Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.25 (2024), 207–209
ISSN 2280-9481

Voci al centro, fonografia e oltre. Michela Garda (a cura di), La mediazione tecnologica della voce, Neoclassica, Roma 2023

Doriana LeggeUniversity of L’Aquila (Italy)

Pubblicato: 2024-08-01

È importante l’operazione editoriale che la casa editrice NeoClassica sta portando avanti attraverso la collana musica.performance.media. Nel catalogo già quattro titoli che rivelano la natura interdisciplinare del progetto, del primo La musica fra testo, performance e media. Forme e concetti dell’esperienza musicale, a cura di Alessandro Cecchi, avevo già dato nota in queste pagine (Cinergie, N.19, 2021) evidenziandone la dimensione corale, ma parlando anche di un certo “lodevole caos” che di quel volume faceva, a mio parere, la fortuna.

Il caso di La mediazione tecnologica della voce, a cura di Michela Garda, secondo episodio della collana, è di altra specie. Anche stavolta i contributi sono affidati ad autrici e autori diversi, ma l’impressione è quella di un ensemble che lavora di compattezza, pur aprendosi a ventaglio sui diversi aspetti della questione affrontata. Vorrei quindi suggerire una mappa, del tutto parziale e necessariamente riassuntiva, che spero però funzioni per orientarsi nella lettura del volume. Con questo mi permetto anche di suggerire, per futuri appuntamenti della collana, che qualche pagina di abstract, oltre alle puntuali introduzioni dei curatori, fornisca coordinate per seguire il percorso del volume.

La mediazione tecnologica della voce è di per sé un argomento molto ampio, l’idea che percorre il volume è però quella di circoscriverne l’indagine nell’orizzonte musicale, individuando zone di riflessione cui rispondono saggi puntuali che non trascurano questioni tecniche, quelle che spesso scoraggiano i lettori non esperti e invece hanno qui il pregio della chiarezza.

L’introduzione di Michela Garda fornisce le basi teoriche per affrontare le pagine a seguire, orientate e distribuite in due parti: alla prima si affida l’analisi della voce fonografica in alcuni aspetti riguardevoli di riflessione, alla seconda invece sono assegnate indagini sulle diverse forme di sperimentazione vocale (ma non solo) e sul corpo virtuale della voce.

A Daniele Palma il compito di indagare come la fonografia abbia avuto un impatto significativo sulla tecnica vocale dei cantanti d’opera, in particolare relativa al timbro. Storicizzare la recording voice è il primo passo da compiere per comprenderne la portata culturale e il percorso di “riconfigurazione delle ortodossia del belcanto italiano” e la sue “ricadute molteplici sulle idee e sulle pratiche”, ad esempio – sottolinea l’autore – la preferenza verso una voce riconoscibile, unica, singolare che si impone e scalza la peculiarità che invece era propria dei cantanti di primo Ottocento, la cui grandezza passava anche attraverso la pluralità di timbri.

Di un altro tipo di vocalità si occupa il saggio di Marco Lutzu che riflette sui processi di mediazione tecnologica, mai neutrali, che interessano le registrazioni di musiche di tradizione orale (in special modo quelle sarde del canto a quattro). L’autore ci pone di fronte l’interessante questione delle diverse professionalità – ad esempio quella del produttore e del tecnico del suono – che pure giocano un ruolo nella costruzione del prodotto mediale. Francesca Cireddu ci restituisce il caso della produzione discografica della world music attraverso l’analisi del disco Eagle di Mamer – musicista kazako del Xinjiang. L’album, prodotto dalla Real World Records nel 2009, restituisce un’immagine distorta del musicista, che mira piuttosto a cristallizzarne le origini identitarie mortificandone invece la ricerca artistica, molto più eclettica e complessa di quanto l’operazione sonoro-mediatica di Eagle voglia far apparire. Il saggio di Marco Occhio procede su un affondo dello studio del frame vocalico ed è corredato da un necessario apparato visivo che mostra chiaramente, anche a chi non abbia familiarità con l’analisi degli spettri sonori, quanto la manipolazione tecnologica influenzi la configurazione sonoro-spaziale della voce (ma non solo). Chiude questa parte, dedicata alla voce fonografica, Alessandro Bratus il cui saggio è molto vicino, per metodologia e strumenti di analisi, a quello che lo precede. Anche in questo caso l’oggetto di indagine riguarda le prassi produttive della canzone italiana contemporanea, dalla progettazione vocale al trattamento sonoro come “parte di un complesso comunicativo coerentemente stratificato” (p. 119).

La voce e i suoi doppi tecnologici, seconda parte del volume è aperta da Ingrid Pustijanac che, affidandosi alla cornice teorica elaborata da Marie Guilleray (voice-subject, voice-meaning, voice-grain, voice object), introduce il concetto di voce-apparato attraverso tre casi studio (l’Instrumental Freak Show di Giovanni Verrando, Ariadne di Maurizio Azzan e Morphology of a Digital Mouth di Luca Guidarini). Il saggio di Agostino di Scipio è forse quello che più di altri propone una teorizzazione sulla processualità ibrida dei dispositivi live electronics, suggerendo come la sperimentazione non sia esclusivamente pratica preliminare ma vocazione permanente e foriera di libertà verso la condizione post-umana. Chiude il volume Giulia Sarno che riflette sulla possibilità di creazione condivisa e di interazione tra “vocal persona”, “performer elettronico” vocalist e live electronics nel caso specifico di alcuni lavori realizzati dal centro Tempo Reale insieme a Sonia Bergamasco, David Moss e Monica Benvenuti.

Mi permetto di chiudere con una considerazione che torna sull’imprescindibile problema della storicizzazione dei fenomeni, che nel caso della mediazione tecnologica della voce a partire dagli inizi del secolo scorso, ma ancor prima, si ripercuote sulla pratica artistica e sul modo in cui la osserviamo. La realtà quotidiana, agli inizi del Novecento, è segnata da fenomeni sonori dotati di uno statuto particolare, quello di essere trasmessi da una macchina e in assenza, slegati dalla sorgente che li ha prodotti. Se Roland Barthes parlava di «grana della voce», per sottolineare la traccia che sempre il corpo lascia, potremmo a ragione parlare di “grana della macchina” (Barthes, 1986), perché se ad oggi è facile convivere con un ascolto orientato per lo più su suoni riprodotti, bisogna comprendere quale novità e artificio dovesse apparire appena un secolo fa. È lecito chiedersi quanto la particolarità dell’ascolto mediato abbia influenzato i processi di creazione sonora, di questo il libro mi sembra parli molto bene.

«Ogni nuovo strumento (ogni nuovo mezzo) è l’origine di una nuova forma (mentale, d’arte ecc)» (Savinio 1949) – suggeriva Alberto Savinio; dunque un nuovo linguaggio comporta il confronto con una nuova tecnologia, così come negli anni Venti il suono mediato non si limitava ad essere solo una componente della rappresentazione, anche oggi torna a imporsi una nuova dimensione del suono riprodotto (che sia la voce o altro) mossa da una necessaria conoscenza che rifondi le modalità di presenza e ascolto. Per questo ci si augura che il volume curato da Garda funzioni da buon apripista per suggerire ulteriori casi-studio e un ripensamento fecondo e attivo sulla materia.

Bibliografia

Barthes R. (1986). La grana della voce. Interviste 1962-1980. Torino: Einaudi.

Savinio R. (1989) “È lo strumento che crea la musica”, in Sciascia Leonardo e De Maria Franco. Eds. Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952). Milano: Bompiani.