Ma la narrativa della maternità di Lollobrigida ha la sua specificità di contenuto. Mi pare retrospettivamente proprio una perfetta via di mezzo tra la spettacolarizzazione pubblicitaria del caso Hayworth, propedeutica al suo ritorno sullo schermo, e la retorica tradizionale del caso Mangano, in cui viceversa il piano lavorativo scompariva dietro l’urgenza dell’accudimento dei figli.4 Lollobrigida tenne la barra dritta della comunicazione tra famiglia e carriera, tra privato e pubblico, sempre che si possa attribuirle la linea editoriale di modi, forme e senso della comunicazione, sulla scorta, se non altro, della ricorrente modalità del memoir in prima persona. Di certo, alla sua maternità mancava completamente la dimensione dello “scandalo” propria del caso Bergman, ma anche delle maternità di Sophia Loren, Claudia Cardinale e Stefania Sandrelli, su cui si è recentemente soffermata Maria Elena D’Amelio in un documentatissimo volume interamente dedicato alla rappresentazione del materno nella cultura popolare italiana di secondo Novecento (D’Amelio 2024).5
2 Fattore di innesco
Per la copertina di La Domenica del Corriere dell’11 agosto 1957, Rino Ferrari schizzò una Gina Lollobrigida neomamma riposare nella quiete di casa propria, in compagnia del figlioletto appena nato. Seduta sul letto della sua fastosa camera matrimoniale, la diva guarda negli occhi il lettore, raggiante, ancorché visibilmente affaticata dall’esperienza del parto “naturale”; Milko Junior le dorme in grembo, supino, vestito di una sofisticata tutina bianca con maniche a sbuffo finemente ricamate. Ma a ben vedere, Lollobrigida sembra essere stata interrotta nel suo “fare” dall’irruzione dell’illustratore, o meglio, del fotografo, il quale avrà evidentemente immortalato la scena affinché Ferrari la potesse riprodurre in tutta calma per il più famoso settimanale italiano del tempo.6 Infatti, se il volto della diva è perfettamente in posa, con il più classico sorriso divistico d’ordinanza, la lettera piegata in quattro che Lollobrigida serra nella mano sinistra, un poco abbassata perché non le coprisse il volto piacevolmente scorciato, tradisce l’operazione della lettura.
Leggeva, Lollobrigida, la lunga lettera di un suo ammiratore. La messe colorata di fogli, bigliettini e cartoline sparsa sul letto, quasi a ricoprire l’inconsapevole neonato, è davvero inequivocabile agli occhi dello storico del fandom. Non si tratta di posta ordinaria ma di fan mail. E poi a fondo pagina c’è la provvidenziale didascalia a fugare gli eventuali dubbi anche del più distratto degli osservatori, ieri come oggi. “Gina Lollobrigida è mamma”, si dice. “In una clinica di Roma la popolarissima attrice cinematografica […] ha dato alla luce un bellissimo bimbo che, battezzato Marco, sarà però chiamato Milko, come il padre”. La rilevanza sociale della maternità è tale che “Al lieto evento tutti giornali, italiani e stranieri hanno dato il più ampio risalto”, dice ancora il rotocalco. Mentre “Da ogni provincia d’Italia e dall’estero […] sono giunte alla giovane e felice mammina migliaia di telegrammi e migliaia di lettere, molte delle quali l’hanno profondamente commossa per la calda e sincera affettuosità delle espressioni che le erano state rivolte” (Anonimo 1957b).
In una preziosa testimonianza consegnata al settimanale Epoca, la stessa diva raccontava di come avesse lungamente meditato circa l’opportunità di diffondere pubblicamente informazioni sulla gestazione. Confrontandosi col marito, in questa fase della sua carriera una sorta di manager di complemento, si era persuasa non senza fatica che si trattasse per lei quasi di un obbligo, portato dello statuto divistico. “Per convincermi definitivamente ho dovuto pensare che la stampa s’interessa a una notizia quando questa interessa il pubblico e che io, come attrice, ho dei doveri […]. D’altronde, attraverso centinaia e centinaia di lettere, attraverso mille episodi, conosco l’affetto che per me ha il pubblico, specialmente le donne, e so che la notizia avrebbe fatto piacere” (Lollobrigida 1957). Lollobrigida decise deliberatamente di non “lasciare che la notizia si diffondesse per suo conto”, con tutti i rischi del caso, risolvendosi a organizzare una vera e propria conferenza stampa per provare a controllarla. Almeno così si inferisce retrospettivamente dal memoir di Epoca che restituisce parola e agentività alla diva. Il resto è storia (del divismo). E che fece “piacere”, la notizia, le migliaia di missive che ricevette stanno lì a dimostrarlo.
Mi sono interrogato (Vitella 2015a e 2017) circa i modi e le circostanze che spingevano storicamente uno spettatore cinematografico a transitare verso lo stato di ammiratore delle “personalità dello schermo”, per dirla alla Denis McQuail (2001: 164-165). Dove per ammirazione intendo con Lawrence Grossberg (1992) non solo un consumo sostenuto di cinema, quanto una particolare “sensibilità” per il medium; un consapevole “investimento” nel cinema come “esperienza di vita”. Per Anna S., adolescente ammiratrice di Deborah Kerr, si trattò della visione del film d’avventura Le miniere di Re Salomone (King Solomon’s Mines, C. Bennett e A. Marton, 1950). Per Marco G., maturo seguace di Katherine Hepburn, si trattò dell’incontro con l’attrice in carne e ossa, a Venezia, sul set di Tempo d’estate (Summertime, D. Lean, 1955). Per i tantissimi che scrissero a Lollobrigida, in quel lontano 1957, è stata appunto la sua chiacchieratissima gravidanza. Certo, possiamo pure immaginare che una parte degli scriventi fossero già ammiratori della diva. Ma se il lieto evento non è stato forse per tutti fattore di innesco del fandom, è stato senz’altro fattore di innesco della fan mail: pratica di frontiera, secondo gli specialisti, tra spettatori semplici e “tifosi” veri e propri.
3 La fan mail del fondo Meccoli
Può sembrare impossibile, ma oggi disponiamo di un piccolo campione di quelle lettere che Ferrari incluse nel ritratto di Lollobrigida-neomamma per La Domenica del Corriere. Le possiamo leggere come a suo tempo le lesse la destinataria d’eccezione. Qui intendo proprio presentare le prime riflessioni su un corpus circoscritto di missive beneauguranti rinvenuto recentemente presso la Biblioteca Chiarini del Centro sperimentale di Cinematografia di Roma: struttura che conserva notoriamente una ingente mole di documenti variamente riconducibili alla storia del cinema italiano, con particolare riferimento per i fondi di eminenti professionisti (produttori, sceneggiatori, registi, attori ecc.), giornalisti e critici cinematografici compresi. Non esiste, in effetti, un “fondo Lollobrigida” presso la Biblioteca Chiarini, ma esiste un archivio di persona intestato a Domenico Meccoli (1913–1983), firma di punta del settimanale Epoca, cronista specializzato in divismo e celebrità per una bella fetta di Novecento. Ed è nel fondo Meccoli, di Lollobrigida, un po’ confidente privilegiato, un po’ collaboratore professionale, che è stata fortunosamente trovata una cartella di documenti, non catalogati né tanto meno studiati, attribuibili all’intenso traffico postale tra diva e giornalista, nel cruciale torno d’anni compreso tra 1954 e 1960.
Ci sono lettere personali in cui Lollobrigida si confida con Meccoli in ordine allo stato del suo matrimonio, all’amicizia con Frank Sinatra, al progetto di trasferimento permanente in Canada, ecc. Ci sono lettere di “lavoro” in cui Lollobrigida inoltra puntuali memoirs destinati a essere pubblicati su Epoca, come il celebre resoconto della cena del 24 ottobre 1954, all’ambasciata italiana di Londra, con la Regina Elisabetta d’Inghilterra.7 E ci sono appunto lettere che Lollobrigida ricevette tra marzo e luglio 1957, durante cioè gli ultimi mesi di gestazione di Milko (Marco) Skofic Junior. Poche, intendiamoci: queste ultime sono numericamente esigue. Si tratta di 14 scritti complessivi, ancorché molto vari e di differente impegno epistolografico; alcuni dei quali, peraltro, caso più unico che raro dal punto di vista archivistico, forniti della minuta di risposta della stessa Lollobrigida. Perché siano conservate proprio lì è però difficile dirlo. Il fondo Meccoli raccoglie soprattutto ritagli stampa relativi alla copertura mediatica delle principali attrici italiane degli anni quaranta, cinquanta e sessanta, ad uso dello stesso giornalista. Si può giusto ipotizzare che Lollobrigida avesse messo a parte Meccoli della reazione dei suoi ammiratori di fronte alla straordinarietà dell’evento-maternità affinché ne facesse un pezzo di colore per il suo settimanale (che però non ho tracciato). Ci ritornerò.
In effetti, di fandom, i rotocalchi parlavano spesso. Ma le lettere degli ammiratori dei divi sono di straordinario interesse anche per lo storico del cinema interessato al fandom, per lo storico del fandom dicevamo sopra.8 È assai raro che documenti di questo tipo si conservino nel tempo, come è assai raro che si conservino più generalmente i documenti personali degli spettatori forti: diari, agende e schedari in testa, quanto cioè John Fiske (1992), in un saggio seminale della prima ondata dei Fan Studies, chiamava tertiary texts (testi terziari). E in quanto materiali sensibili dal punto di vista della tutela della privacy, è ancora più raro che vengano sottoposti liberamente all’esame degli studiosi di settore. Fino a prova contraria, fino al prossimo auspicabile ritrovamento presso archivi pubblici o privati, la disponibilità di fan mail di attori italiani dell’epoca d’oro del cinema si conta addirittura sulle dita di una mano. Ci sono gli straordinari materiali di Alida Valli e Alberto Sordi, sempre al Centro sperimentale di cinematografia, e poco altro, Lilia Silvi, Leda Gys. Il nucleo di fan mail di Lollobrigida consente di documentare il fandom italiano del secondo dopoguerra, di meglio capire chi fossero, cosa pensassero e cosa facessero gli ammiratori dei divi del tempo. Ma consente anche di apprezzare in dettaglio i caratteri e l’evoluzione di un singolo “culto” divistico assai significativo per intensità e durata, rispetto a una dominante tematica particolarmente sensibile per la storia delle donne.9
4 Il culto di Lollobrigida
I Celebrity Studies ci invitano a esaminare la celebrità nel tempo per individuare stazioni emblematiche. Sulla base del mutamento di grado della visibilità mediatica, ogni personalità divistica attraversa infatti il medesimo “ciclo” (della celebrità): dallo stadio iniziale di notorietà (acquisizione) alla massima riconoscibilità pubblica (consolidamento), dalla perdita di prestigio (declino) alla rivendicazione tardiva (redenzione). Almeno così la pensano Carillat e Iliciic (2019), forti della loro teoria del Celebrity Capital Life Cycle, del “ciclo di vita del capitale di celebrità”. Studiare Lollobrigida negli anni cinquanta significa allora lavorare sul (provvisorio) momento apicale del suo ciclo della celebrità, sul periodo di consolidamento (consolidation) della sua affermazione pubblica prepotentemente transmediale. Non solo Lollobrigida unificava i pubblici cinematografici socialmente e geograficamente, facendo risultato con i suoi film in ogni strato dell’esercizio, dalle sale di provincia a quelle dei centri storici dei capoluoghi (Spinazzola 1974: 101–134). Lollobrigida e le cosiddette “maggiorate” unificavano più in generale proprio tutti i consumatori dell’industria culturale del dopoguerra: spettatori, telespettatori, radioascoltatori e semplici lettori non potevano evitare di incrociarle ogniqualvolta andavano al cinema, accendevano un televisore, ascoltavano la radio, sfogliavano una rivista, leggevano un quotidiano.10
All’epoca del consolidamento del suo capitale di celebrità, Lollobrigida riceveva centinaia di lettere ogni singolo giorno. Anche se non faceva tutto da sola, non era certo una cosa di poco conto. Bisognava prevedere dello spazio per la loro sistemazione provvisoria, un sistema ancorché basico di catalogazione funzionale a minimizzare i tempi di risposta, un’efficiente modalità di conduzione delle spedizioni multiple e ricorrenti. Per non parlare dei costi di affrancatura: ci spendeva non meno di un milione di lire all’anno, Lollobrigida, solo per quello (Martini 1957). Del resto, in Italia, non c’erano servizi di gestione della fan mail a pagamento, da parte di agenzie esterne specializzate nella posta degli attori di fama. E non c’era tantomeno una gestione centralizzata della fan mail da parte dell’industria cinematografica ad alleggerire gli oneri di esercizio, come a Hollywood, dove le case di produzione tenevano in gran conto la posta ricevuta dagli attori per valutare la fluttuazione del loro ascendente sugli spettatori (Barbas 2002: 30–33). Se una mediazione c’era tra le maggiorate e i loro interlocutori, era piuttosto quella delle riviste di divulgazione cinematografica, come Hollywood o Film, funzionale però più ad alimentare il processo che a disciplinarlo, alla luce della pubblicazione di indirizzi privati, della diffusione di vademecum sulla scrittura epistolare, e soprattutto dell’inoltro delle lettere sprovviste di recapito (Vitella 2015b).
Il culto di Gina Lollobrigida era massivo. Ho perfino trovato traccia di un fan club all’americana fondato in suo onore, in Italia. E in Italia non esisteva proprio la tradizione dell’associazionismo informale degli ammiratori dei divi dello schermo, né tantomeno esistevano associazioni riconosciute ufficialmente dagli attori che potessero fare da camera di compensazione ai facili entusiasmi dei loro seguaci. Mi riferisco al misconosciuto “Lollo-club” di Cuneo, aperto proprio nell’estate del 1957 da un certo Arnaldo Calissano. Ne parla con sarcasmo Cinema Nuovo, la rivista di punta della critica cinematografica impegnata, fiera nemica delle “maggiorate”, Gina Lollobrigida in testa, fin dall’affaire La signora senza camelie (1953), quando la Nostra osò rifiutare la compromettente parte di Clara Manni, pensata apposta con ogni evidenza da Michelangelo Antonioni per stigmatizzare la sua popolarità (Dagrada 2014). Dietro il versamento della modesta somma di 100 lire, gli iscritti a questo esclusivo fan club cinematografico, letteralmente eccezionale a quest’altezza storica, avrebbero ricevuto “una fotografia autografata dell’attrice”, “il tesserino pure firmato dall’attrice”, nonché “l’unico numero del giornalino tendente a valorizzare i vari film interpretati da Gina Lollobrigida” (O.D.F. 1957).
5 Familiares
Ma torniamo alle lettere degli ammiratori. È tutta da pensare una tassonomia che possa rendere conto “scientificamente” di forme, bisogni e circostanze ricorrenti della scrittura popolare a quella particolare élite senza potere (formale, si intende) costituita dai divi dello schermo cinematografico.11 Non è certamente questa la sede per abbozzarne una, né i miei materiali circoscritti consentono di rispondere in modo esaustivo a urgenze classificatorie che ambiscano a sistemazioni generali e permanenti. E tuttavia, prendendo in prestito il titolo della celebre raccolta petrarchesca di epistole in prosa latina, indirizzate ad amici e conoscenti reali e ideali (Cicerone, Seneca, Varrone, Quintiliano, Tito Livio, ecc.), non esiterei a qualificare le lettere di felicitazioni del fondo Meccoli come “famigliari” (Petrarca 1997). Se infatti l’intimità del tutto fittizia tra fan e divo è una caratteristica fondativa di quella peculiare relazione asimmetrica che la sociologia della comunicazione definisce “parasociale”, nelle lettere degli ammiratori è possibile più puntualmente rintracciare delle circostanze biografiche considerate volta per volta dagli scriventi talmente significative da avvicinarli, in modo particolare, se non relativamente esclusivo, ai loro speciali destinatari.12
Ecco, per me “famigliari” sono tutte quelle lettere ai divi in cui i mittenti giustificano esplicitamente la scelta di un registro di scrittura confidenziale con la presunta condivisione di interessi, provenienza geografica, età anagrafica, ecc. quando non, addirittura, alla maniera del presente caso di studio, di un’esperienza potenzialmente universale come quella della maternità. Di più: della genitorialità. Perché non tutte le lettere del fondo Meccoli sono effettivamente scritte da donne. C’era chi si diceva sensibile proprio all’accoppiata artista-maternità, come la romana Joland B., che da nonna ci teneva a sottolineare che per Lollobrigida iniziasse solo ora “il vero lavoro”, auspicando che potesse essere “tanto mamma […] che artista”. C’era chi si augurava che la diva potesse godere della sua stessa serenità famigliare, come Alfredo S., che da padre amorevole e marito fedele si dilungava in lunghi resoconti improntati ai valori della domesticità. E c’era pure chi le scriveva “per contrasto” rispetto a una condizione diversamente disagevole, perché soggetta a vedovanza o sterilità (come Ada M.) o semplice solitudine esistenziale (come Luciano M. o Marino M.). Sempre uguale mi pare però la felice constatazione di una imprevista vicinanza al mondo della diva, sulla scorta di una esperienza direttamente o indirettamente partecipata, secondo quell’abbassamento di livello dello statuto divistico di cui ha parlato per primo Edgar Morin (2021), come ricorda D’Amelio (2024: 46–47), proprio a proposito dell’esperienza della maternità.
L’esperienza della maternità colmava la distanza costitutiva della comunicazione fan-attrice di fama, innescando la sensibile ristrutturazione della tipica griglia pragmatico-testuale della lettera ai divi su cui hanno lavorato proficuamente Rita Fresu e Ugo Vignuzzi (2007), nel quadro di una pionieristica ricerca sulla fan mail della cantante Gigliola Cinquetti. Le lettere famigliari a Gina Lollobrigida stravolgono cioè quel montaggio di atti linguistici funzionalmente ben definiti su cui a mio giudizio è impostato il “genere” anche nello specifico filone di pertinenza cinematografica: presentarsi, congratularsi, raccontare, chiedere.13 La presentazione e il racconto di sé non servono a posizionarsi come ammiratori più o meno importanti ma a esibire credenziali esistenziali di genitore, figlio, nonno, nonna, amante dei bambini, ecc. Le congratulazioni vengono ridotte al minimo, perché qui non è in gioco il valore artistico di questa o quella performance recitativa, né tantomeno la bontà dell’ultimo film girato dall’attrice, ma la circostanza specialissima di una storia di vita. E soprattutto, con sparute eccezioni, minimizzate peraltro retoricamente dagli stessi scriventi con i più vari espedienti, non ci sono in queste lettere le richieste tradizionali degli ammiratori, costituzionalmente associate a queste missive, dalla fotografia collezionabile alla firma autografa, dall’aiuto economico all’intercessione presso terzi.
6 Auguri, omaggi, regali
Le lettere del fondo Meccoli non sono sovrapponibili alla pratica dominante di fan mail, improntata, mi pare, alla matrice culturale dell’amor cortese, secondo cui l’ammiratore offre al divo un servizio d’amore (lettera di ammirazione) in cambio di un pegno d’amore (foto autografata).14 Con ogni evidenza, gli ammiratori di Gina Lollobrigida scrivono piuttosto delle “lettere-dono” nel senso teorizzato da Marcel Mauss (2002), l’antropologo, che come è noto, in un saggio famoso, concepisce l’economia del dono quale sistema universale per cementare relazioni umane, quando non per gettare addirittura ponti con il divino. Ma non voglio insistere sulla sempreverde analogia religiosa che sulla scorta del magistero di Edgar Morin (2021) tende implicitamente a considerare il fandom come fenomeno cultuale in senso stretto (Maigrait 2002). Voglio piuttosto rimarcare come gli scriventi del fondo Meccoli vadano ricondotti a quella minoranza di corrispondenti dei divi che si accontentava di complimentarsi per la carriera dei propri beniamini o di auspicarne genericamente la serenità, senza pretendere nulla in cambio. Perché c’erano lettere stimolate anche solo dalla ricorrenza delle festività maggiori (Natale, Pasqua, Capodanno ecc.), da un compleanno, quando non da contingenze, per l’appunto, ancora più personali, ancora più private.
Con l’espressione “lettera-dono” intendo questo, intendo l’inversione eccezionale della logica tradizionale della fan mail: non tanto un fine in sé, per i fan, per la fan culture del tempo (cultura degli ammiratori), quanto un mezzo per ottenere qualcosa, a partire da quella specie di reliquia secolarizzata che era la firma autografata dell’attore di fama su una fotografia o una cinecartolina postale. Qui, viceversa, alla “mamma prossima”, si scrive per il piacere di farlo, con poche variazioni sul tema. Alcuni esprimono le loro caratteristiche espressioni di felicitazione (“gli auguri più belli”, “un pensiero affettuoso”, ecc.). Altri si dilungano in rassicurazioni in ordine alla gestazione, alla “meccanica” del parto o all’aspetto del nascituro, perché “la donna più bella del mondo” non potrà che generare “il più bel pupo o la più bella pupa del mondo”. Altri, ancora, per i medesimi scopi, incoraggiare e consolare, sostenere e confortare, si offrono addirittura di intercedere presso dio, i santi, la madonna, con le loro preghiere quotidiane, come si fa solo per le persone più care. Possono essere poche righe benauguranti, ma anche pagine e pagine di pensieri in libertà, come quelle del grafomane di Potenza che proietta evidentemente su Lollobrigida la sua, di esperienza genitoriale, con tutte le idiosincrasie del caso. Poco importa. Il “senso” è sempre quello: “Signora Gina, sano e bello nascerà”.
Il culmine di questa attitudine generosa, di questa propensione al “dare”, compensazione forse, per il piacere del testo (cinematografico) goduto a suo tempo, si tocca in tutti quei casi in cui gli scriventi recano davvero un omaggio alla diva, un omaggio che va oltre le parole. E non mi riferisco alle cartoline illustrate, pur presenti, medium-regalo effettivamente, a fronte della riproduzione fotografica di paesaggi o altri soggetti, né alle lettere-poesia ispirate alla maternità (ce n’è una, quella di Adelina G., i cui versi ho ripreso nel titolo del presente saggio). Dalle lettere conservate nel fondo Meccoli emerge infatti come gli ammiratori della diva le abbiano spedito proprio dei regali differentemente impegnativi. Ada M. le manda le foto della bambina Sandra, sua vicina di casa, che pare le somigli, quale augurio di fare una figlia altrettanto bella. Carolina M. le spedisce una medaglietta acquistata al santuario di Nostra signora di Lourdes, con la madonna evidentemente, affinché la sua famiglia venga protetta. Anna C. le spedisce un golfino fatto da lei all’uncinetto. Come fatti in “casa”, o meglio, in carcere, sono il completino spedito da Marino M. e la copertina spedita da Luciano M.: interessanti, mi pare, quest’ultimi, anche da una prospettiva di genere. Ma mi piace ricordare soprattutto la ninna nanna composta da De Blasio F. “in poco più di un’ora: versi e musica”. Il suo autore non la ritiene “degna nemmeno di essere passata con lo sguardo”, e tuttavia si lascia trasportare dal sogno che la diva in carne e ossa sieda al pianoforte e “la canti almeno una volta come buon auspicio per il Suo MIRKO”.
7 Anche i potenti ringraziano
Le lettere ai divi sono entrate nell’agenda degli studiosi italiani di epistolografia negli anni novanta del Novecento per la meritoria iniziativa dell’Archivio della scrittura popolare del Museo del Risorgimento di Trento. Con buona pace di Francesco Alberoni, teorico dei divi come “elite senza potere”, devono essere considerate un sottoinsieme relativamente autonomo di quel genere della forma epistolare che lo storico contemporaneista Antonio Gibelli ha definito appunto “lettere ai potenti” (Gibelli 1991). Perché anche queste sono lettere che viaggiano verso l’alto della scala sociale e in ciò contrapposte, per restare nella metafora spaziale, all’orientamento orizzontale dell’epistolografia che si sviluppa tra i membri della stessa famiglia, dello stesso gruppo, della stessa comunità. Sono lettere che oltrepassano il limite invalicabile dei rapporti personali cui sono generalmente confinati gli epistolari privati, diciamo così, classici, di migranti economici lontani dal loro paese di nascita o di soldati impegnati al fronte di combattimento. La loro specificità epistolografica risiede proprio nella differente collocazione diastratica di scriventi e destinatari, e nel conseguente squilibrio di potere tra i primi e i secondi, sia questo un potere di natura personale, istituzionale, materiale o spirituale.
L’inferiorità economica, culturale, simbolica del mittente, raramente dissimulata, spesso drammatizzata, ma sempre percepita come tale dallo scrivente, muove la stesura della missiva e ne condiziona gli esiti formali: il registro, l’intonazione linguistica, l’impostazione grafica. È una scrittura di “illetterati”, generalmente poco rispettosa della cosiddetta “norma standard” (la varietà di lingua soggetta a codificazione normativa), spesso infarcita di formulazioni retoriche e di burocratismi, tanto più permeabile ai moduli tipici dell’oralità quanto maggiore è il grado di empatia di volta in volta impostato, più o meno arbitrariamente, con l’illustre destinatario (capi carismatici, politici, mediatori, notabili, padroni, benefattori, celebrità, ecc.). Lo statuto di fan, di tifoso, di ammiratore di questa o quella celebrità, è spesso sufficiente a compensare il dislivello apparentemente incolmabile tra mittente e destinatario e dare sfogo al profondo bisogno di protagonismo degli scriventi, in una società, quella novecentesca, orfana delle tradizionali forme di assistenza, rassicurazione e solidarietà tipiche della vita comunitaria premoderna. Ma il campione di lettere del fondo Meccoli è in questo eccezionale: gli ammiratori di Gina Lollobrigida non scrivono tanto e solo come fan della diva, quanto, anzitutto, come uomini e donne che hanno famigliarità con la genitorialità. È per questo che non pretendono ma offrono, che non chiedono ma danno.
Le lettere-dono degli ammiratori di Lollobrigida conservate nel fondo Meccoli sono agli antipodi delle lettere-questua cui è improntata la stragrande maggioranza degli scritti degli ammiratori dei divi dello schermo. Anche per questo, forse, si sono conservate fino a oggi. Non solo cioè in quanto lettere degli ammiratori ma in quanto lettere degli ammiratori sui generis, del tutto particolari. Sono tematicamente omogenee perché nella mole straordinaria del flusso epistolare della diva, paragonabile al traffico di un paese di provincia, la destinataria d’eccezione le avrà evidentemente ritenute degne di osservazione, di condivisione, di pubblicazione, tanto da sottoporle all’amico Meccoli, giornalista del rotocalco Epoca ed esperto di divismo e celebrità. Poi, tra le carte del fondo Meccoli, oltre alle quattordici unità epistolografiche che ho evocato sopra, ci sono anche quattro risposte di Lollobrigida: un evento archivistico. Intendiamoci, non che le dive evitassero di rispondere, ma le risposte non sembravano tracciabili. E sono interessanti proprio perché confermano l’incrinatura dell’asimmetria divo-ammiratore, motore della verticalità del flusso della lettera ai potenti. Certo, nel caso delle lettere dei detenuti Luciano M. e Marino N., citate sopra, Lollobrigida mandò una somma di denaro. Ma lo fece di sua spontanea iniziativa, non perché sollecitata. Lo fece appunto per manifestare riconoscenza. Perché tutte e quattro le sue risposte sono lettere di ringraziamento, nel senso più profondo del termine.
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È una rappresentazione assai avanzata dell’istituto matrimoniale, questa, del tutto estranea ai principi di obbedienza-deferenza-rispetto ancora perfettamente operanti nel secondo dopoguerra italiano. Per una prospettiva di medio periodo sulla storia del matrimonio, ottimamente documentata, rimando al classico De Giorgio 1996.↩︎
L’agenzia I.N.S. dell’italo-americano Michael Chinigo, incaricata di realizzare un servizio fotografico divistico per il lancio del film La donna più bella del mondo (1955) di Robert Z. Leonard, vendette “sottobanco” delle immagini non approvate da Lollobrigida “in cui pare si vedessero troppo le gambe”, almeno secondo Venturi 1955.↩︎
Il matrimonio Power-Christian (Vitella 2016) è il primo evento mediatico di risonanza internazionale dell’Italia del dopoguerra: Power era di gran lunga l’attore più amato dagli italiani negli anni Quaranta; la Fox batté fortemente la grancassa del divismo per rilanciare il suo uomo di punta in una circostanza irripetibile; la Chiesa cattolica romana fu più complice che vittima della spettacolarizzazione del rito, forse anche solo per l’opportunità di ascrivere un testimonial d’eccezione alla “battaglia per la moralità” che stava combattendo.↩︎
Seguo qui Busetta 2018, che ha ricostruito convincentemente le principali retoriche del discorso popolare sulla maternità dei personaggi famosi, nel corso degli anni cinquanta, proprio a partire dalla copertura da parte dei principali rotocalchi nazionali dei casi straordinari di Bergman, Mangano e Hayworth.↩︎
D’Amelio studia assai produttivamente i discorsi divistici legati alle maternità di Bergman, Loren, Cardinale e Sandrelli (oltre all’annullamento del matrimonio tra Anna Magnani e Goffredo Alessandrini) proprio in quanto star scandal (Lull e Hinerman 1997), in quanto “notizie” capaci di produrre dibattito pubblico su temi socialmente e culturalmente sensibili. Secondo l’autrice, i casi citati “aprono a discussioni pubbliche su sessualità e morale e accelerano il cambiamento anche legislativo che coinvolgerà il diritto di famiglia” (D’Amelio 2024: 12).↩︎
Secondo Ajello 1976, Oggi vendeva ben 760 mila copie settimanali, seguito, ma a considerevole distanza, da Epoca (500 mila) e Tempo (420 mila). Solo La Domenica del Corriere, appunto, aveva tirature maggiori delle corazzate citate: 900 mila copie. Le statistiche, da prendere evidentemente con le molle, sarebbero da riferirsi alle tirature del 1955, come è noto, annus mirabilis anche per il cinema in Italia, alla luce degli oltre 820 milioni di biglietti venduti.↩︎
Lollobrigida partecipò all’esclusiva cena con la regina Elisabetta, insieme ad altri sceltissimi commensali, in quanto attrice di punta della composita squadra spedita all’ambasciatore Manlio Brosio per animare la seconda Settimana del film italiano del Regno Unito, tenutasi a Londra tra il 21 e il 31 ottobre 1954. Il citato documento autografo del fondo Meccoli, indistinguibile nella sostanza dal pezzo pubblicato su Epoca (Lollobrigida 1954), dimostra che la diva scrivesse tutto di suo pugno.↩︎
Lo studio storico del fandom è importante perché, come ci ricorda Fuller-Seeley 2001, le relazioni di affinità straordinariamente documentate dal sistema dei media contemporaneo, premessa e infrastruttura del cosiddetto digital fandom, hanno radici assai lunghe e ramificate e poche pratiche grassroots sono veramente del tutto nuove.↩︎
Per una introduzione alla complessa questione del “materno” nell’Italia del secondo Novecento, rimando ancora all’efficace sintesi tracciata da D’Amelio 2024, con particolare riferimento per il paragrafo introduttivo “Dal dopoguerra agli anni Sessanta, dal mammismo ai movimenti femministi”.↩︎
Per il divismo delle cosiddette attrici “maggiorate” (Silvana Pampanini, Silvana Mangano, Sophia Loren e Lollobrigida su tutte), con nuove acquisizioni documentarie e nuove prospettive interpretative, sui binari di una storia culturale del divismo tesa a coniugare la tradizione degli Star Studies (ma anche dei Celebrity Studies) con le indicazioni metodologiche della New Cinema History, cfr. Vitella 2024.↩︎
Francesco Alberoni (1963), uno dei primissimi osservatori del fenomeno divistico, di particolare interesse in questa sede perché allineato storicamente al culto di Lollobrigida, ritiene che gli attori famosi conservino alcuni caratteri della classe agiata (vita felice, irresponsabilità, libertà, ecc.) e possano divenire la “fantasia della società”, come è noto, proprio in quanto sarebbero loro precluse le vie del potere politico.↩︎
Per “parasociale” si intende una relazione tra persone che non sono mai entrate in contatto diretto tra loro ma a cui i media danno per l’appunto l’impressione (l’illusione) di conoscersi. Il concetto, coniato da Richard R. Wohl e Donald Horton negli anni cinquanta (1956), nel contesto dell’industria culturale statunitense, continua ad essere proficuamente utilizzato sia in ambito Star Studies che Celebrity Studies.↩︎
La fan mail è diffusissima nell’Italia degli anni cinquanta, come documenta vivacemente, per esempio, Luciano Romeo (1956), dalle colonne della rivista Cinema. Per un produttivo inquadramento teorico della lettera degli ammiratori come ephemeral media e transient media, dispositivo effimero di grande portabilità, rimando invece a Comand e Mariani 2021 (11-41). Infine, più generalmente, per contestualizzare l’esperienza spettatoriale degli ammiratori di Lollobrigida, si veda il classico Fanchi e Mosconi 2002.↩︎
Norme e canoni dell’amor cortese vengono fissati nella seconda metà del XII secolo da Andrea Cappellano (1996) nel trattato latino De amore. Protagonista dell’opera è il maestro Gualtiero, il quale, intrattenendo quattro nobildonne, presenta una sorta di “feudalizzazione” dell’amore extraconiugale: l’amante, generoso, leale e devoto, si deve porre al servizio della donna amata alla maniera del vassallo con il suo signore.↩︎